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Primo: ascoltare

8850328802p400Diversi anni fa, quando frequentavo i gruppi Usenet, leggevo e scrivevo intensamente su it.arti.cinema: e lì ho incontrato la Mafe. Per diversi anni ci siamo scambiati (insieme con un buon numero di altre persone) almeno un messaggio al giorno, spesso di più. Abbiamo parlato di tutto, abbiamo concordato su molte cose, abbiamo litigato (più spesso l’ho vista litigare con altri…), abbiamo riso e soprattutto abbiamo cazzeggiato in gruppo su qualunque argomento. Una volta, mi ricordo, le ho mandato il mio curriculum per chiederle lavoro. Ho saputo in tempo reale di un paio di volte che si è fidanzata (e delle rotture), delle volte che ha cambiato lavoro, ho letto una cronaca praticamente minuto per minuto del suo matrimonio, fatta da un’altra iaciner. Ultimamente IACine è migrato su Facebook e Mafe si è un po’ eclissata, quindi ci siamo persi di vista, ma altrimenti non avrei problemi a definirla una cara amica. In compenso non ci siamo mai incontrati, se non una volta per pochi minuti al termine della presentazione del libro che sto per recensire.

Non dico queste cose per vantare una qualche relazione con l’autrice del libro; lo dico perché nel leggere World wide we (sottotitolo: la presenza in rete delle aziende dal marketing alla collaborazione) ho riconosciuto molto di quella esperienza comune e mi sono chiesto quanto sia comprensibile, il libro, a chi non ha vissuto la rete nello stesso modo. È un dubbio che forse mi ha messo Mafe stessa, quando all’inizio scrive, giustamente:

A me piace pensare che non ci sia bisogno di alfabetizzazione tecnologica e di divulgazione digitale, ed è un pensiero allo stesso tempo ottimista e disperato: non ce n’è bisogno perché la recente e velocissima evoluzione degli strumenti di comunicazione e di partecipazione è un deja new per moltissimi, per tutti quelli che li usano e basta, ed è probabilmente incomprensibile – per sempre – a tutti gli altri.

Andando più oltre sulla stessa linea di pensiero mi sono chiesto se il libro non abbia almeno due livelli di lettura: uno, minimale, che richiede almeno di essere uno di “quelli che li usano e basta” – in un altro punto iniziale leggo

Se per voi gli ambienti digitali sono solo un recinto per egocentrici ansiosi di affermare la propria personalità, se volete a tutti i costi attivare il passaparola ma non sapete  bene quale parola far passare, se fate leggere le mail alla stagista, se non avete mai desiderato conoscere meglio qualcuno solo leggendo le sue parole, se pensate di aver capito tutto di Internet che è “questo_e_quello”, posate il libro, aprite un blog, cercate i vostri compagni di classe del liceo su Facebook, insomma, immergetevi nella Rete e poi tornate qui

e un altro livello, che permette di godere di più della lettura, di chi non solo non è un utonto ma ha vissuto largamente l’esperienza di almeno una community sul web.

Il libro, comunque, è godibile per entrambi questi tipi di lettori… ma sto andando avanti in maniera confusa. Facciamo ordine.

World wide we, di Mafe de Baggis (Apogeo, € 15)

World wide we si rivolge, prima di tutto, ad aziende che vogliono progettare la propria presenza in rete, ma è un libro interessante per chiunque voglia crescere nella propria comprensione delle dinamiche del web. Il libro è articolato in quattro parti: una introduttiva (che è forse quella che ho apprezzato di più), una seconda in cui si ragiona dei passaggi necessari per la costruzione di una propria strategia in rete, una terza in cui, a partire dalle scelte strategiche effettuate, si analizzano alcune dimensioni più operative (questa terza parte è lunga quanto le prime due insieme), e una quarta e ultima parte su due aspetti particolari della gestione della community.

Se World wide we fosse un libro di cucina avrebbe relativamente poche ricette e molte riflessioni sul cibo: il suo utilizzo migliore non è dal punto di vista del “manuale d’istruzioni” operativo – anche se a una rilettura ci si rende conto che i suggerimenti pratici ci sono, eccome – quello che è il suo punto di forza è la capacità di mettere in ordine pensieri e riflessioni che tutti quelli che hanno passato un po’ di tempo sulla rete hanno maturato ma che probabilmente non sono riusciti a esplicitare del tutto, neanche a se stessi. D’altra parte io, pur avendolo comprato nel 2010 quando è uscito, l’ho letto a varie riprese nel 2012 e ho notato che non è affatto invecchiato, sebbene nel mondo digitale due anni possano essere un’eternità: e secondo me dipende proprio da questa qualità del libro di concentrarsi sui temi di fondo; altri libri che pretendono di prendere per mano il lettore e spiegargli minutamente il cosa e come della rete – ne sto leggendo uno di Spadaro adesso – a poca distanza dalla pubblicazione sono già del tutto superati.

