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Dissonanze audio-cognitive

Questo articolo non parla di giochi, ma non sembra. E per di più ha un titolo con una parola difficile e altezzosa.

Abbiate pazienza e seguitemi.

Qualche volta, per fare quello che ne sa, negli incontri sui videogame parlo di dissonanze ludocognitive.

Cioè, non è vero: non lo faccio per fare il figo, l’espressione la usano anche altri Fabbricastorie nonché altri esperti di cultura ludica e il riferimento è a un noto articolo di Clint Hocking, un signor scrittore di giochi, riguardo al videogame Bioshock. Hocking criticava il fatto che la narrazione interna al gioco presupponesse che il giocatore/personaggio si facesse interprete di determinati valori mentre, contemporaneamente, il modo di vincere presupponeva comportamenti esattamente contrari.

La classica dissonanza cognitiva è quella del sale nella zuccheriera: quando assaggi l’esperienza è straniante; c’è una spiegazione logica (uno scherzo, un errore) ma per un attimo il mondo ti sembra capovolto. Per i giochi l’esempio che faccio sempre non è tratto da Bioshock ma da un giochino per cellulare che si chiamava Etherlords, del quale ho parlato anni fa. In Etherlords la narrazione ti poneva nei panni di un essere superiore destinato a rigenerare un universo impazzito ridotto, letteralmente, in mille schegge. Per fare questo dovevi riconfermare la tua benevola sovranità sulle varie schegge, sconfiggendo i malvagi usurpatori e costruendoti un ampio seguito unitario fra tutti i popoli prima divisi. Questa era la parte narrativa, peccato però che la parte di gioco prevedesse che, per sconfiggere i vari avversari, tu dovessi prendere i tuoi seguaci, i tuoi amati seguaci che così benevolmente avevi deciso di salvare, e fonderli (letteralmente, in una fornace magica) tutti insieme per ottenere altre creature più potenti. L’esperienza era quindi dissonante: un sovrano benevolo impegnato a mettere nella fornace i sudditi.

E adesso basta parlare di giochi, credo che ci siamo capiti. Il fatto è che l’altro giorno ascoltavo la solita playlist settimanale su Spotify e ho avuto un’esperienza che, non sapendo come altro definirla, mi è venuto da chiamare dissonanza audiocognitiva.

Il pezzo che apriva la playlist era The night before, di Lee Hazlewood. Forse è meglio se lo ascoltate, prima.

A prima vista, l’ho presa come una classica canzone country, e infatti l’ho messa nella apposita raccolta e non ho fatto molto caso al testo – nonostante tutto faccio fatica a seguire i testi in inglese, e poi stavo lavorando. Al secondo ascolto, però, ho colto pillow, “cuscino”, che non è molto country. Incuriosito, ho rimandato indietro, mi sono dovuto sorbire la pubblicità e ho riascoltato. Tears on my pillow, diceva, “lacrime sul cuscino”. «Sarà una roba tipo Celentano», ho pensato, «A mezzanotte sai, che io ti penserò… e stringerò il cuscino…», un cowboy innamorato, chissà.

A quel punto ho deciso di fare una pausa caffè – ero in smart working – e ho cercato il testo. The night before vuol dire “la notte prima” e io pensavo che si intendesse la notte prima di qualcosa che deve ancora accadere; forse avevo inconsapevolmente in mente una poesia di Eluard: «La notte che precedette la sua morte | fu la più corta della sua vita | il fatto di essere ancora vivo | gli faceva bruciare il sangue ai polsi», e pensavo che la canzone raccontasse di una notte prima della rapina, del duello all’OK Corral, della cavalcata solitaria.

Invece il testo è un po’ diverso… un po’ molto diverso, e riguarda la notte precedente (vedo che lo stesso vale per un canzone dallo stesso titolo dei Beatles). Ve lo traduco:

Mi sveglio la domenica mattina
con la mente tutta annebbiata
il cuscino macchiato di lacrime
e del trucco sul mio viso

Vedo quelle bottiglie di whisky vuote
e dischi sparpagliati per terra
e dalla stanza a fianco sento piangere
allora ricordo la notte prima

L’ho vista ballare alla festa
così giovane con il riso sul volto
e quando gli altri se ne sono andati
parole convincenti e lei è rimasta più tardi

E adesso quelle bottiglie di whisky vuote
mi accusano dal pavimento
sento dei pasi mentre lei va via
si, lei ricorda la notte prima

Se potessi riportare indietro l’orologio
riportarlo a ieri
ci sono cose che non farei
e cose che non direi

Ma ora quelle bottiglie di whisky vuote
per sempre nella mia mente d’ora in poi
e nel silenzio sento piangere
si, ricordo la notte prima.

Ora.

Sono rimasto abbastanza colpito.

Il testo in alcuni passaggi è ambiguo e c’è un certo grado di incertezza su quello che è effettivamente successo: a occhio, però, abbiamo uno che ha preso una ragazza che potrebbe essere sua figlia e, se va bene, l’ha indotta a un festino alcolico in cui hanno fatto sesso da sbronzi, al peggio l’ha violentata in preda ai fumi dell’alcool e, se proprio vogliamo adottare un punto di vista mediano, probabilmente l’ha ubriacata per abusare di lei.

