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Qualcosa che mi sfugge

Sto giocando in questi giorni, quando non sono impegnato nel Sulcis con Banca Etica, Heaven’s Vault, un gioco di ruolo per computer (o adventure game, più esattamente), degli stessi autori di 80 Days.

Non l’ho ancora terminato e quindi mi riservo una recensione completa più avanti. Quello che al momento mi fa molto riflettere è che mi sta piacendo moltissimo ma che contemporaneamente mi causa un certo senso di spaesamento perché, detto in due parole, non riesco a capire com’è fatto.

È una cosa un po’ difficile da spiegare. Intendo dire che se, per esempio, leggo un romanzo, sono abbastanza capace di individuare la grammatica della narrazione che ci sta sotto. In astratto, anche io saprei scrivere un romanzo: sarebbe magari un brutto romanzo, ma questo non è il punto. Lo stesso vale, fatte salve certe condizioni, per scrivere un fumetto o progettare un videogame o girare un film.

Ecco, girare un film è un buon esempio: io non ho la più pallida idea di come si piazzi una macchina da presa e solo un’idea molto rudimentale dei componenti del linguaggio cinematografico, eppure sarei lo stesso in grado di spiegare a un profano il processo creativo e produttivo che sta dietro a un film, almeno a grandi linee. E se guardo un film posso stupirmi degli effetti o dei movimenti di macchina o della recitazione e, astrattamente, non avere assolutamente la più pallida idea da un punto di vista tecnico di come si giri quel determinato piano sequenza, ma non avrei mai una sensazione di spaesamento, di essere, per esempio, trasportato dentro un altro media o di vedere un film senza accorgermi che invece è, boh, qualcos’altro.

Con Heaven’s Vault, invece, ho questa strana sensazione dietro le orecchie che da qualche parte ci sia qualcosa che dovrei notare e di cui, invece, non mi accorgo, come un cocktail a cui il barman ha aggiunto qualcosa che non riesci a identificare.

Eppure la struttura è, a prima vista, piuttosto classica, e una buna parte delle meccaniche sembrano quelle tradizionali di un classico gioco d’avventura: vai in giro, trovi oggetti, li usi, scopri altri luoghi, continui a andare in giro, trovi altri oggetti. C’è una bella storia che si dipana man mano, ma anche questa non è una novità. Strutturalmente anche la parte, che mi sta molto piacendo, di un intero linguaggio geroglifico da decifrare, non è in sé molto diversa dalla presenza di un codice o di una serie di enigmi da risolvere. Eppure, non riesco a levarmi dalla testa l’idea che non sia tutto qui.

Ho raccontato la cosa a Bonaria e a un po’ di amici e mi hanno suggerito l’ipotesi che si tratti, semplicemente, del talento, cioè della capacità imponderabile di un autore di fare un gioco più bello di quelli che fanno gli altri. Fra Ungaretti e i versi sciolti pubblicati da signora Carla nel giornalino parrocchiale non c’è differenza di aspetto, ma il risultato è molto diverso. Mettere esattamente il dito sul punto di differenza, però, non è semplice, identificare l’ingrediente che trasforma delle parole in fila in arte per nulla facile. Forse, mi suggeriscono, non è che non riesco a capire come è fatto questo gioco, quello che non riesca capire è come si fa a fare giochi belli, quando uno è un autore mediocre.

Ecco, sono abbastanza sicuro che non è questo. Quando dico che non saprei rifare Heaven’s Vault non intendo dire che dipende dal fatto che non sono abbastanza bravo; cioè, non sono abbastanza bravo, ma il punto non è quello.

Quando ho giocato a 80 Days mi ero stupito della capacità di trasfondere il mood dell’Ottocento e le sue storie nella narrazione del gioco. Ecco, quello è talento: io non sarei capace, ma mi accorgo di quale sia l’operazione che è stata fatta. Qui vedo che la narrazione, apparentemente lineare, ha una profondità inaspettata e mai facilmente scandagliabile, ma non capisco come abbiano fatto a creare questa profondità, ecco.

A occhio direi che la risposta sta da qualche parte nella capacità di inserire un approccio molto filosofico nella narrazione, incrociando la scrittura del gioco con una sorta di volontà apologetica, ma è una risposta parziale perché non riesco nemmeno a capire quale sia l’apologo e di che cosa sia e in ogni caso i punti di contatto fra gioco e apologetica sono del tutto sfumati.

Di una cosa, però, sono sicuro: qualunque sia l’operazione che sia stata fatta, è stata fatta con grandissima leggerezza. Al contrario, ho provato nei giorni di Natale anche Disco Elysium, che fa un’altra operazione interessante di incrocio fra visione filosofica e gioco, e l’ho trovato al confronto pesante come piombo, ma questa è un’altra storia e, come suol dirsi, sarà raccontata un’altra volta.

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