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La (non) vittoria del no profit inglese

La settima scorsa ero in Scozia con Maria Bonaria, al matrimonio di Andrea Veneruzzo (sì, quello del criterio Veneruzzo), e ne abbiamo approfittato per trattenerci un paio di giorni nella regione del Border. È stata una bella vacanza, che sicuramente era necessaria, nella quale ci sono successe un sacco di cose interessanti, a partire naturalmente dal matrimonio.

La cosa di cui vi voglio parlare, però, è una cosa di cui mi sono reso conto nei giorni successivi, nella ridente cittadina di Hawick (si pronuncia oik) dove alloggiavamo.

Ora, Hawick è il centro più importante del Border ma rimane piuttosto piccola: funge da centro amministrativo e commerciale della zona e come tale, in una strada principale cha sarà al massimo di cinquecento metri o nelle immediate vicinanze, ha due monumenti dedicati a quando i giovani del paese hanno passato a fil di spada gli inglesi (due monumenti, uno all’inizio della strada e uno alla fine, così tanto per rendere ben chiare le cose), la sede dell’amministrazione provinciale e di quella comunale, tre o quattro negozi di barbiere (tradizionale turco, chissà perché), tre kebabbari, due ristoranti, due pub, tre o quattro caffetterie che fanno anche da mangiare, un bed&breakfast, una rosticceria cinese desolatamente vuota a ogni ora, un caffè/cinema, un posto dove ogni tanto si ascolta musica e si beve molto, un fotografo, tre negozi di moquette, quattro agenzie immobiliari, due avvocati, un podologo, un supermercato di quartiere, un discount di prodotti surgelati, il museo dell’industria tessile locale, tre ristoranti italiani, un negozio di caccia, pesca, coppe e targhe, un antiquario-con-ricordini, due banche, due negozi di telefonia, un pachistano che vende attrezzature elettriche, il negozio aziendale di due industrie tessili e, per finire, una cartolibreria.

Cosa manca?

Beh, il vestiario, magari. Solo che questa categoria merceologica, insieme agli articoli da regalo e al materiale per la casa, è coperta dai negozi che vendono articoli di seconda mano per beneficenza: cinque in totale più una delle caffetterie, fondata dalla chiesa battista locale, il che rendeva i negozi no profit o simili di gran lunga il tipo di negozio più diffuso.

Notate dal riflesso della vetrina che le due realtà che operano nello stesso settore sono una davanti all’altra

I due negozi le cui vetrine vedete qui sopra operano nel settore della salute. C’erano poi un negozio dell’Oxfam, uno di una specie di protezione animali e l’Esercito della Salvezza, che ha la primogenitura di questa specie di attività.

La comunicazione delle varie realtà, pur nelle differenze specifiche, era abbastanza omogenea e corrispondeva anche a quella di aziende del luogo specificamente profit: a parte eventi del momento, come l’appoggio al Pride, il tema pervasivo era quello della comunità, tanto che perfino il grande supermercato Morrisons alla periferia del paese usava un linguaggio che sarebbe stato più adatto a una coop di quartiere o a un negozio locale: essere a sostegno alla comunità, essere al servizio della comunità, essere espressione della comunità erano temi ricorrenti. Che cosa fosse questa compromissione con la comunità non sempre era chiarissimo, e di solito assumeva la forma della raccolta fondi (non della destinazione dei profitti) per una qualche causa locale. Morrison gestisce per conto suo campagne a valenza nazionale, e chiedeva sostegno per queste, altri negozi promuovevano questa o quella causa locale.

