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L’amabile Rufus e il meraviglioso mondo dei podcast

A fine agosto dell’anno scorso, quando già si intuiva che avremmo passato altri lunghi mesi più o meno reclusi, ho cominciato a camminare. Può darsi che la cosa abbia avuto inizio perché mi sono detto che era meglio tenere d’occhio la pressione, ma in realtà col senno di poi credo che volessi reagire alla situazione generale muovendomi, davvero facendo muovere il corpo, e contemporaneamente volessi avere un momento in cui sgombrare la mente.

Da allora cammino un’ora al giorno, tutti i giorni o quasi. Ho perso più o meno sette chili, cosa della quale sono entusiasta, ma parte della disciplina che mi sono dato è quella di non badarci troppo e non camminare solo per quel motivo: e infatti non sto nemmeno particolarmente a dieta (può darsi, peraltro, che abbia cominciato a controllare la bilancia tutti i giorni, ma questo non verrà mai ammesso in pubblico). Non voglio camminare per un motivo specifico, ma perché è l’unica soluzione possibile, come direbbe Bianco:

Le crisi servono a pensare
In un attimo passerà tutto
La soluzione è camminare, camminare

Bianco, In un atttimo

Cammino in terrazzo, che per fortuna è grande, giro a giro – «come un criceto», dice a tutti Maria Bonaria.

Alle sette del mattino, cammino

Mi dicono tutti, in particolare il Subcomandante Marcos: «Ma perché non vai fuori a camminare?! In realtà si può…». In realtà non sempre si può o si è potuto, ma il punto non è questo: il fatto è che muovere il corpo e fare un certo tipo di vuoto mentale richiede, se non proprio una stanza, quanto meno uno spazio tutto per sé, e strada, piste ciclabili e percorsi vari non sempre lo permettono. Mi piace molto camminare al Poetto e i vari sentieri dentro Molentargius sono un luogo del mio cuore, ma il posto che mi sono trovato, tutto per me, è il terrazzo.

Orfano della radio

Mentre cammino, per sgombrare la mente e fare il vuoto faccio due cose. Una è quella di guardare gli uccelli della zona, delle cui complesse dinamiche sociali sono diventato esperto: ma questa è un’altra storia e sarà raccontata un’altra volta. E l’altra cosa che faccio è ascoltare podcast, ma questo richiede qualche parola di spiegazione aggiuntiva.

Già da prima di rinunciare alla macchina guidavo poco e mi sentivo un po’ orfano della radio: non tanto perché a casa nostra la radio non sia accesa praticamente in permanenza, ma perché l’ascolto alla guida, con il cambio di stazione a portata di mano, ha una dimensione di scoperta casuale che l’ascolto domestico non ha e io mi sento un pochino portato alla serendipità (come dimostrano le playlist di Spotify o il benemerito aggregatore di notizie). In più è un’attività che di solito impiega solo metà del cervello, quindi adattissima per gli scopi per i quali volevo mettermi a camminare. In realtà proprio stamattina, mentre pensavo a questo articolo da scrivere, mi sono reso conto che probabilmente c’era anche in motivo esattamente opposto: a me camminare piace, ma a camminare si fa anche fatica e magari inconsciamente cercavo qualcosa che mi aiutasse ad attraversare il deserto: ti perdi nell’ascolto di chissà chi e voilà, l’oretta di marcia è già passata.

E poi mi sembrava di percepire che nel mondo dei podcast ci fossero delle cose interessanti, che volevo approfondire. Già durante il lockdown avevo fatto degli esperimenti con quello che poi sarebbe diventato il podcast di riferimento, ma a settembre ho deciso di aver eun approccio più razionale e ho fatto la classica ricerchina su quei siti web con titoli tipo Dieci podcast che non potete assolutamente perdere, ho esplorato quali fossero le piattaforme e mi sono fatto un mio primo mazzo di ascolti possibili. Man mano ho aggiunto delle cose e ne ho eliminato altre. Pochi giorni fa su Facebook un’amica ha chiesto consigli di ascolto, io ho risposto un po’ a casaccio ma l’argomento mi è rimasto in mente e adesso lo ripropongo in maniera un po’ più sistematica, con l’idea che possa essere utile ad altri.

Ho cercato di raccoglierli in gruppi; ci sono podcast sia in italiano che in inglese; io ascolto la maggior parte delle cose su Spotify, ho sul telefono l’applicazione di RaiPlay e uso un minimo anche Audible e Spreaker: in generale, comunque, la maggior parte dei vari podcast è presente su diverse piattaforme alternative. Con alcune (sorprendenti?) eccezioni buona parte della selezione comprende cose un po’ da boomer oppure un po’ da nerd, qualunque cose questi due termini vogliano dire (nel complesso, l’insieme dei podcast è un po’ molto da Roberto Sedda, ma questo era ovvio ai bene informati).