Questa dimensione così peculiare è anche ciò che rende il libro interessante, per esempio, per un blogger dilettante come me, per una associazione culturale che non ha grandi obiettivi economici ma che vuole progettare lo stesso con accortezza la sua presenza in rete, e per altre realtà simili che non sono aziende ma si giocano consapevolmente la propria identità digitale: anzi, forse il libro è più comprensibile per questi, che non hanno l’ansia del prodotto da piazzare, che per un’azienda che rispetto al web ha comunque la precomprensione del fatto che i conti devono tornare.

Forse per mettere le mani avanti rispetto a questa ansia delle aziende (posso solo immaginare quali siano le “richieste impossibili” con cui consulenti come Mafe si confrontano continuamente) ci sono in World wide we due concetti ripetuti continuamente, come un mantra.

Il primo riguarda la capacità di ascoltare. Stare sulla rete vuol dire accettare il fatto che la comunicazione è bidirezionale: la rete non è la TV, in cui chi possiede il mezzo parla e il telespettatore ascolta. In questo senso il sottotitolo parla di passaggio dal marketing (che è in fondo la preoccupazione di dire sempre meglio le proprie parole), alla collaborazione, in cui ci si apre anche alle parole degli altri.

Il primo passo di qualunque percorso online, indispensabile per impostare correttamente qualunque azione, è l’ascolto.

Il secondo concetto è che per poter ascoltare i propri clienti, attuali e potenziali, occorre che siano liberi di parlare e, perché questo succeda, gli ambienti di dialogo forniti, cioè le community che il libro insegna a costruire, devono essere liberi – che non vuol dire senza regole. C’è una dimensione di rischio nel cedere (condividere) il controllo ai (coi) propri utenti, e immagino che molte aziende la vivano con una preoccupazione insopportabile, ma il libro è costruito per dimostrare che in questo modo i risultati, anche dal punto di vista economico, possono essere maggiori che in qualunque altro modo.

Due domande

Il libro, come avrete capito, mi è piaciuto molto: ho però due perplessità e un po’ mi spiace di aver perso di vista Mafe perché avrei voluto proprogliele direttamente (tanto su it.arti.cinema si è sempre parlato più di altre cose che di cinema).

Il primo dubbio riguarda l’ottimismo, persino commovente, sul fatto che una presenza in rete delle aziende del tipo descritto sia un motore potente di miglioramento e di innovazione sociale:

Le aziende piccole e grandi sembrano restie ad abbandonare un modello di organizzazione e di pensiero gerarchico e prepotente, basato più sullo sfruttamento del mercato che sulla collaborazione con i clienti. A uno sguardo più attento, però, i segnali che indicano lo scricchiolio del sistema attuale sono numerosi e vanno tutti nella stessa direzione: per sopravvivere nel mercato globale l’ascolto e la relazione sono la strada migliore e per percorrerla è indispensabile funzionare come un organismo sociale, non come un altoparlante.

La collaborazione/ascolto fra azienda e clienti sarebbe cioè un gioco in cui tutti vincono: viene citato Rifkin:

Il modello distribuito parte da un’ipotesi opposta (alla “mano invisibile” di Smith, NDRufus) sulla natura umana, cioè che quando gli si dà la possibilità di farlo, l’uomo è per natura disposto a collaborare con gli altri, spesso gratuitamente, per pura gioia di contribuire a un bene comune. Inoltre, contribuendo al benessere del gruppo, l’individuo si mette nella migliore condizione per promuovere il proprio interesse particolare.

Ecco, il mio dubbio sta qui: qualunque azienda? Perché il libro non entra mai nello specifico della qualità di azienda di cui stiamo parlando: il modello di community proposto potrebbe essere applicato, volendo, anche a un’azienda di armi nei confronti dei suoi clienti neonazisti, a McDonald’s, alla Shell. Non ho dubbi che che ciascuna di queste aziende, solo tramite l’ascolto e la compartecipazione coi propri stakeholders (perché è di questo che stiamo parlando) possa offrire servizi migliori… che possa contribuire  a migliorare il mondo mi sembra più difficile.

