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Virtù terapeutiche di Al Bano

Sabato ero a Linate, di ritorno dall’incontro di rete di Banca Etica. Dopo il check-in e i controlli di sicurezza ho notato un capannello di persone: c’era della gente che aveva incontrato Al Bano, di passaggio anche lui, e si stava facendo fotografare con la celebrità.

Non sarei l’amichevole Rufus che tutti stimate ed amate se avessi ceduto al gusto banale della foto ricordo con l’illustre sconosciuto e quindi, sentendomi molto superiore, ho tirato dritto.

Solo che mercoledì, a Fiumicino, di ritorno dalla riunione del Forum dell’Area Centro, con un mal di stomaco da tensione che avrebbe stroncato anche i fratelli Marceddu [1] e più di due ore di tempo da ammazzare mi siedo a uno dei bar dell’aeroporto a bere, mestamente, un caffè d’orzo. A fianco a me un signore  tracagnotto, con la sciarpa e un bellissimo feltro bianco, che leggeva assorto il giornale. Al Bano. Di nuovo!

Ora: non è che i frequentatori degli aeroporti italiani siano tutta la popolazione, ma sono comunque diverse decine di migliaia; la coincidenza di incrociarsi due volte a pochi giorni di distanza (o anche a molti mesi) è notevole: per dire, una volta ho incontrato Belen e poi non l’ho più rivista, mannaggia. E quindi sono rimasto debitamente colpito dalla cosa.

Ho anche fatto una di riflessione sull’epistemologia della scienza, pensa un po’. Ho pensato: basandomi sull’evidenza sperimentale, e sapendo che l’improbabilità di questo incontro ripetuto ha necessità di una spiegazione, bisogna trovarne una: per esempio che Al Bano mi pedina. È una conclusione perfettamente coerente, scientifica.

Ho anche pensato: «Nooo, dai, oggi la foto insieme gliela chiedo». Ma quello era lì così sereno che si leggeva il giornale, scuotendo appena il capo a qualche dichiarazione politica più indecente di altre, che non ho avuto il coraggio di disturbarlo.

Vigliaccamente ho sperato che arrivasse qualcun altro, più sfrontato di me, e gli chiedesse la foto. Allora, mi sono detto, con quel pretesto gliela chiedo anch’io. E glielo dico che l’ho visto anche a Milano e che guarda che bella coincidenza, pensa un po’ e tutte quelle cose lì.

Oh, niente, ma niente proprio. Che quando vorresti che la plebe insolente e rumorosa che assedia le celebrità si manifestasse puoi stare lì ad aspettare inutilmente per ore. Anzi: essendo il nostro un angolo piuttosto isolato di Fiumicino, siamo stati per una mezzoretta là da soli, io col palmare a leggere avventure di mare e Al Bano col suo giornale. Poi arriva un tizio con l’aria di camionista – in realtà un agente di commercio, scopriremo poi – con un panozzo più grande di lui. Quello si siede, squadra Al Bano – zacchete! ci siamo, mi dico – allunga la zampona, gli dice: «Ciao!», gli stringe la mano e si rituffa beato nella porchetta di Ariccia.

Niente foto.

Scoraggiato, me ne sono andato. Però mi è passato il mal di stomaco, mi è passato.

Felicità!

[1] Cagliaritani di un tempo, fabbri del quartiere di Castello, famosi mangiatori di cui si racconta sopravvivessero illesi a pantagrueliche gesta gastronomiche.

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