Il podcast di riferimento è…

La Riserva

Fin da quando ho iniziato a camminare ho deciso che mi sarei fatto fare compagnia da La Riserva, «varietà calcistico» con Simone Conte, Daniele Manusia e Emanuele Atturo, che già mi aveva tenuto di buonumore durante il primo lockdown. La Riserva è, sostanzialmente, il primo e più importante podcast derivato dall’esperienza dell’ottimo L’Ultimo Uomo (e a me leggere e sentire parlare di sport piace). Può darsi che dietro la scelta ci fosse anche un pizzico di civetteria (tutto le volte che lo racconto c’è qualcuno che dice: «Noooo, il calcio?!?! Ma daiiii…», e io, sentendomi fighissimo, «Ma no, guarda, bisogna respingere questo falso concetto di cultura alta…»), ma in realtà quello che apprezzo di più de La Riserva è che si tratta dei migliori notisti politico-sociali che io abbia a disposizione e, direi, fra i migliori in Italia. Certo, non è sempre intenzionale, e sono soprattutto squarci improvvisi dentro cose delle quali ogni tanto non mi interessa niente, però ci sono e sono sempre letture della realtà con le quali mi sento in totale sintonia (avrei perfino detto che La Riserva mi serve a tenermi in contatto col paese reale, se durante l’ultima puntata Conte, Manusia e Atturo non avessero, giustamente, sbeffeggiato l’espressione).

Nel frattempo ho imparato un sacco di cose sulla costruzione dal basso, il calcio moderno, l’andamento dei principali campionati stranieri e l’assetto societario del Barcellona, e questo amplia di molto la mia conversazione in società.

Parentesi. Nel suo manuale di sceneggiatura The whole picture, Richard Walter nel 1977 descriveva il suo approccio alla gestione delle fasi introduttive delle riunioni di lavoro, nel suo caso frequentate soprattutto da maschi:

L’ignoranza in campo sportivo, naturalmente, può dimostrarsi una debolezza non da poco per lo sceneggiatore maschio. Nel mondo dello spettacolo molte riunioni si aprono facendo quattro chiacchiere. Ma il sottotesto – la vera sostanza di queste conversazioni – non ha niente a che fare con il football americano o la pallacanestro. Si tratta invece della primordiale, cerimoniale rassicurazione che noi uomini non abbiamo intenzione di sbudellarci a vicenda. Si tratta dello stesso motivo, secondo gli antropologi, per il quale gli uomini si stringono la mano: per dimostrare che non impugnano nessuna arma.

Ciò che conta in una conversazione fra uomini, di conseguenza, non è l’argomento ma il ritmo, la cadenza, il crescere o il calare del tono, i gesti e le posture, lo schivare e il ripartire, impettirsi o cinguettare. In breve: è un rituale. Fortunatamente per me sono riuscito a scoprire ben presto che non c’è bisogno di sapere qualcosa di sport per sembrare informati.

Quando incontro degli uomini con cui devo discutere d’affari io di solito uso una generica mossa d’apertura ariosa e scanzonata: «Che mi dici della partita?».

La mia controparte – agente, produttore, dirigente – non viene mai a vedere il mio bluff. Non mi chiede mai esattamente a quale partita sto facendo riferimento. Non mi chiede mai di specificare esattamente lo sport. Farlo vorrebbe dire dichiarare la sua ignoranza. Non sapendo se parlo di hockey, pallacanestro, ping-pong o rugby, invariabilmente mi risponde esprimendo un consenso gutturale e vigoroso: «Yeah! È stata davvero qualcosa!».

A questo punto uno di solito potrebbe smetterla e dedicarsi al vero scopo della riunione, qualunque sia. Ma dopo anni di questo mantra devo ammettere di essere diventato presuntuoso. Invece di passare alle cose serie, di solito propongo qualcosa del genere: «Ma ci credi a cosa ha fatto quello lì?!».

Invece di chiedere: «Credere che cosa a proposito di chi?», la mia controparte maschile scuoterà la testa con l’aria di chi la sa lunga e dirà qualcosa come: «Ma come fa a riuscirci?!».

Ecco, io non ho più bisogno di questi trucchetti. Io ne so.

Un’ultima nota: i tre autori de La Riserva sono tutti e tre uomini e il punto di vista della trasmissione è molto maschile. Non sessista (direi tutt’altro), ma molto, molto maschile. Ed è un altro elemento del quale trovo ci sia bisogno: del punto di vista e del capire la differenza.

Trame

Dopo La Riserva ho provato a esplorare gli altri vari podcast di Fenomeno (non mi sarebbe dispiaciuto accoppiare il basket al calcio, e magari perfino il tennis), ma devo dire non mi sono trovato particolarmente bene, tranne per Trame, che si occupa delle ricadute politico-diplomatiche dello sport a livello internazionale.

Sono puntate generalmente più brevi e quindi più maneggevoli di quelle de La Riserva, ma anche di interesse più altalenante, almeno per me. O meglio, alcune cose sono abbastanza fuori tema, come la puntata sulla geopolitica di Game of Thrones o quella sulla contesa per i casinò di Macao fra USA e Stati Uniti. Altre puntate sono molto più in tema e hanno anche una impostazione etica apprezzabile, come quella sul riconoscimento del genocidio armeno, a partire dalla vicenda del giocatore della Roma Mkhitaryan, la persecuzione degli uiguri in Cina e il caso del calciatore Erfan Hezim o i gamers for Hong Kong nel campo dei videogame.

