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Personaggi che funzionano, dissonanze ludonarrative e altre stranezze

Il mese scorso ho tenuto una breve relazione a uno dei seminari che i Fabbricastorie hanno organizzato in preparazione alla prossima Cagliari Global Game Jam. Le slide che ho usato sono qui sopra, ma ho pensato che più di altre volte avessero necessità di essere commentate, anche perché durante il seminario ero un po’ preoccupato di andare lungo coi tempi (come al solito!!) e magari qui riesco a dire cose che là ho trascurato. Francesco Ladommada mi ha anche fatto una domanda piuttosto specifica sulle dissonanze (narrative, negative o ludonarrative? se non sapete che roba è non preoccupatevi, non lo sa nessuno) alla quale non ho mai dato risposta, e quindi approfitto anche per quello. Infine, consiglierò magari anche un po’ di siti (purtroppo in inglese) che sono interessanti da consultare per chi è interessato a come funzionano le storie.

Detto questo, iniziamo!

Dunque, per riassumere: mi era stata affidata (veramente, mi ero preso…) una relazione su un tema legato alle narrazioni nei videogame. Lo stile dei seminari era caratterizzato dalla brevità e quindi non si poteva che dare per presupposto tutto l’enorme campo della narratologia per concentrarsi su un aspetto specifico.

Ovviamente ci doveva essere per forza qualcuno fra i partecipanti che non aveva mai sentito parlare minimamente di tutti questi argomenti, quindi ho deciso di mettere le mani avanti, dichiarare che mi sarei limitato a un tema molto specifico e poi dare due-spunti-due per chi avesse voluto provare a varcare la soglia dello studio di come funzionano le storie. Sono due spunti che possono lasciare piuttosto perplessi, ma per chi si deve misurare per la prima volta con questi temi, magari nei tempi ristretti di una jam, Vogler è davvero un suggerimento prezioso e The Writer’s Journey un sito molto ricco di materiale. Poi è chiaro che siamo nel campo di un approccio culturale molto americano e che trasuda strumentalità, ma queto non toghlie che per cominciare afarsi una propria cassetta degli attrezzi vada più che bene. Il riferimento a Propp? Beh, non si può non fare, no? E poi magari non tutti si leggeranno il libro intero, ma la pagina Wiki mi sembra un buon punto di partenza per cominciare a capire… e poi Vogler andava controbilanciato in qualche modo!

Fatta la premessa resta da dire perché ho deciso di parlare di personaggi. Beh, perché ho pensato che in un gioco che si crea in una jam non necessariamente c’è una trama (che trama c’è in un flipper? In un gioco da tavolo?) ma, paradossalmente, è molto probabile che ci sia un personaggio, e l’esempio che ho trovato mi sembra molto chiaro:

Ecco, quella che vedete è una schermata originale del primo gioco con Mario, Donkey Kong. Come gioco  è un platform: ci sono una serie di quadri, di difficoltà crescente, che si ripetono sostanzialmente sempre uguali; eppure il giocatore percepisce immediatamente di essere dentro ua storia e non dentro un meccano o un gioco di abilità. Perché? Che cosa vediamo (e che cosa vedeva il giocatore)?

Beh, in alto a destra vede un gorilla. Gorilla, in alto, come King Kong (in un’altro quadro la similitudine con l’Empire State Building era anche più evidente). Deve essere per forza King Kong, infatti c’è anche la bionda prigioniera. Questo vuol dire che il terzo personaggio, lo strano ometto buffo, deve essere per forza l’eroe – un eroe molto particolare, come vedremo. Nessuno ci ha detto che il gorilla ha rapito la ragazza, che occorre salvarla, che alla fine Mario riceverà un bacio in premio: ma noi sappiamo che è così perché abbiamo riconosciuto tutti i segnali. E quali sono questi segnali? Ma i personaggi, perbacco: i personaggi sono cartelli segnalatori che indicano dentro quale trama ci troviamo (o meglio, ancora prima: che c’è una trama), senza che l’autore debba prendersi la briga di raccontarla.

Ci stava bene, a questo punto, presentare una delle espressioni gergali di più lunga data dei Fabbricastorie, la Teoria del Rigurgito.

