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Ottanta giorni

Il mio compare Andrea Assorgia, nonché compagno Fabbricastorie, mi ha segnalato che, se mi piacciono i romanzi interattivi, avrei dovuto provare 80 Days, un gioco vastissimo che riprende esplicitamente i personaggi e le situazioni di uno dei più famosi romanzi di Verne, cioè appunto Il giro del mondo in ottanta giorni.

80 Days (io l’ho giocato sul telefono) segue in maniera piuttosto lasca la trama originaria: il pretesto della scommessa è lo stesso e alcuni dei personaggi del libro (Fix, Aouda) compaiono anche qui, anche se in ruoli e con posizioni inaspettate, ma per il resto sin dall’inizio si capisce che il mondo non è lo stesso, ma una sorta di Ottocento steampunk ricco di macchine volanti, robot senzienti, treni sottomarini e migliaia di altre invenzioni.

Raccontare Verne e l’Ottocento

Devo dire che, quando me ne sono accorto, ho avuto un attimo di esitazione: non è che non mi piaccia lo steampunk, è solo che in altre occasioni il risultato non mi era parso esattamente esaltante.

È chiaro che lo steampunk annovera Verne fra i propri padri nobili. Il problema però è che in Verne le invenzioni mirabolanti sono sempre uniche: un solo sottomarino, una sola navicella spaziale, una sola nave volante. Il resto del mondo è inchiodato alla tecnologia tradizionale ed è proprio il contrasto fra questa quotidianità e l’opera mirabolante del genio magari incompreso a creare il contrasto drammatico su cui si basano i libri. Ma Verne si guarda bene (quasi sempre) dal mettere tutte le invenzioni nello stesso romanzo e, per esempio, Il giro del mondo è basato esattamente sul principio della quotidianità che diventa impresa eroica: se esistessero le navi volanti sarebbe possibilissimo compiere l’impresa in ben meno che ottanta giorni.

In realtà 80 Days spezza più di una lancia per l’argomento opposto. Il problema, credo, è che ormai l’Ottocento è piuttosto lontano e non facilmente comprensibile. Non è che non si possa raccontare in assoluto (ci sono un sacco di fumetti che lo fanno ancora benissimo), però è sempre più difficile perché più lontano dalla memoria, per esempio, dell’età media di quello che si immagina sia il pubblico dei videogame. E raccontare insieme l’Ottocento e Verne è ancora più difficile, perché il senso di meraviglia mischiato al patetico-avventuroso in cui eccelleva Verne è difficile da replicare per gente che l’uomo nello spazio lo può vedere quasi tutti i giorni al telegiornale.

Serve avere altre frecce al proprio arco e devod ire che la scelta dello steampunk in questo senso si rivela fortunata, permettendo di ri-raccontare Verne specificamente e l’Ottocento in generale in maniera più fresca e più libera. L’inventiva fantastica dimostrata dagli autori, soprattutto nei mezzi di trasporto, ricrea il senso di meraviglia; l’Ottocento è riproposto attraverso situazioni inventate che però echeggiano casi reali.

In questo senso la scrittura di 80 Days è, devo dire, davvero molto buona, capace di tessere temi e personaggi diversi in un unico arazzo accattivante, di richiamare le atmosfere verniane senza scimmiottarle, di caratterizzare con una certa profondità Passepartout e Fogg (e di creare una buona immedesimazione verso il nostro amico francese), di presentare molti comprimari interessanti e di richiamare una serie di argomenti tipici dell’Ottocento (gli imperi, il colonialismo, le lotte per l’autodeterminazione, i popoli selvaggi, gli spazi naturali ancora liberi, le civiltà lontane e l’esotismo, i gentiluomini e gli avventurieri e così via) in maniera magari stringata ma non banale.

Se un appunto va fatto alla scrittura, casomai, è che non arriva mai in profondità: manca (perlomeno: ho fatto quattro o cinque partite senza trovarla) una trama complessiva, una Grande Cospirazione, che dia al giocatore il piacere di rimettere i pezzi assieme. Si fanno molti incontri interessanti che sembrerebbero l’introduzione a trame successive, ma ciascuno rimane quasi sempre chiuso nella città dell’incontro, o al massimo richiamato molto velocemente in una o due occasioni successive. Dopo un po’ la cosa diventa un po’ deludente, come una sorta di promessa non mantenuta, e talvolta sembra proprio un errore di continuità e di coerenza.

Dopo un po’ ci si rende anche conto che in molti casi non ci sono reali capacità di influire sulla trama; la maggior parte delle scelte offerte a Passepartout – ce ne sono moltissime – servono a creare immedesimazione e a dare al giocatore la possibilità di costruire il personaggio come vuole, ma raramente aprono, per esempio, possibilità di percorsi differenti o sottotrame diverse. Pur con questi difetti, la parte narrativa è davvero molto buona.

Il funzionamento del gioco

Il brevissimo viaggio iniziale da Londra a Parigi vale praticamente come tutorial: impariamo a fare la valigia (gli oggetti che abbiamo con noi influenzano il gioco), iniziamo a dialogare e a fare le varie scelte nella trama, scopriamo le azioni principali che possiamo compiere arrivati in una città: controllare i percorsi per proseguire più avanti o invece partire immediatamente, esplorare la città, comprare o vendere oggetti (che è importante per essere ben equipaggiati ma anche per rimpinguare i nostri fondi), passare la notte in albergo per riposarci e anche, semplicemente, perché al momento non c’è niente da fare.