Altre puntate valide sono quelli con argomenti che ci si aspetta da un podcast che parla di sport e politica: Trump e Bolsonaro, per esempio, allo sport devono moltissimo. Ma gli aspetti più interessanti, e di solito meno considerati, sono quelli che riguardano la diplomazia parallela sviluppata attraverso lo sport: come Gianni Infantino usi il suo ruolo di Presidente della FIFA per trattare da pari a pari con i vari capi di Stato, o come il Kosovo abbia usato la nazionale di calcio per garantirsi il riconoscimento della propria identità statuale oppure, per andare al passato, come il Regno Unito abbia usato rugby, cricket e altri sport imperiali per cementare l’identità collettiva delle nazioni della propria sfera d’influenza, prima nell’Impero e poi nel Commonwealth.

Storia e altra cultura

Barbero in tutte le salse

L’altro elemento ricorrente dei miei ascolti sono le conferenze a tema storico di Alessandro Barbero (che fra l’altro è anche uno degli ascolti preferiti di Simone Conte de La Riserva, il che crea un loop interessante).

Barbero è infallibilmente garbato, spiritoso e molto preparato, quindi sempre piacevole da ascoltare. La raccolta che uso io (la vedete qui a destra) prende le mosse dal gran numero di lezioni tenute negli anni al Festival della Mente di Sarzana (con tutta una serie di aggiunte ulteriori alla fine sono più di centotrenta puntate) e ha un po’ il difetto che l’impostazione delle lezioni tende a privilegiare la scelta di un singolo episodio, spesso una battaglia o comunque un episodio bellico. È una scelta che aumenta la godibilità immediata e esalta il tono da commedia umana che è più nelle corde di Barbero, ma rende più difficile la possibilità di rendere in pieno il periodo o lo scenario, col rischio di qualche inevitabile semplificazione – del resto, stiamo parlando di lezioni di un’ora, non di tomi di mille pagine.

Su Spotify si trovano con facilità un altro paio di raccolte, in cui gli argomenti sono spesso più trasversali ma che sono meno complete e quindi offrono molta meno scelta. Fra tutte, ovviamente, le ripetizioni e le sovrapposizioni abbondano.

You’re Dead to Me

Fra i miei ascolti ci sono un po’ di cose della BBC, benemerita, soprattutto perché i suoi speaker col birignao sono molto più comprensibili per il povero ascoltatore non madrelingua di scarse capacità come me.

You’re Dead to Me vorrebbe dire più: «Tu per me sei morto» nel senso dell’invettiva, ma qui, trattandosi di un programma di divulgazione storica, è più che altro una constatazione: dopotutto Boudicca, Lucrezia Borgia o i Padri Pellegrini attualmente non godono particolarmente di buona salute.

La formula del podcast prevede un conduttore fisso, Greg Jenner, figura centrale dei programmi di divulgazione storica della BBC. A lui si uniscono di volta in volta docenti di storia, a seconda dell’argomento trattato, e artisti comici. Devo dire che, all’ascolto, non mi è sempre chiaro chi sia chi: il che probabilmente vuol dire qualcosa sull’ironia innata dei docenti inglesi, o sui buoni studi dei comici, o viceversa sul carattere sedato dell’arte comica inglese.

Comunque.

Le puntate sono brevi, maneggevoli e, oh, quanto efficaci: fanno perfino in tempo a suggerire letture o a raccontare dell’inaugurazione di mostre o altre iniziative culturali. Il tono è un po’ quello di voler sfatare le precomprensioni sull’argomento scelto per la puntata e dare le basi per una migliore comprensione; io apprezzo particolarmente l’ampio spettro degli argomenti trattati, che spaziano da un tempo e da un continente all’altro.

The Food Programme

Un altro bel programma della BBC è questo The Food Programme – una serie di puntate dedicate al cibo sotto ogni punto di vista, condotte di volta in volta da giornalisti diversi – rientra fra gli ottimi programmi di divulgazione scientifica (in senso lato: c’è molta attualità a 360° e un po’ di storia) così diffusi in ambito anglosassone, e come tale non delude mai: le puntate sono relativamente brevi e maneggevoli e sempre condotte con estrema professionalità.

Mi rendo conto che le caratteristiche che ho elencato – dizione perfetta, professionalità, divulgazione scientifica di qualità, vago intento pedagogico, humour inglese – possono non sembrare particolarmente attraenti o perlomeno evocare l’idea della merenda dalla nonna a uno che fosse in cerca di alcool e streetfood, per rimanere dentro le metafore culinarie, ma per me questo mix è del tutto irresistibile e trovo oltretutto la scelta degli argomenti assolutamente infallibile (parliamo della cerimonia del the è un tipo di argomento che può essere considerato tradizionale, come fanno le università a gestire le mense durante la pandemia? o cosa mangiano gli operatori durante le lunghe campagne elettorali americane lo sono molto meno). In realtà The Food Programme non è un programma non è propriamente un programma di divulgazione scientifica: è un programma giornalistico di intrattenimento fatto con rigore e dentro una impostazione di amore per la cultura, e direi che è sufficiente.

