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Racconti che sono recensioni

Avevo sempre desiderato leggere Gli Scorpioni del Deserto di Hugo Pratt e dopo la visita alla bella mostra di Cagliari dedicata al grande fumettista, dove erano esposte alcune tavole originali, mi sono deciso e ho comprato l’edizione integrale (Lizard, € 29,00, anche se io l’ho trovato con un piccolo sconto).

L’edizione

Avevo qualche esitazione perché la Lizard ha fama di rimontaggi delle tavole non sempre rispettose dell’opera originale, ma se ci sono differenze io non sono in grado di coglierle (ho dato un’occhiata in rete ad alcune tavole tavole originali) e l’edizione è complessivamente molto bella, con una lunga pare introduttiva contenente magnifici acquerelli e altri lavori preparatori di Pratt. Il fumetto è nel bianco e nero originale – così erano anche le tavole della mostra – anche se alcuni dei racconti che compongono l’opera devono essere usciti direttamente colorati su rivista.

La trama

Il libro riunisce cinque racconti usciti separatamente lungo un arco di tempo di più di vent’anni, dal 1969 al 1992: Gli scorpioni del deserto, Piccolo Chalet, Vanghe Dancale, Dry Martini Parlor e Brise de Mer.

Il nome della serie prende spunto dal soprannome di quelli che sono inizialmente i protagonisti, cioè gli uomini del Long Range Desert Group che durante la II Guerra Mondiale operava contro gli italiani al confine fra Egitto e Libia, e che dovevano essere un discreto gruppo di bucanieri sul genere del SSRF di cui ho parlato un’altra volta. Come quelli, anche gli Scorpioni sono nel racconto di Pratt un gruppo abbastanza eterogeneo e multinazionale: fra loro c’è anche un polacco, il tenente e poi capitano Koïnski, che pian piano diventa il protagonista assoluto (e solitario) dei racconti, mentre l’azione si sposta dalla Libia all’attacco che gli inglesi conducono verso l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia occupate dagli italiani.

Ovviamente per me il racconto, i luoghi e le situazioni hanno un sapore particolare perché è esattamente lo stesso periodo in cui i miei nonni, mamma e Enrica erano in Africa, i vagabondaggi di Koïnski ricordano il famoso viaggio di un paio di settimane in boscaglia che i miei e altri fecero per rifugiarsi da Addis Abeba a Mogadiscio e in ogni caso personaggi, ambienti e situazioni fanno parte delle memore familiari – del resto mamma ricordava vagamente di avere conosciuto Pratt ad Addis Abeba, «si dava arie molto da adulto», diceva.

Tematiche…

Il primo racconto è abbastanza convenzionale, ma già Koïnski appare, sostanzialmente, come il Corto della Ballata del Mare Salato: un gentiluomo di fortuna, un po’ più cinico e un po’ più ferito nell’intimo, ma in un ruolo analogo di testimone e deus ex-machina, mentre la platea è occupata principalmente da altri – alcuni dei quali fanno una brutta fine, come è normale. Nei quattro racconti successivi Koïnski occupa sempre più una posizione centrale di assoluto protagonismo, sempre attorniato da una folla di comprimari (a un certo punto compare anche Kush, l’amico di Corto Maltese) molti dei quali continuano a fare una brutta fine, e la cosa non può più essere normale. Dal terzo racconto in poi la serie acquista un’unità tematica che è anche nella compattezza degli eventi, con ogni racconto che conduce armoniosamente a quello successivo (e sono rimasto molto stupito, preparando questo articolo, di notare che ben dodici anni dividono il terzo racconto dagli ultimi due).