È chiaro che la risposta sarebbe, banalmente, che se abbastanza persone si mettessero in dialogo con McDonald’s questa potrebbe comprendere la convenienza di sostituire gli hamburger con carne prodotta con disciplinari migliori (è la base della responsabilità sociale d’impresa, questa), ma trovo comunque che da qualche parte manca qualcosa; del resto l’esempio c’è: McDonald’s Canada ha avviato un percorso di confronto trasparente coi propri consumatori, con un sito dedicato. Un esempio di confronto certamente apprezzabile, ma ha realmente fatto la differenza rispetto a quello che Rifkin chiama “il benessere del gruppo”? Un po’ ne dubito.

L’altra perplessità riguarda un assunto circa la vita della community, che è correttamente esplicitato da Mafe, e che riguarda il fatto che la conversazione non possa essere manipolata, né dall’azienda né da singoli attori; perché se questo non fosse vero rientriamo per forza in meccanismi di conversazione unidirezionali e non di collaborazione.

È questo l’unico caso in cui ho trovato il libro un po’ invecchiato: perché la mia impressione è che si pensi ancora alle distorsioni della comunicazione nelle community come ad azioni più o meno individuali: il flamer, il troll, il lamer, lo spammer. Non so se scrivendo Mafe avesse invece in mente forme più strutturate di manipolazione, da influencer professionista, per esempio l’utilizzo di masse di manovra costituite da profili falsi e fenomeni del genere: c’è molta cura nel dire che l’utilizzo di queste pratiche scorrette è un petardo che rischia di scoppiare in mano all’azienda, ma non sono sicuro che questo sia ancora vero, in particolare non mi pare che le tendenze della comunicazione politica e le esperienze degli ultimi tempi lascino ben sperare per il futuro – o almeno mi pare servirebbe una riflessione maggiore.

Pur con queste perplessità (che sono davvero minori rispetto a tutto ciò che il libro regala) l’impianto di World wide we è davvero ottimo, e man mano che prendo in mano altri testi mi rendo conto di quanto questo sia una spanna sopra: compratelo!

Facebook Comments

9 pensieri riguardo “Primo: ascoltare

  • Che dire? Prima di tutto grazie, non solo per gli apprezzamenti ma soprattutto per l’attenzione, che è merce rarissima.

    Provo a (cercare di) rispondere alle tue domande, che sono anche le mie: tu ti chiedi “qualunque azienda?” e io rispondo di sì, ma con una nota di speranza: è più difficile che un’azienda “evil” trovi persone disinteressate a collaborare per il bene comune, è sicuramente più facile che si trovi meglio con i vecchi metodi di manipolazione e persuasione.

    Per quanto riguarda le azioni di manipolazione strutturata devo ancora vederne gli effetti di distorsione, non nel senso che non ci sono, ma nel senso che non producendo appartenenza di solito scorrono come acqua sulla papera, a meno che non vengano prese per vere e rilanciate dai media. L’attenzione è una risorsa scarsissima e per ottenere dei risultati serve ben altro che l’acquisto di follower: magari penserò “guarda sta’ cagata quanti like”, ma prima di cambiare idea, beh, devono essere azioni davvero molto molto ben realizzate (e raramente lo sono).

    Comunque sì, sono un’ottimista, anche se mi piace pensare di essere un’ottimista pragmatica: a pensare bene io raramente ho sbagliato (qualche volta sì, ma nelle code della distribuzione).

    Baci e grazie ancora

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    • Ma infatti è l’ottimismo (ok, pragmatico), insieme con la competenza ovviamente, che nel libro dà molta forza all’esposizione.
      Le domande sono chiaramente di quelle che ci si deve sempre porre ma che non hanno una risposta definitiva, e le tue risposte sono in fondo quel che mi potevo immaginare: sulla prima il caso di McDonald’s Canada mi pare davvero significativo (non so bene di cosa, ma di qualcosa…), invece sulla seconda sono molto influenzato da quel che vedo di comunicaizone politica, mentre forse tu pensi più alle ziende: il problema è capire se la politica in questo momento anticipa tendenze o fa cose di retroguardia 😉

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  • Anche a me il libro è piaciuto tanto..
    Le community sono viste come legami e relazioni fra persone, piuttosto che numero follower e like. E che i social sono uno strumento per la community e non la community

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    • Si, sono due aspetti importanti che non ho citato, e che permettono anche di svincolarsi dalla schiavitù di un certo strumento solo perché è di moda.
      Però, Andrea, quando commenti usa sempre la stessa identità, che mi sconvolgi la whitelist 😉

      Rispondi
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