Attiviamo Energie Positive

In questa parte dell’articolo a cui ho dato il titolo di Storia e altra cultura il podcast di Attiviamo Energie Positive può sembrare una presenza non del tutto appropriata e, in un certo senso, è vero che si tratta di cultura applicata: il punto di riferimento è sempre la finanza etica, l’economia sociale, l’innovazione tecnologica e, in generale, i progetti promossi dalla piattaforma di crowfunding di Produzioni dal Basso o le varie realtà che girano intorno a PdB e agli altri promotori del podcast. E, in fondo, non è neanche esattamente un podcast: si tratta di lezioni o conferenze trasmesse in streaming di cui questa è la sola parte audio (del tutto sufficiente, peraltro).

D’altra parte avrebbe un’idea abbastanza misera di cultura chi ritenesse che queste tematiche siano, in qualche modo, meno degne dell’insegnamento della storia o della letteratura, e il mix di argomenti offerto dal podcast (e nel sito di riferimento ci sono sempre le slide e gli altri materiali delle lezioni offerte) è sufficientemente variegato da offrire diversi motivi di interesse.

Detto in un altro modo: io tengo Attiviamo Energie Positive fra i miei podcast (anche) per motivi d’ufficio. Ma se non avessi quei motivi probabilmente il parterre dei relatori (uno degli ultimi a fare la sua comparsa Gianluca Diegoli) mi avrebbe probabilmente attratto inevitabilmente lo stesso.

Copertina

Seguo con una certa attenzione Matteo B. Bianchi dai tempi di Dispenser, che era una bella trasmissione di Radio 2. Bianchi ha prodotto un certo numero di podcast: questo Copertina è quello che apprezzo davvero, ed è anche, curiosamente, praticamente l’unico podcast di libri che seguo.

La formula esatta del podcast è cambiata abbastanza nel tempo, anche se alcuni elementi rimangono costanti, in particolare l’attenzione alle librerie indipendenti e lo spazio dato alle voci dirette dei librai, non solo per i consigli di lettura e il parere sul panorama letterario, ma anche per le riflessioni sul lavoro, il ruolo sociale, il rapporto col pubblico e, in fondo, con la società italiana.

E poi ci sono giri e rigiri intorno ai libri e alla letteratura: devo dire che spesso ignoro qualunque cosa degli autori di cui si parla e che non comprerei mai i libri trattati, ma non trovo la cosa particolarmente importante, anche perché il tono della trasmissione è sempre piuttosto trasversale: in fondo il tema non è mai questo o quello specifico libro, ma il rapporto che ciascuno, e in particolare gli ospiti della trasmissione, hanno coi libri, e su questo tema sono disposto sempre a stare all’ascolto, anche per parecchio tempo (ma le puntate non sono mai lunghissime).

Alle otto della sera

Trasmessa molti anni fa, Alle otto della sera era una specie di zibaldone: per una o due settimane o giù di lì per mezz’ora veniva affrontato un argomento, diciamo culturale, senza apparentemente alcuna logica: la produzione di un artista, la vita di un condottiero, perfino argomenti piuttosto esoterici come i sottomarini italiani nell’Atlantico durante la II Guerra Mondiale (poco dopo questo colpo di genio la trasmissione, forse non sorprendentemente, chiuse i battenti dopo anni di onorato servizio).

La raccolta su RaiPlay credo offra il meglio, e non tutto, di quanto venne trasmesso: anche così ci sono comunque parecchie chicche: il De Bello Gallico letto da Elio (sic), un ciclo di Valerio Massimo Manfredi su Alessandro Magno, De Gasperi raccontato da Andreotti (doppio sic) e parecchie altre cose.

A distanza di anni perfino la dizione, per non dire il piglio o l’argomentare dei conduttori può apparire datato, e siamo lontani mille miglia dall’ariosa confidenzialità della BBC, ma vale la pena di pagare lo scotto di un po’ di costo d’ingresso per avere a disposizione della buona (ottima) divulgazione sugli argomenti più disparati. Per gli appassionati di cinema menzione di riguardo per il ciclo Venti divi, venti film di Giovanna Gagliardo (che l’esperto di cinema di Famiglia Cristiana categorizzerebbe come controverso/dibattiti).

Per molti aspetti lo stesso stile enciclopedico hanno altre due trasmissioni della RAI di cui incollo qui sotto le immagini, e che hanno però nel tempo costruito uno stile comunicativo più moderno, anche se non necessariamente più coinvolgente: sono Passioni (che è sostanzialmente una riedizione di Alle otto della sera fatta in altro orario e su un’altra rete, ma con lo stesso spirito di affidare un tema, spesso anche di nicchia, a un appassionato perché lo svisceri a suo piacimento) e Wikiradio (con la sua consociata Wikimusic), che è invece più una pillola quotidiana di cultura (della sezione sui giochi, fra l’altro, si occupa l’ottimo Andrea Angiolino).

Vite che non sono la tua e Tutta l’umanità ne parla

La lunga carrellata di podcast radiofonici di Radio 3 si chiude con due podcast dedicati ai personaggi, poco importa se reali o immaginari. Tutta l’umanità ne parla deriva da un classico programma mattutino di Radio 3, che si intitola Tutta la città ne parla e trae spunto dalle questioni di attualità poste dagli ascoltatori e dibattute da esperti. Tutta l’umanità ne parla affronta lo stesso tipo di questioni di attualità facendole discutere da personaggi famosi in qualche modo collegati all’argomento, interpretati da esperti in materia e, soprattutto, del pensiero di quel personaggio. Per quanto possa sembrare un pastiche è invece una trasmissione dotata di brio, spesso molto più della trasmissione originaria, e di solito un ascolto piacevole.