Questo era in un paese vicino

L’altro tema ricorrente era quello dei volontari. Ora, The Almond Tree, cioè la caffetteria, ha come progetto esattamente quello di dare una professionalità a giovani svantaggiati: io non conosco bene la situazione scozzese in una provincia periferica come il Border, e forse il massimo che può fare è farli lavorare come volontari – ho molte perplessità, devo dire, perché sarebbe più equo che siano pagati, e in Italia le cooperative sociali che corrispondono al tipo di impresa che è The Almond Tree fanno inserimento lavorativo, cioè pagano, ma mettiamo che lì la situazione sia particolare. Negli altri negozi la richiesta di volontari – cioè di persone che non fossero già socie dell’una o dell’altra organizzazione – non aveva nessuna giustificazione se non l’utilità di avere forza lavoro gratis ed era esplicitamente basata sul do ut des: tu vieni a lavorare con noi e così acquisisci esperienza da mettere nel curriculum. Non siamo esattamente al pagare in visibilità, ma quasi.

Ora, all’epoca d’oro del volontariato in Italia, negli anni ’80, era normale lavorare per questa o quella impresa sociale senza essere pagati, e quel tipo di volontariato aveva un enorme dinamismo, ma era un lavoro volontario funzionale al perseguimento di qualche scopo sociale che si considerava proprio, che si trattasse di promuovere la cultura ludica, di assistere un portatore di handicap o di educare cristianamente il laicato – giusto per dire cose che ho fatto direttamente. Visti gli annunci di ricerca esposti nei vari negozi, qui di adesione a uno scopo sociale non sembra sia il caso di parlare.

Peraltro, nei nostri giri la presenza dei volontari era pervasiva: qualunque piccolo museo, centro culturale o luogo storico era popolato di volontari, in questo caso di solito di età anziana, assegnati al ruolo di guide, ciceroni o semplicemente incaricati di fare buona accoglienza. Si sentiva molta partecipazione e amore per il luogo custodito, e anche molta comprensione del proprio ruolo: al museo archeologico di Melrose l’ansia di un vecchietto di fornirci assistenza, qualunque assistenza, si avvicinava parecchio alla molestia: «Non esitate a chiedermi qualcosa, qualunque cosa? E allora, non avete nulla da chiedermi? Proprio niente?! Eh? Eh?? Nulla?!?!». Altrove, come nell’abbazia di Melrose o nella casa di Maria Stuarda a Jedburgh, il ruolo era molto più leggero e, di conseguenza, molto più autenticamente accogliente.

Dopo i primi giri e l’esserci accorti della cosa, riflettevo: ma qui, abbiamo vinto o abbiamo perso? I negozi no profit occupano un intero settore merceologico. Riciclo, riparo, riuso: cosa c’è di meglio? C’è un robusto tessuto di volontariato locale, che offre supporto al mantenimento della memoria storica del luogo, alla vivacità delle attività culturali e anche all’efficacia e efficienza delle imprese sociali.

Cosa può andar male?

Boh. Una dei sospetti sgradevoli che ho è che, per esempio, il successo dei negozi di seconda mano non sia segno di un consumo responsabile, ma della scelta obbligata di una clientela impoverita che non è però disposta al servirsi di negozi di fascia bassa. Un impoverimento che non è solo delle famiglie: se tutti i musei sono stati trasformati in fondazioni o in partnership pubblico-privato può darsi che non sia una scelta di aprire la gestione del bene culturale alla partecipazione civica, ma di ovviare col lavoro dei volontari al calo dei fondi messi a disposizione dal pubblico (il racconto del gentile bibliotecario di Hawick, mentre ci faceva visitare la sua – bella – biblioteca andava del tutto in questo senso). E sul lavoro dei giovani e giovanissimi impegnati a rimpolpare il curriculum vendendo abiti di seconda mano pesava la spiegazione data dai nostri amici quando ci siamo resi conto che dappertutto i camerieri dei locali erano giovanissimi: siccome in Inghilterra c’è il salario minimo, ma è stato stabilito che per i minorenni il salario minimo è progressivamente inferiore più bassa è l’età, allora c’è un effetto di spiazzamento per il quale una serie di attività preferiscono impiegare minorenni part time piuttosto che adulti, disincentivando oltretutto la prosecuzione degli studi: il che sarà senz’altro un progresso del capitalismo, ma proietta delle ombre molto ottocentesche su tutto l’ambiente.

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