Se chiedete a ciascuno di noi, la Teoria ha una spiegazione e una interpretazione diversa. Nella mia idea quel che è importante è rendersi conto che tutta la nostra immaginazione ha incorporato il frutto di un bombardamento narrativo che ci accompagna da quando siamo nati, che sta lì buono buono finché, come dicono a Roma, te se ripropone: usare i personaggi come segnali vuol dire fare appello a tutta quella massa dormiente pronta a farsi sollecitare e a fornire risposte, entrare in connessione immediata con l’immaginazione del giocatore: nel caso di Donkey Kong, la Bella in Pericolo, l’Eroe Improbabile, Il Mostro e la Bella, Liberare l’Ostaggio, la Cerca, ognuna vista mille volte dal giocatore declinata in zilionate di modi diversi il film, fumetti, romanzi, giochi e cose simili.

E quindi sono lì alla jam, voglio entrare in connessione con un giocatore che non conosco che chissà come e dove vedrà il m io gioco, voglio dare profondità narrativa al mio gioco ma non posso creare tutto un gioco narrativo, cosa faccio? Ci metto dentro un personaggio, almeno uno.

Oh! Non è detto che non si possa fare un intero gioco narrativo a una jam, io l’anno scorso ho fatto esattamente questo, ma il discorso non cambia: volevo richiamare le atmosfere degli anni ’50 e certi film in bianco e nero e che ho fatto? Ho lavorato sui personaggi (anche sulle situazioni, ovviamente, ma prima di tutto sui personaggi).

E, tra l’altro, ciò che vale per i giocatori vale anche per me che creo il gioco: mi piacerà pensare di avere un’immaginazione irresistibile, ma sarà meglio che sappia che anche a me verranno in mente certi modi di caratterizzare i personaggi – cioè di caratterizzare i segnali che sto mandando ai giocatori – perché sono condizionato dal mappazzone che rigurgita dentro di me; se lo capisco saprò quando nuotare con la corrente e quando rifiutare di essere banale, per esempio.

Se uno capisce questo, è come girare la chiave: poi tutto va a posto, si tratta soltanto di fare esercizio.

Credo che le slide che sono seguite siano abbastanza comprensibili: suggeriscono degli esercizi – o una forma di autocontrollo – che pian piano dovrebbe diventare automatica in chi lavora con le storie. L’ultima di questo gruppo di slide viene diretta da un’altra relazione e forse non c’entra tanto, ma mi sembrava opportuno inserirla come una di quelle porte verso ulteriori approfondimenti, e anche per chiarire che non sto parlando di caratterizzazione dei personaggi dal punto di vista dell’aspetto – in un videogame può sembrare un fatto ingannevolmente naturale, vedasi la ragazza cyberpunk o il killer pelato – ma di posizionamento dentro la narrazione.

Dei tre personaggi di videogame che commentano queste slide il mio preferito è Terence, l’uccello grasso di Angry Birds. Non sono sicuro che l’immagine sia proprio la sua, non è facilissimo distinguere Terence e Red, ma non è questo l’importante. Durante la quarta espansione di Angry Birds tutti gli uccelli vengono catturati dai maiali cattivi, tranne Terence, che assiste non visto al rapimento. I quadri successivi presentano le varie avventure di Terence che man mano libera gli altri uccelli (e questa è una, per quanto esile, linea narrativa). Bene, Terence è grasso. Nella storia ufficiale di Angry Birds Terence è semplicemente un uccello solitario che non fa parte dello stormo finché non lo libera dai maiali, ma io vedendolo grasso e solitario ho immediatamente ricevuto – e credo con me molti giocatori – un segnale molto più forte: grasso e solo quindi emarginato dallo stormo, assume il compito di liberare tutti, quindi siamo dentro una storia di rivalsa, di affermazione di sé contro le difficoltà, di eroi improbabili, della pecora nera che salva tutto il gregge. Potente, no? E tutto perché Terence è grasso. Un modo elegante degli autori di Angry Birds di dare una veste narrativa a una serie di meccanismi creativi: dovevano creare un uccello diverso da quelli utilizzati fino a quel momento, con situazioni diverse e sfide diverse per il giocatore; ma il segnale che hanno utilizzato – essere grassi non è popolare, oggi – li ha portati molto oltre le pure aggiunte di meccaniche di gioco diverse.

Fatti tutti questi discorsi sui segnali narrativi che si possono creare coi personaggi, una avvertenza era d’obbligo, e cioè che questi segnali devono essere coerenti.