Vite che non sono la tua è invece il racconto biografico di un personaggio storico, spesso non particolarmente noto (e questo è uno dei punti di forza della trasmissione), raccontato in profondità e secondo un approccio autoriale più spiccato e più disteso che in trasmissioni come Wikiradio, per quanto la durata sia grosso modo la stessa (in realtà Vite che non sono la tua e Wikiradio in parte si sovrappongono e in parte si completano).

Musica

In realtà l’offerta di musica sui canali RAI è sconfinata – non parliamo di tutto il resto dell’universo mondo ascoltabile – quindi i due programmi che riporto non sono gli unici, ma quelli che trovo adatti a un ascolto “da podcast“.

Lezioni di musica

Lezioni di musica va in onda ormai da anni e il camp degli argomenti trattati si è fatto, complessivamente, vastissimo.

Ad ogni lezione, di solito divisa nelle due trasmissioni del sabato e della domenica ma che talvolta si allunga a cicli un po’ più ampi, uno dei principali musicologi italiani spiega un argomento, per esempio cos’è una sinfonia e come si articola, o come ascoltare la singola opera di un certo autore, e così via, concentrandosi sulla musica classica con qualche incursione nella musica barocca e rinascimentale da una parte e in quella contemporanea dall’altra (ma sempre, per capirci, musica colta).

Devo dire che io trovavo più profitto durante le prime stagioni della trasmissione, quando gli argomenti erano più di base e di taglio più generale: ricordo l’emozione quando ho capito che avevo imparato a riconoscere il primo e il secondo tema di una sinfonia; qualche volta oggi gli argomenti tendono a essere più specialistici o meno immediati, ma il bello del podcast, ovviamente, è che permette di scegliere e in ogni caso il tono divulgativo e la qualità degli esperti rende normalmente accattivanti (quasi) tutte le puntate, anche quello con gli argomenti relativamente più esoterici.

File urbani

Purtroppo ormai uscita dalla programmazione File urbani era una trasmissione che in due puntate del fine settimana esplorava il panorama musicale – e, attraverso la musica, culturale e identitario – di una città del mondo, con un piglio diretto, molti ascolti dal vivo (o proposti come fossero dal vivo) e una serie di altri inserti sonori o brevi interviste.

Dato che la trasmissione puntava a trasmettere l’idea di una sorta di ricerca o reportage sul campo questo gli dava una dimensione interessante e a seconda che esplorasse periferie dei centri europei o viceversa centri urbani importanti ma di paesi del sud del mondo esprimeva un certo taglio underground o, volta a volta, terzomondista, attraverso il complesso dei materiali proposti. Probabilmente i veri esperti della musica che si suona nelle periferie di, poniamo, Rodi, avranno magari trovato fin troppo mainstream la trasmissione, ma per tutte le persone normali come me era l’occasione per essere esposti a realtà e influenze musicali altrimenti del tutto aliene, per non parlare della possibilità di percepire almeno uno scorcio della scena e dei movimenti culturali di città e regioni spesso non di primaria grandezza e magari non particolarmente note alle cronache culturali – quando non fuori dell’orizzonte geografico dell’italiano medio – e devo dire che per entrambi questi motivi File urbani è una delle trasmissioni delle quali sento più la mancanza, dal punto di vista musicale e non solo.

Racconti e inchieste

Credo che la categoria Inchieste sia facilmente comprensibile; i Racconti sono sostanzialmente inchieste rivolte a fatti del passato, che hanno un taglio più giornalistico e narrativo rispetto alle ricostruzioni storiche di, per esempio, Barbero.

Veleno

Recentemente trasformato anche in un documentario su Netflix, Veleno è un’inchiesta di Pablo Trincia di Repubblica, dedicata a ricostruire la vicenda dei diavoli della Bassa Modenese, una storia di panico sociale e giudiziario su un presunto intreccio fra riti satanici e abusi pedofili, sgonfiatosi poi nelle aule di tribunale ma non prima che un certo numero di minori fosse stato allontanato, spesso in maniera definitiva, dalla famiglia e che diverse delle persone coinvolte si fossero fatte un buon numero di anni di carcere.

Ricordavo di avere seguito distrattamente il caso, analogo a un certo numero di altri fenomeni di panico succedutisi negli anni; credevo che sostanzialmente i processi avessero ristabilito le dimensioni oggettive dei fatti; a quanto capisco invece è stato proprio il podcast a riaprire la vicenda e a riportarla all’attenzione dell’opinione pubblica, favorendo anche una riflessione, del tutto necessaria, sul modo con il quale queste ondate di panico riescono ogni volta ad affermarsi nonostante il fatto che le lezioni del passato dovrebbero averci immunizzato in materia: a quanto pare, invece, un fariseo d’occasione è sempre disponibile.