Recentemente, a lezione di narrazioni per videogame, scherzando dicevo ai partecipanti che la trama dei racconti è praticamente sempre la stessa: Koïnski parte per una qualche missione nel deserto sudanese, nel deserto dancalo o in un qualche altro deserto, arriva un aeroplano che mitraglia la camionetta, autoblindo, barca o altro mezzo di trasporto e lui si ritrova sperduto nel deserto (sudanese, dancalo…) da solo o con qualche strano compagno di viaggio, diretto verso un fortino regolarmente sperduto, fisicamente e moralmente. Dicevo anche che l’uso insistito di uno stesso espediente narrativo ricorrente diventa stucchevole o incredibile a meno che non si abbia la forza di farlo diventare tematico; adesso che ho terminato la lettura devo dire che questa è un’operazione che qui a Pratt riesce benissimo: per quanto Koïnski sia tragicamente attaccato al dovere e alla missione da compiere (e probabilmente all’odio per i tedeschi che gli hanno occupato casa) complessivamente la guerra appare come una tragedia priva di senso che stravolge le vite delle persone, in primis dei combattenti ma non solo, e lascia dietro di sé poco più che dei naufraghi – o più esattamente, persone abbandonate nel vuoto del deserto, che è un vuoto fisico ma anche esistenziale: beati sono quei pochi, come il citato Kush, il tenente Fanfulla e l’Adrienne degli ultimi due racconti, che hanno in sé stessi una struttura che li preserva dallo smarrimento: alla maggior parte degli altri non succede.

Peraltro, avere una struttura e non smarrirsi nel deserto – o smarrirsi come accade a Koïnski ma tenendo sempre con sé la bussola del dovere/odio – non preserva necessariamente dal fare una brutta fine, come accade a un sacco di comprimari, compresi purtroppo molti di quelli simpatici: anche questa spietata opera di mietitura di Pratt è volontaria e tematica, non semplicemente gusto per il melodramma, perché la guerra non fa distinzioni e coloro che dalla guerra tornano a casa lo fanno spesso dovendo passare attraverso montagne di cadaveri.

… e recensioni

Come ho accennato, Koïnski è una sorta di gentiluomo di fortuna e in molti punti sembra Corto. L’inizio del ciclo narrativo di Corto Maltese è ambientato nei mari del Sud e in un’America Latina piuttosto magica, cioè in uno scenario tipico della grande avventura degli Stevenson, Conrad e Melville che piacevano tanto a Pratt. La guerra “europea” (in questo caso la I Guerra Mondiale) fa già capolino nella Ballata e La conga delle banane ha già esplicitamente una tematica coloniale (o forse, meglio, imperialista) ma complessivamente le tematiche sono ancora quelle del romanzo d’avventura classico. in questo ciclo degli Scorpioni lo spostamento dell’ambientazione in senso spaziale (l’Africa) e temporale (la II Guerra Mondiale) ha l’effetto di sottolineare che che tutte quelle bellissime avventure si svolgevano in un contesto coloniale.

Mi è capitato più volte di notare che ci sono trasposizioni di un’opera (per esempio da libro a film) che svolgono la funzione, mentre la ripropongono, di recensirla, mettendone in luce la struttura su cui e costruita, con pregi e difetti. Qui mi pare che Pratt faccia una sorta di operazione simile su se stesso e, in particolare, non tanto su Corto quanto sul genere narrativo a cui appartiene, mettendo in luce il fondale coloniale, dato spesso per scontato o ovvio.

Non c’è in Pratt quella che oggi sarebbe una riflessione anticoloniale (e Kush o le amazzoni non sono abbastanza per parlare di visuale decoloniale in senso contemporaneo; la visuale di Pratt è semmai quella dei movimenti di liberazione degli anni ’50 e ’60) ; c’è piuttosto, direi, una riflessione sul genere, una sorta di recensione a posteriori del romanzo di avventura per metterne in luce una certa omertà e per suggerire invece un approccio antiretorico: i fortini epicizzati dalle cose alla Beau Geste sono in realtà posti dove la noia, l’abbruttimento, la cupa gestione del potere e l’ubriacatura in fole romantiche macinano via generazione dopo generazioni di giovani, agli estremi confini degli imperi. E la guerra non è il definitivo crogiolo in cui la tempra degli eroi trova la sua definizione, ma un macello abbastanza insensato e casuale, o forse meglio una sorta di naufragio collettivo in cui ognuno si aggrappa dove può.

O forse, in realtà, Pratt non vuole demitizzare gli autori originali; mi sbaglierò ma mi è parso, qui e là, di avere colto echi di cose che erano già in Kipling (un certo Kipling), Stevenson, Conrad o Somerset Maugham; magari quello che ha in mente è la comunicazione popolare basata sull’opera fondativa di alcuni di questi autori ed espressa in centinaia di film, fumetti, romanzi. Come che sia, gli Scorpioni sono una sorta di serpe in seno: un bel racconto di avventura, scritto benissimo e disegnato benissimo, che mina il genere avventuroso alla radice.

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