Cos’è una dissonanza cognitiva? È quella cosa che succede quando c’è uno scarto fra ciò che sono abituato a credere e ciò che mi dicono i miei sensi. Se mi danno un cucchiaino di quello che sembra proprio zucchero e il sapore è, boh, di peperoncino io avrò un attimo di sbandamento, perché io saprò che lo zucchero è dolce ma il mio palato mi dirà tutto il contrario.

Una dissonanza narrativa è simile: se Pippo è un cane, perché Pluto è un cane? Che razza di storia vi sto raccontando? Se tutti sappiamo che la kryptonite fa male a Superman, che reazioni avreste se c’è tutta una storia del cattivo che prepara un cannone a kryptonite e Superman facesse spallucce?

Il concetto di dissonanza ludonarrativa è stato introdotto da Clint Hocking in una sua recensione di BioShock che merita di essere letta. L’idea è quella che spaesamenti simili possono essere indotti nel momento nel quale le premesse narrative del gioco e le sue meccaniche confliggono: per esempio perché per progredire devo compiere azioni che la trama e la caratterizzazione del mio personaggio dovrebbero trovare aberranti. Sono cose che è meglio evitare, evidentemente, e in una relazione sui segnali narrativi l’avvertenza era chiaramente necessaria, ma questo è stato il punto che, grazie a una domanda di Francesco alla quale non sapevo rispondere, mi ha portato dopo la relazione a una serie di scoperte.

Parentesi sulle dissonanze ludonarrative

Intanto, ho scoperto che sul tema – che a me pareva pacifico – esiste un dibattito piuttosto sentito fra autori e altri esperti di giochi, del quale una buona sintesi mi pare quella che ne fa Drew Messinger-Michaels, in un articolo probabilmente più comprensibile di quello originale di Hocking. In ongi caso si trovano molte più difese del termine e del suo uso come strumento critico che  attacchi. Un punto di vista lievemente alternativo è quello di un articolo scientifico di uno studente dell’Università di Tokyo, Frederic Seraphine, le cui conclusioni sono molto interessanti anche se un po’ tecniche: le riporto inglese scusandomi con i lettori abituali – quelli del giro sviluppatori lo leggono sicuramente senza problemi – anche se la mia impressione è che in realtà parli d’altro.

Through the different analyses of debates on the term ludonarrative dissonance, it became clearer that the real issue behind dissonance was coming from the opposition between incentives and directives in the narrative structure on one side and the ludic structure on the other side. To face this issue, some scholars and designers advocate for the use of emergent narratives, as an intrinsically more harmonious way to create narrative experiences within games. Others are advocating for more interconnections between the ludic and the narrative structure, as it permits a form of guided storytelling that feels harmonious to the player. But one interesting alternative that stands out is the purposeful use of this dissonance, in order to create interrogations or dissonant feelings in the player’s mind. And after all, despite all the debates it sparked, this might have been exactly the goal pursued by the designers of Bioshock. The game tries to draw our attention on the linear play that most FPS usually put us through. Atlas gives directives by addressing the player with a very polite “Would you kindly”, but when the game reveals that you were manipulated by Atlas, it actually draws the attention to the clichés of linear gameplay. The debates it sparked shows us that this game actually had an influence on the way we think about games. Recently, the French studio Dontnod Entertainment — famous for their previous game Life is Strange (2015)— announced a game called Vampyr (2016). A game where the player controls a doctor during the epidemic of Spanish influenza. A doctor, who also happens to be a vampire, is forced to drink people’s blood in order to survive. The game seems to be based on the dissonance between trying to save people’s life from influenza — which is your duty as a doctor — and the incentive of the gameplay which pushes you to drink people’s blood in order to survive and become stronger. The trailer of the game ends with the following sentence: “I did not choose the thing that I’ve become, but I can choose the lives that I’ll not take … Cursed be the choice…” (Focus Entertainment, 2016, 1:17-1:30). It seems that more games in the near future might use ludonarrative dissonance as a way to tell more compelling stories. In essence, stories are about characters and the most interesting stories are often told with dissonant characters; as it is the surprise, the disturbance, the accident, the sacrosanct disruptive element, that justifies the very act of telling a story.