Il racconto del podcast – sono appena sei puntate – è incalzante e coinvolgente. Quando cito il podcast mi sento spesso dire da amici e amiche che non se la sentono di ascoltarlo, perché temono un’esperienza troppo dura. Rispetto a questo tipo di reazione sono combattuto: anche io, di primo acchito, lo definirei un pugno nello stomaco, quindi è chiaro che l’ascolto non è innocuo, soprattutto perché questa è una vicenda che non può avere lieto fine, e infatti non c ‘è; d’altra parte non è un ascolto – almeno secondo me – ansiogeno o particolarmente duro o impressionante: più che altro è una riflessione, resa plasticamente evidente, su come è difficile vivere quando si è poveri, anche in Italia, anche oggi, non perché sia difficile mettere insieme il pranzo con la cena, ma per tutto il resto.

Fake Heiress

Tempo fa mi ero messo a tradurre un articolo sulla storia di Anna Delvey (in realtà Anna Sorokin), una ragazza capace di penetrare l’alta società newyorchese facendosi credere una ricchissima ereditiera tedesca, a colpi di mance da cento dollari, pernottamenti in alberghi di lusso e una faccia di bronzo impressionante, lasciando in giro una quantità di conti da pagare e di ferite di vario genere impressionanti.

Non sono mai riuscito a finire la traduzione, ma in copenso posso consigliare questo podcast, che ricostruisce la vicenda arricchendola di un buon numero di notazioni di costume e che grazie a un intreccio interessante di materiali documentari e inserti narrativi affidati ad attori riesce a mantenere un buon ritmo e una buona capacità di coinvolgimento.

Naturalmente, una parte del lavoro la deve fare l’ascoltatore, nel senso che le domande principali suscitate dalla vicenda non sono quelle su cosa sia successo (in materia non c’è nessun dubbio, se non forse qualcuno marginale) ma sul come: cioè come sia possibile che pezzi così importanti e diversi della società americana siano così permeabili al mito del successo da permettere a una persona come la Delvey, abilissima e sfrontata quanto si vuole, ma comunque inconsistente sotto molti punti di vista, di fare quel che ha voluto per mesi e mesi e trascinare nel vortice delle sue menzogne tante altre persone, non tutte milionari che possono anche permettersi di accollarsi il conto astronomico di un ristorante senza troppo badare, ma anche lavoratori normali disposti a sobbarcarsi costi economici o professionali non da poco. In realtà il milieu che circonda Anna Delvey è fatta da persone non troppo dissimili da lei – alla ricerca del colpo risolutivo che assicuri fama e successo – e forse è questo il segreto che le ha permesso di tenere in piedi la sua sciarada così a lungo.

A pugni chiusi

Questo è un bellissimo podcast, emozionante e commovente, col racconto delle varie vicende che hanno attraversato le Olimpiadi di Città del Messico del ’68. I pugni chiusi del titolo sono quelli mostrati sul podio dai due velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos, ma attorno alle Olimpiadi ruota molto molto di più, a partire dalla puntata prologo che ricorda che il massacro degli studenti in Piazza delle 3 Culture precede l’inizio dei giochi di appena una decina di giorni (in piazza, fra l’altro, c’erano casualmente diversi atleti italiani, che sfuggirono per un pelo alla morte). E la consapevolezza politica degli atleti non si ferma a Smith e Carlos e nemmeno alle tensioni dentro il blocco occidentale: la ginnasta ceca Věra Čáslavská protestò contro la repressione della Primavera di Praga e per questo pagò un prezzo altissimo.

Quello che emerge è uno spaccato interessante di come le Olimpiadi di quell’anno condensassero e insieme amplificassero le tensioni politiche che attraversavano le piazze del mondo, i contrasti fra i blocchi e lo scontro sociale rispetto agli assetti di potere interni nei vari paesi; rimangono poi tutte le varie storie personali degli atleti, che non sono solo importanti in sé (dopotutto lo sport è un grande creatore di epiche e drammi) ma anche avvisaglie di fenomeni allora ancora non capiti, come quello del doping, e Cazzaniga è bravo a evitare che il focus politico, che pure è quello che più gli interessa, fagociti tutto il resto.

1989

Dopo A pungi chiusi Riccardo Gazzaniga ha dedicato un altro podcast a raccontare le vicende dell’anno 1989, l’anno del crollo del Muro e di molto altro (Piazza Tien An Men, per dire).

Gazzaniga ha ragione a voler descrivere quell’anno con lo stesso stile impiegato per le Olimpiadi di Città del Messico: considerandolo un momento che è il precipitato di eventi che giungono da lontano o la tempesta perfetta che riassume un intero decennio se non di più; tuttavia le vicende delle Olimpiadi si dipanano per circa un solo mese, qui il tempo degli eventi è molto più lungo, più articolato, e le spiegazioni devono farsi anch’esse più complesse, andare a ritroso a ritrovare le cause lungo archi di tempo maggiori, cambiare scenario e in parte protagonisti: inevitabilmente la compattezza del racconto ne risente e anche la tensione, che rendeva così emozionante e commovente A pugni chiusi, si fa talvolta minore. Per tanti altri aspetti si tratta invece di fatti che hanno una portata e una importanza storica maggiore rispetto all’episodio delle Olimpiadi del’68 – o forse sono io che nell’89 ero dotato di capacità di comprensione e quindi mi sento più vicino a questi avvenimenti. In entrambi i casi, trovo 1989 lievemente inferiore a A pugni chiusi, ma certamente ugualmente straconsigliato.

