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Un giallo sentimentale che è quasi un drammone

Nota: qualche minima anticipazione sulla trama.

Il passato (Asghar Farhadi, Francia-Italia-Iran 2013)

Ahmad torna a Parigi dall’Iran dopo quattro anni: deve firmare le pratiche che renderanno definitivo il suo divorzio da Marie. La donna nel frattempo si è legata a un nuovo compagno ma la sua vita è complicata e conflittuale, soprattutto nel rapporto con le figlie – nate da un precedente legame – e con Fouad, il figlio che il nuovo compagno ha avuto dalla precedente moglie: così Marie combina le cose in modo che Ahmad abiti per qualche giorno con loro, anziché in albergo, nella speranza che almeno lui riesca a capire quali sono i tormenti che agitano le figlie, in particolare la maggiore, Lucie.

Il passato è un film abbastanza seccamente diviso in due parti. Nella prima l’angolo visuale è quello di Ahmad: il quale conosce già quasi tutti i componenti della famiglia – e Fouad e il padre non sono, a prima vista, difficili da capire a partire da zero – ma fronteggia un intervallo di quattro anni in cui questo interno domestico è andato avanti senza di lui e ha trovato nuovi e precari equilibri. Accompagnando Ahmad lo spettatore entra con lui in questo tentativo di dipanare un passato prossimo rispetto al quale è – scusate la battuta che ricama sul titolo – in un passato remoto: una sorta di investigazione dei sentimenti nella quale man mano i personaggi, le loro relazioni reciproche e, diciamo pure, i loro segreti vengono rivelati, modificando continuamente la percezione dei torti e delle ragioni. Fa da sfondo a questo viaggio di rivelazione progressiva una Parigi mai così spoglia, fredda e respingente: quasi una premonizione che non c’è posto qui per Ahmad, uomo del sole, delle relazioni aperte e delle rivelazioni.

Finché al povero Ahmad in un certo senso la vicenda esplode in mano con l’ultima, dolorosissima scoperta. A questo punto il film lo abbandona (ricomparirà solo brevemente alla fine), abbandona anche il tema investigativo-sentimentale per diventare, in un certo senso, investigativo e basta, e diventa direttamente il dramma di Marie e di Samir che devono fare i conti con ciò che comporta nelle loro vite il segreto che è stato portato alla luce. Qui il film si merita il suo titolo in modo diverso che nella prima parte: il passato non è più terra sconosciuta da esplorare ma peso da portare e peccato collettivo – vedo che a Cannes il film ha vinto il premio della giuria ecumenica – con cui fare i conti. Marie e Samir faranno la loro scelta, forse l’unica possibile: Farhadi – anche autore della sceneggiatura – non giudica, non fa calare dall’alto il suo pensiero, anche se forse qualche piccolo dubbio – chissà – gli rimane, e certamente rimane allo spettatore.

Mi rendo conto, adesso che scrivo, che in qualche modo Ahmad è figura di Farhadi stesso, il suo strumento per mettere a nudo la tragedia che cova nascosta, e che una volta portatala alla luce deve scomparire dalla scena, mettersi da parte così come lo stesso regista si mette da parte, limitandosi a registrare partecipe le decisioni degli altri personaggi; detto così posso rivalutare anche la sensazione che ho avuto durante la visione che la cesura fra la prima e la seconda parte fosse troppo brusca e il tono della parte finale troppo melodrammatico: nel ricordo mi rendo conto che questi difetti sfumano e si ricompongono in maniera più armoniosa.

Bravissimi gli attori.

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