Ma, siccome questo è un articolo che parla di una relazione essenzialmente pratica: strumenti epr lavorare dentro i limiti di tempo e impegno di una jam, la segnalazione più utile mi sembra l’ottimo wiki dell’ottimo sitoTvTropes.org, una vera e propria miniera di concetti e riferimenti nel quale ci si possono facilmente perdere le ore e che secondo me è un indirizzo che tutti quelli che lavorano con le storie dovrebbero tenere presente. Il loro approccio alla dissonanza ludonarrativa è la teoria della scala mobile e a me è sembrato più convincente e inclusivo di quello di Hocking (permette di gestire e capire difetti dell’integrazione fra gioco e storia che nell’impostazione di Hocking non sono maneggiabili), ma soprattutto, come dicevo, è un sito di consultazione utilissimo.

E ora, torniamo a noi.

E da molto tempo – almeno dall’epoca dei tornei nazionali di Cyberpunk 2020 – che quando i Fabbricastorie giocano di ruolo o scrivono avventure usano caratterizzare i loro personaggi come se ci fosse un attore reale che li interpreta. Serve, prima di tutto, a dare concretezza a quella figura, dargli un corpo, un viso, una postura, una voce, ma serve anche, per l’ennesima volta, a costruire dei segnali: se dessi a un mio personaggio la faccia, che so, di Clint Eastwood, quando il giocatore penserà a lui non potrà che attaccare a quel personaggio, magari molto diverso, tutti gli altri personaggi che Clint ha interpretato nei secoli.

Nei videogame, ho scoperto, la cosa è piuttosto diffusa e ha dato risultati notevoli: non solo la dimensione banale di un attore che interpreta direttamente un personaggio, come mi pareva Nathan Fillon per il Nathan Drake di Uncharted, ho visto poi che la somiglianza, che a me pareva evidente, non è ufficiale e che vengono citati altri attori: in ogni caso cambia poco.

Più interessanti come casi di studio sono le traslitterazioni, cioè l’uso di uan base reale per ottenere qualcosa di diverso: Sonic come evoluzione di un misto di Bill Clinton e Michael Jackson, per esempio, oppure Neneh Cherry come base per lo sviluppo di Lara Croft.

Parlando di casi di studio, però, quello più interessante è proprio Mario, che ci consente di riassumere tutto quello che abbiamo detto sinora. Non tutti sanno che inizialmente il gioco doveva avere come protagonisti il trio composto da Braccio di Ferro, Bluto e Olivia (nella prima caratterizzazione grafica dei personaggi, qui sopra, la derivazione di Mario è piuttosto evidente). Solo che la Nintendo non riuscì ad avere i diritti e perciò dovette ricorrere a quella traslitterazione dei personaggi, a da altre basi, di cui abbiamo appena parlato. Non so come andarono esattamente le cose ma credo che la prima traslitterazione, la più ovvia, fu quella di Bluta, che dopotutto è già costruito come scimmiesco. E se si fa il passaggio da Bluto al gorilla il Rigurgito fa subito emergere King Kong e il grattacielo, evidentemente. L’altro passaggio naturale diventa far diventare Olivia una bellona bionda (non solo per rispetto della storia originale ma perché, diciamolo, chi se non Braccio di Ferro rischierebbe la vita per Olivia?). Il gioc è quasi fatto, rimane solo da decidere chi è Braccio di Ferro: abbiamo il grattacielo, perché non un carpentiere, dopotutto? E il gioco è fatto, e impararlo aiuta a ripeterlo e a impratichirsi a manipolare gli stereotipi: qui sotto un po’ di altri esercizi:

Ecco sinora ho raccontato tutte cose che funzionano, cose che magari all’inizio non vengono naturali ma che con un minimo di esercizio consentono di destreggiarsi bene nelle storie, di mandare segnali giusti ai giocatori e di raggiungere buoni risultati: dopotutto i film a Hollywood li fanno così. Però devo dire che a me questa cosa, che sprezzantemente chiamo quello che insegnano nelle scuole di scrittura (come se io invece fossi uno molto bravo), ha un po’ stufato. Mi sembra per esempio che la violazione delle regole sia diventato u altro modo di scrivere stereotipi: come racconta il mio socio Andrea Assorgia, un tempo quello che nella trincea tirava fuori al cartolina con la famiglia lo ammazzavano di sicuro, adesso invece lui non muore ma fanno fuori l’altro. Però è sempre un usare uno stereotipo, e peggio: farlo strizzando anche l’occhio allo spettatore; secondo me si può fare di meglio. Io da un po’ quando scrivo giochi parto dalle persone che conosco veramente, da persone e situazioni reali che ho visto, e mi pare che funzioni meglio che usare archetipi e icone pop, e questo mi pare il consiglio migliore per chi vuole esplorare strade un po’ meno battute.

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