Interviste

Archivio Pacifico

Archivio Pacifico è una serie di interviste curate dallo scrittore Francesco Pacifico (del quale devo ammettere di non avere letto nulla) al quale sono arrivato perché nei famosi articoli del genere I migliori dieci podcast… era sempre citato.

Pacifico sceglie di intervistare solo personaggi molti noti, di diversi campi, perché è interessato, fondamentalmente, alle dinamiche legate al successo personale e alla gestione del proprio talento, con onori e oneri (una delle formule usate per presentare il podcast è: «Mi interessa indagare sull’identità professionale delle persone molto brave, che percorso hanno fatto, se hanno avuto fortuna, chi hanno incontrato sulla strada, quante notti hanno perso, come vivono, come si sono formate, di cosa hanno paura, quando hanno pensato che fosse tutto finito e non ce l’avevano fatta»).

Sono interviste abbastanza lunghe, dal tono confidenziale e, se non altro, riescono normalmente a rendere perfino gradevoli anche quel paio di intervistati che sono, notoriamente, portati a sembrare antipatici. In più quasi sempre Pacifico sfonda, e riesce a scandagliare in maniera interessante il tema collegato al personaggio che sta intervistando: la mia preferita, a parte quella con Zerocalcare, è quella con Giancarlo De Cataldo (che gigioneggia moltissimo) dalla quale viene fuori una bella puntata sullo scrivere e il mestiere del narratore.

Come forse si capisce dal fatto che l’immagine è diversa dalle altre, io lo ascolto su Spreaker, ma vedo che sta anche su Spotify. La serie di interviste dovrebbe essersi conclusa e attualmente il podcast mi pare inattivo, ma vale la pena di recuperarlo.

92 minuti di applausi

Alle persone di successo intervistate da Pacifico si possono efficacemente accoppiare le sei puntate di questo podcast che intende mettere alla berlina l’arte contemporanea, giocando sostanzialmente sui pregiudizi del pubblico, il quale, diciamolo, è ignorante: ma i curatori del programma scelgono programmaticamente di schierarsi da quella parte, se no non ci sarebbe gioco, mentre a fare il difensore d’ufficio del capolavoro sotto processo è di volta in volta un esperto invitato appositamente.

Si tratta di attacchi, per la verità, fin troppo edulcorati e certamente non sferrati fino in fondo o non proposti con cattiveria, anzi. Casomai, se si può fare una critica, è che spesso il gioco delle parti è fin troppo trasparente: un po’ di pepe in più a me non dispiacerebbe e qualche volta il riassuntino redazionale che ridice l’opinione del critico in modo che il pubblico se lo imprima bene in mente a me fa lo stesso effetto irritante che qualcuno una volta aveva detto a proposito di Borat: «È come se qualcuno ti facesse il solletico sotto le unghie dei piedi».

In ogni caso però avercene di più di programmi divulgativi sull’arte contemporanea e la cultura pop, per di più gradevoli e tendenzialmente spiritosi.

Radici

Nel 2018 è stato costituito il progetto Nuove radici.world che aveva l’obiettivo di realizzare: «una narrazione corretta sull’immigrazione, svincolata da tesi precostituite, pregiudizi, demagogia e orientamenti politici che influenzano l’opinione pubblica e i comportamenti sociali. Il presupposto originale era l’urgenza di contrastare un dibattito polarizzato, che si basa esclusivamente sulla contrapposizione fra immigrato buono o cattivo. Considerato solo come risorsa o minaccia». Radici è il podcast del progetto, che si articola anche in una serie di altre azioni.

Il podcast dopo il 2018 è stato poi ripreso in maniera saltuaria (l’ultima puntata è giusto del mese scorso). Devo dire che a me, a fronte di tutte le buone intenzioni di oggettività, sembra essere un podcast piuttosto (molto? moltissimo?) schierato, e d’altra parte per certi aspetti direi che considerati le problematiche e gli antagonisti ci mancherebbe pure altro, quindi magari la polemica sull’oggettività la possiamo rimandare.

In ogni caso quello che è interessante sono le voci e le vicende dei protagonisti e in particolare di quei cittadini italiani che provengono da famiglie i cui componenti originariamente erano immigrati in Italia, all’esperienza dei quali la sensibilità del podcast mi sembra principalmente orientata (e questa importanza delle voci è pure il motivo per il quale ho messo questo podcast fra le interviste e non fra le inchieste).

Narrazioni

Amnèsia

Matteo Caccia è un altro autore radiofonico che, finché ho potuto, ho seguito con molta attenzione (vedo ora che ha dei podcast nuovi su altre piattaforme, e magari recupererò il tempo perduto.

Ho di Amnèsia un ricordo molto preciso di ascolti in automobile mentre scorrazzavo per diversi motivi su strade improponibili della Sardegna. Caccia raccontava, con un taglio molto realistico e coinvolgente la storia di una persona, lui stesso, che aveva perso la memoria per un incidente e il percorso, faticosissimo, per ricostruirsi un’identità, recuperare il suo ruolo sociale e prima ancora, quello familiare e degli affetti.

