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Metti una sera una tragedia greca

Vorrei raccontarvi un episodio che mi è capitato ieri, che mi ha fatto molto ridere e che secondo me dice parecchio anche sull’Università italiana, sia in sé sia per come si è costruito… e raccontarvelo mi dà anche l’occasione di riferirvi delle altre cose spero interessanti.

Dunque, secondo il principio per cui si mettono le pezze nuove sul vestito vecchio, l’Università ha a disposizione fondi straordinari per quelli che vengono chiamati visiting professors, cioè studiosi di chiara fama di Università straniere che vengono a tenere corsi brevi (una dozzina di ore, diciamo) su argomenti specifici. È una (buona) pratica di stampo anglosassone, solo che lì è un evento molto celebrativo, spesso dell’identità di una intera Facoltà, qui finisce spesso per essere un seminario per i quattro gatti che seguono le lezioni di quell’esame. Comunque… lodevolmente, tutti gli organizzatori di questi seminari mandano l’invito in forma pubblica nella posta interna dell’Università, e così sono venuto a conoscenza del fatto che Peter Burian (che suppongo sia un’eminenza) della Duke University avrebbe svolto sei lezioni sul rapporto fra teatro e democrazia nell’Atene del V secolo, argomento che mi interessava. Così, ieri sono andato alla prima lezione.

La scena è già da descrivere: non l’aula magna, ma un’auletta scomodissima. Il pubblico, il docente organizzatore (in prima fila), affiancato da due assistenti. In ultima fila, sornione, un altro docente. In seconda fila, una professoressa simpatica. Il resto del pubblico? Una trentina di studenti , fra cui tre soli maschi: l’unico giovane in seconda fila, due anziani nascosti in fondo. Le ragazze, tutte giovani, divise rigidamente in due categorie: le fighe, vestite come per una serata di caccia grossa al Caffé degli Spiriti, e le studiose, acqua e sapone. Tutti e tutte uniformemente annoiatissimi.

Il buon Peter ha quella grazia e quella informalità che tanto spesso hanno gli studiosi di stampo anglosassone, e quella semplicità di esposizione che è data dalla profonda conoscenza della materia, così mi diverto moltissimo.

La lezione aveva un obiettivo introduttivo: perché Euripide, massimo tragediografo dell’epoca, non vinse il primo premio per Le Troiane? È possibile che gli Ateniesi si sentissero offesi da quella messa in scena di donne dolenti, provenienti da una città distrutta, i cui padri, mariti e figli erano appena stati massacrati, in attesa di essere spartite come bestiame fra i vincitori, perché non di una scena mitologica si trattava, ma di cruda attualità, del trattamento che Sparta aveva riservato a città amiche di Atene e che la stessa Atene riservava agli alleati di Sparta? Il fatto che appena tre mesi prima della messa in  scena Atene avesse, senza provocazione e senza altro diritto che la forza, massacrato gli abitanti della città di Melo, che non ne accettavano la “protezione”, poté far suonare la tragedia come un rimprovero a una “ragion di stato” abbietta?

Si susseguono, maestosi, i brani di Tucidide, e mentre ascolto e Burian dirama il tema verso una serie di corollari (esercizio del potere, libertà di espressione, libertà “di coscienza”, uguaglianza civile in patria e disuguaglianza politica all’estero, ruolo del teatro come coscienza civile) rifletto come i Greci avessero già ben chiari temi che continuamente si presentano alla nostra riflessione e su cui più volte l’umanità ha dovuto fare lo sforzo della “riscoperta”.

Poi Burian introduce la lezione successiva e accenna a una transizione dell’eroe della tragedia da una dimensione “vecchio stile”, di taglio epico, come l’eroe capace di primeggiare e vincere in battaglia e nei consigli (con il braccio e con la lingua) a un eroe più “attuale” per la città greca matura, meno eroico ma capace di lavorare di concerto con altri, come era necessario per uno che militasse nella formazione oplitica e non più in duelli individuali. A lato di questi due presenta l’eroe comico, furbo, maneggione, faccendiere, teso alla vittoria a tutti i costi nei suoi intrighi… e una lampadina mi si illumina. Mi chiedo: potrò fare una domanda?

Fine della lezione. Il docente organizzatore immediatamente sente il bisogno di recuperare il ruolo, sia fisicamente (e va alla cattedra) sia dal punto di vista della funzione, e ci infligge un pistolotto, così per far capire che tutto ce l’ha sempre in mano lui. Si possono fare domande; gli studenti possono fare domande, infatti la prima domanda la fa il docente stesso! Poi, in sequenza i due docenti, quello in fondo e quella davanti, propongono la loro domanda del cuore, che fortunatamente è almeno in tema, ma che comunque fa riferimento a questioni specialistiche di cui solo loro e Burian sono al corrente… nel mentre l’assistente giovane, carina e aggressiva tenta disperatamente di farsi notare, praticamente rispondendo sistematicamente al posto di Burian, suggerendo i passi e i versetti a cui si sta facendo riferimento…

Gli studenti tacciono; uno, il maschio avanzato, decide di guadagnare un punto è chiede: «Dunque lei pensa che gli Ateniesi si siano offesi?», Burian sorride come a dire: «Di cosa abbiamo parlato fino a ora?», e io decido che chi se ne frega, ho una cosa da chiedere e la chiedo.

«Non è forse vero che le caratteristiche dell’eroe vecchio stile, “epico”, ritornano in quelle dell’eroe della commedia? Non è che, siccome le caratteristiche dell’eroe epico riportano a ideali di stampo aristocratico, questo vuol dire che la commedia mantiene e fa sopravvivere quegli ideali?» … vorrei aggiungere: non è che da qui possiamo arrivare a una tensione, nell’ideale democratico ateniese, fra istanze di tipo individualistico e di tipo comunitario, ma non trovo il modo e non voglio allungare troppo.

Ricevo una risposta cortese e molti complimenti. Gli studenti, palesemente annoiati, sono stufi: la mia domanda ha rinviato di dieci minuti la chiusura. Come Dio vuole, Burian finisce di sorridere sotto i baffi per le implicazioni che la mia domanda gli pone e, dopo un secondo pistolotto, il professore capo ci congeda.

Al momento di uscire sono costretto a passare vicino al gruppo dei docenti, nel quale l’assistente in carriera sta venendo consacrata davanti all’autorità, e educatamente saluto. Il docente mi ferma, e mi chiede: «Ma lei… dunque… è un collega… forse…». «No guardi», dico, «ho solo visto l’invito nella posta interna dell’Università. Sono un impiegato», (potrei aggiungere semplice impiegato). «Ah», fa lui. Taciamo imbarazzati. Non sono un collega e lui non ha più niente da dirmi. Non ho parole per spiegargli che l’argomento mi appassiona. Così, esco a farmi un caffé.

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