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Poesia abbacinante

In gita scolastica

Ieri il Subcomandante Marcos, a un certo punto, esprimeva la preoccupazione che la stoltezza insediata in cattedra inducesse la Legale Buona a perdere interesse per la materia preferita – ma malissimo insegnata – e io mi sono fatto un appunto mentale di raccontare alle giovani generazioni qualcosa delle mie professoresse: quella buona e gentile ma totalmente matta, la piaciona superficiale, quella bravissima che però alla maturità ci caricò freddamente di parti di programma che non avevamo mai fatto, la reazionaria ignorante e violenta che anni dopo, in seguito a una grave malattia, diventò improvvisamente buona e amabile e alla quale perciò non riesco a pensare con rancore e soprattutto la pazza sadica e mistificatrice che faceva greco e latino, alla quale non posso pensare senza disprezzo.

Un tempo quando non sapevo bene cosa dire regalavo libri. Adesso di solito racconto un episodio del mio passato: sono i privilegi dell’essere in giro da un po’.

Quello che pensavo, evidentemente, è che se con una simile collezione io mi sono appassionato alle materie più disparate ed ero perfino bravissimo in chimica allora tutto sommato non ci si deve preoccupare più di tanto: lo studio ha le sue vie misteriose verso il cuore delle persone e forse la classica battuta che talvolta si sente dire, che quel tale professore ha finito per farti odiare la tal materia, non è del tutto vera (neanche falsa, ma qui sto cercando di dire qualcosa di specifico: che oltre al professore c’è il libro, l’elaborazione collettiva della classe, il sentire dei tempi, la forza della materia, la sete di spiegazioni sul senso della vita e tante altre cose; poi, che i cattivi docenti farebbero meglio a legarsi una macina al collo eccetera è un altro discorso).

Pensavo queste cose e improvvisamente mi è tornata in mente un’immagine, che per tanto tempo per me è stata molto significativa e che negli ultimi tempi avevo dimenticato. Era credo la seconda liceo – adesso sarebbe la quarta superiore – e preparavamo l’Odissea io e Carlo Murru, che era il mio compagno di banco: era credo esattamente l’incipit, ma forse piuttosto un’altra di quelle infinite occasioni in cui si cita l’uomo versatile, multiforme, polytropos, e la sua gara col destino e tutto quanto e noi eravamo ormai abbastanza sicuri nelle traduzioni ma sempre zoppicanti nella metrica, e leggevamo a turno ad alta voce, con l’altro pronto a correggere. E a un certo punto Carlo si ferma, lascia aleggiare nel vuoto l’eco dell’ultimo verso e fa: «Senti. Senti! πολύτροπος!», una bella parola sonora e rotonda, «Questa è grande poesia», e lo diceva un po’ per fare il verso alla grande docente ormai agli sgoccioli della carriera prima della (immeritata) pensione e un po’ perché era chiaro a tutti e due che, cazzo, era davvero grande poesia. Sono quei momenti abbaglianti che hai da adolescente e che per fortuna nessuno può toglierti.

C’è speranza per tutti, ho pensato.

E mi sono fatto tutte le obiezioni: ragazzetti del liceo, con famiglie alle spalle, opportunità… fossimo andati in miniera dai dodici anni te la do io la poesia… e ho pensato ai ragazzini di Truffaut che scappano per vedere il mare e mi sono detto che sì, c’è speranza per tutti.

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