La canzone è del 1970, quindi diamo pure per assodato che quello che oggi sarebbe molto probabilmente criminale e comporterebbe in ogni caso la morte civile ai tempi fosse solo oggetto di (auto)riprovazione morale. A me non pare che fosse esattamente così, ma ho dato un’occhiata alle recensioni del pezzo e non mi pare che effettivamente si alzino grosse sopracciglia: vedo espressioni come «Hazlewood veste i panni di un amante…» (amante?!) «…pieno di rimpianti» (Uncut), «… ha macchie di lacrime sul cuscino e trucco sulla faccia e vede bottiglie di whisky vuote e dischi sparpagliate sul pavimento. Dalla stanza a fianco sente piangere e allora ricorda la notte prima… Ci siamo passati tutti» (tutti?!) (Americana-UK), «la canzone… certamente cattura la stordita sensazione di rimpianto che viene dalla scoperta di bottiglie vuote di whisky e presumibilmente di una donna che se ne va dopo che lui ha avuto una cattiva condotta durante la notte» (cattiva condotta?!) (Song-bar).

Era il 1970, a cavallo fra due decenni sfrenati, il passato è una terra straniera e l’alcool rende più difficile dare un giudizio morale preciso su una storia messa in scena senza troppi particolari, e poi in ogni caso chi se ne frega, tanto l’elemento che mi ha colpito non è che sia una storia raccontata da un punto di vista molto maschile e oggi insostenibile; Maria Bonaria ha ascoltato un rapido riassunto del testo e ha sentenziato che è un punto di vista troppo comodamente autoassolutorio, e tutto sommato mi trovo d’accordo; e quello che mi ha colpito non è neanche il fatto che nessuno dei commentatori abbia trovato il testo quanto meno problematico (lo stesso articolo di Americana già indicato ha un altro bel passaggio: «una delle migliori canzoni mai scritte sullo svegliarsi dopo averci dato dentro alla grande [after a heavy session, NdRufus]»), dove il gioco di parole è del tutto inconscio.

O meglio: la tranquillità assoluta dei commentatori mi ha colpito dopo. Ma quello che mi ha colpito durante quell’ascolto in cui, ignaro di quello che mi aspettava, avevo fatto ricominciare da capo la canzone col testo davanti e il caffè in mano per capire di cosa parlasse, è che la musica non c’entra niente. La musica suggerirebbe tipo la ballata del pistolero solitario, Antenòr e la vendetta del mescalero, il poker destinato a finire a pistolettate, cose così.

Mi sono sentito come se avessi scoperto che il testo originale di Luce rossa, cantata tante volte al bivacco ai campi scuola, aveva in realtà un testo tipo:

Era sbronza (era sbronza)
là sul letto (là sul letto)
l’ho spogliata (l’ho spogliata)
tutta nuda (tutta nuda)
ci farò molto sesso with my rifle, my pony and me.

Dissonanza audio-cognitiva, non c’è altra parola: leggi una cosa e ne senti un’altra.

Devo dire che probabilmente sono io, come quello contromano sull’autostrada, che non capisco. Nei commenti nessuno nota l’incoerenza e per l’accompagnamento musicale ci sono solo parole di apprezzamento: «un melodramma romantico re-impacchettato come una melodia tascabile» (il citato Uncut, per quanto forse questo non sia esattamente un complimento), «The night before ha uno spavaldo andamento funky avvolto in corde [strings, strumenti a corda, NdRufus] di velluto che puzzano di fumo e rimorso» (Drowned in sound), «una canzone brillantemente languida, con corde torride, ottoni alla messicana [Tijuana brass, cioè un suono alla Herb Alpert, NdRufus], un organo groovy e una rilassata chitarra funky» (il citato Americana).

D’altra parte vedo che gli stessi commentatori più volte citano come raffronto Sunday mornin’ comin’ down, di Kris Kristofferson, che tematicamente è sicuramente collegata (scopro in realtà che c’è tutto un sottogenere country dedicato al doposbornia della domenica mattina) ma che musicalmente non c’entra niente, nel senso che in Kristofferson musica e testo si corrispondono perfettamente.

E quindi? Boh.

Volevo raccontarvelo: è una cosa che mi è successa e ci sono un po’ di cose in mezzo, in questa storiella, che ho trovato stimolanti e sulle quali sto ancora riflettendo: forse ne uscirà qualcos’altro da raccontare, forse no. Nel frattempo ho scoperto Hazlewood che, nonostante quello che può sembrare in questo articolo, trovo in realtà estremamente simpatico, dopo aver letto la sua biografia. Non simpatico come un altro cantante che ho scoperto in questo periodo, Blaze Foley (il quale, come suol dirsi, è un’altra storia che sarà raccontata un’altra volta) ma simpatico, anche nel suo essere in fondo un perdente (di genio, come peraltro era anche Foley).

Nel frattempo ho ricominciato a scrivere. Vediamo se dura.

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