Strategicamente il gioco richiede una certa pianificazione: le rotte non sono tutte visibili sulla mappa ma vengono scoperte sulla base delle azioni di gioco, oppure mediante oggetti acquistati, parlando con i comprimari o esplorando le città. Il che vuol dire che ci si può dirigere verso un posto fidando sul fatto che un collegamento per proseguire ci debba essere per forza, ma col rischio di scoprire che sia invece un vicolo cieco, oppure scegliere percorsi più lunghi ma più sicuri. In più i mezzi di trasporto non partono tutti i giorni, hanno velocità diverse, costi di viaggio molto diversificati e offrono diverse possibilità di trasporto del bagaglio, e anche questo richiede attenzione, per evitare di sprecare giorni nell’attesa di un cargo che forse non arriverà mai, o essere costretti a imbarcarsi su una nave volante costosissima che non permette di trasportare quell’oggetto voluminoso che dobbiamo assolutamente portare con noi se vogliamo venderlo al prossimo mercato e avere così i soldi per pagarci la prossima tappa.

Abbastanza presto ci si rende conto che il gioco ha una difficoltà di gioco piacevolmente moderata: si può fallire la prima partita ma rapidamente si acquisisce abbastanza pratica da vincere più o meno sempre con guadagni anche ragguardevoli. È un livello di difficoltà adeguato: di meno non avrebbe senso, di più renderebbe il gioco un esercizio ragionieristico che impedirebbe di godersi la storia e le varie situazioni narrative.

Qui si vede che ho deviato verso Monaco per fare un grosso affare al mercato e che poi da Varsavia ho scoperto che era meglio scendere verso Istanbul

Rigiocare nel tempo

Appena finita una partita il gioco ti propone immediatamente di ripartire. La spinta è, naturalmente, provare a vedere se lungo un’altra rotta succedono cose diverse: la prima volta sono passato da Suez e l’India; la seconda volta ho provato a vedere come funzionava con l’Orient Express fino a Vladivostok; la terza volta, in realtà, sono andato volontariamente un po’ fuori strada, a sud attraverso l’Africa, con l’idea di fare il Capo e poi l’Australia (poi è andata diversamente).

Il gioco reagisce bene, devo dire, alla ripetitività: se la descrizione delle città rimane forzatamente la stessa, una serie di avvenimenti e di incontri già vissuti non si ripetono ma ce ne vengono presentati altri, facendoci fare la conoscenza di altri comprimari (non è sempre vero ed è un po’ seccante, se non ho capito male, che tutte le volte che andiamo a Chittagong i ribelli fanno saltare la stazione, anche perché questo sembra suggerire che come viaggiatori portiamo più sfiga della signora Fletcher). La vastità del gioco si apprezza così ancora di più al secondo o terzo passaggio, anche se è un po’ seccante che la mappa, soprattutto nella parte finale, tenda a comprimere le scelte e a farci tornare dove tutto sommato siamo già stati: i modi di attraversare il Pacifico e l’Atlantico, insomma, sono abbastanza limitati e portano, in finale di partita, a giocare sempre allo stesso modo.

Riflettevo che, in qualche modo, i difetti delle due parti portanti del gioco collaborano a una resilienza inaspettata che ci fa tornare al gioco più volte dopo il primo passaggio. La parte gestionale/strategica da sola è troppo facile per rendere il gioco interessante nel lungo termine: quando hai capito che devi fare due o tre grosse vendite e adottare un criterio per il quale continui a muoverti in avanti, comunque sia, è difficile che tu perda, ma il gioco diventa presto privo di interesse. Ci sono però le narrazioni e la scoperta di luoghi che non hai ancora visitato che compensano questo difetto. Le narrazioni, da parte loro, sono tropo micro per lasciarti a bocca aperta in una singola partita ma, contemporaneamente, non essendoci una sola singola grande trama da scoprire una volta per tutte, il gioco continua a offrire novità anche alla quarta o quinta ripetizione. Devo dire che, sotto questo punto di vista, 80 Days non solo ha una signora scrittura ma anche un game design più che rispettabile.

A proposito di franchise

A proposito di signora scrittura, non ho avuto il tempo di scoprire se 80 Days si sia espanso fino a diventare una franchise con altri giochi e prodotti vari tutti collegati, ma certo uno dei risultati che raggiunge, probabilmente involontariamente, è quello di costituire una fantastica ambientazione già pronta per un gioco di ruolo (anche per un gioco da tavolo, ma quello è un po’ più complicato). Tutte le microstorie proposte città per città o regione per regione, prese insieme con alcune trame più robuste (la contrapposizione fra gli imperi europei, la Gilda degli Artificeri e i suoi nemici, dal Papa alla Scuola, gli Zulu o i Persiani pronti a perseguire i propri sogni egemonici, i vari ribelli sparsi un po’ dappertutto) sono già lo sfondo ideale per un gran numero di avventure. Ci sono già un sacco di personaggi non giocanti belli pronti. C’è un lavoro già fatto sulle tecnologie. C’è lo sviluppo storico di un Ottocento ucronico già preparato. E ci sono i libri di Verne come ulteriore suggerimento di sviluppi avventurosi. Se io dovessi fare una campagna qualsiasi di tipo steampunk la farei dentro il mondo di 80 Days: oltretutto per spiegare l’ambientazione ai giocatori basta dirgli di giocarsi un paio di partite al videogame, senza bisogno di dovergli raccontare la rava e la fava o imporre a lettura di manuali ingombranti.

Il che, a parte essere un suggerimento che offro gratis, serve a rafforzare ulteriormente l’idea che Eighty Days sia scritto molto bene: quando in un posto ci vuoi tornare, vuol dire che chi l’ha descritto ha fatto un buon lavoro.

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