Credo che nella radio italiana fosse dai tempi di Jack Folla – un DJ nel braccio della morte che non ci fosse un programma che programmaticamente confondeva così profondamente i confini fra realtà e possibile finzione, lasciando lo spettatore in un limbo che inevitabilmente creava una dimensione di immedesimazione molto profonda.

Devo dire che ai tempi la casualità dell’ascolto automobilistico non mi permise di seguire la trasmissione fino alla conclusione: tutt’ora non ho sentito l’ultima puntata nella quale Caccia aveva promesso di rivelare la verità sulla storia, e nei miei giri intorno al terrazzo non sono ancora arrivato a riconcedermi il piacere di risolvere finalmente il mistero.

Sandman

Ho fatto l’abbonamento a Audible solo per poter ascoltare la drammatizzazione di Sandman, fumetto di culto di Neil Gaiman. Non è esattamente un audiolibroma si tratta appunto di una drammatizzazione – un po’ come i vecchi radiodrammi della RAI, tipo il famoso Il mercante di fiori: ci sono quindi più voci, un narratore e più personaggi, effetti sonori e rumori di fondo, come se i dialoghi fossero registrati in presa diretta.

Il lavoro fatto è di grandissima qualità e riesce a essere da una parte estremamente fedele al fumetto e dall’altra costruisce efficemente un’identità artistica autonoma al prodotto, (rendendolo molto apprezzabile anche a chi il fumetto non l’ha mai letto), un risultato per niente banale.

Non l’ho ancora finito: per uno strano vezzo limito l’ascolto alle passeggiate domenicali. Per il momento colgo molto di più che nella lettura l’impostazione dark e direttamente horror del fumetto: sinora, non avendolo letto tutto ma solo alcune raccolte, ricordavo molto di più le dimensioni patetiche e liriche e la capacità di costruzione del mondo. Uno dei dubbi che ho è se nell’audiodramma è possibile rendere con efficacia la coralità che è una delle caratteristiche della serie: nel fumetto se hai il dubbio che un personaggio sia già comparso vai a recuperare la puntata precedente, con i file audio non è così semplice.

L’altro rimpianto che ho è che, per qualche strana configurazione, Audible mi propone solo la versione in italiano: per me è certamente più fruibile e Roberto Pedicini e gli altri sono bravissimi, però avrei voluto molto provare a sentire come suonava nell’originale.

Ad alta voce

Ad alta voce, come altre cose che ascolto su RaiPlay, non è propriamente un podcast quanto la registrazione scaricabile di un programma radiofonico: in questo caso una raccolta di audiolibri, letti a puntate ogni giorno su Radio 3.

Essendo una trasmissione che va avanti da anni la scelta è ovviamente amplissima, fra l’altro con un taglio internazionale più che apprezzabile, e i lettori di grande qualità, anzi, spesso l’occasione per una rassegna del meglio del teatro italiano.

Vedo che purtroppo ogni tanto alcune delle letture, pur indicate, risultano indisponibili per questioni legate ai diritti d’autore; anche così, comunque, la quantità e qualità offerta da Ad alta voce merita la registrazione alla applicazione di RaiPlay.

Fra i miei ascolti preferiti, le varie letture di Hemingway di Elio Fantastichini, Un anno sull’altipiano letto da Marco Paolini, La vergine in giardino di Antonia S. Byatt letta da Anna Bonaiuto (una voce ricorrente) e Fame di Knut Hamsun letto da Elia Schilton. Considerato che da solo non avrei mai letto né La vergine in giardino che Fame né diverse altre cose non posso che elevare lodi al programma.

Fuori sacco

Guys we f****d

Cioè: Guys we fucked, che sarebbe Tizi che ci siamo scopate. Anche questo viene dagli elenchi sui podcast imperdibili che ho consultato all’inizio, e prometteva un punto di vista vivace e divertente (le conduttrici sono un duo comico) e programmaticamente irriverente: la premessa era che ogni ospite della trasmissione avrebbe avuto la caratteristica di avere fatto sesso, in passato, con una delle conduttrici (il che, peraltro, poneva dei problemi di approvvigionamento, nonché come sostituire a eventuali assenze dell’ultimo minuto). Vedo ora che attualmente chi va in studio ha solo occasionalmente questa caratteristica, quindi evidentemente i prerequisiti sono cambiati.

Devo dire che i miei ascolti sono stati molto saltuari perché l’inglese è, in questo caso, troppo difficile per me, non solo per il linguaggio ma anche perché mitragliato a una velocità difficilmente gestibile. Ho anche l’impressione che se ci capissi di più scoprirei che in fondo in fondo la visione del sesso e delle relazioni sentimentali, per non parlare dell’impostazione politica, non mi trova esattamente concorde. D’altra parte è indubitabilmente un’operazione coraggiosa che viene ormai condotta da decine di puntate senza apparentemente deragliare, quindi credo meriti ogni tanto un tentativo di ascolto, se non altro per restare in sintonia col paese real… ah no, scusate.

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