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Il pesce puzza dalla testa

Riflettevo stamattina che è proprio vero che il pesce puzza dalla testa.

Il tema sul quale riflettevo rientra in una questione che credo spesso venga dibattuta: un paese ha la classe dirigente che si merita? O è la classe dirigente che in qualche modo plasma il paese?

Per quanto mi riguarda anni fa mi sono convinto definitivamente della seconda ipotesi: ero in una qualche organizzazione o un’altra e vidi i dirigenti esprimere quel misto di cinismo travestito da lucidità, disprezzo per i deboli e cura ben mascherata del proprio interesse che era un segno distintivo della classe dirigente del ventennio berlusconiano. In sedicesimo, naturalmente, ma era proprio quello, riconoscibilissimo. Perfino la retorica, il modo di gestire il dibattito e la polemica interna erano gli stessi, identici, dei talk show televisivi dell’epoca e dell’esibizionismo politico che li accompagnava (che peraltro sono gli stessi anche ora).

E così mi ricordo che pensai: «Il pesce puzza dalla testa».

Naturalmente non sto dicendo che il paese in questi casi è innocente. L’egoismo, la violenza appena repressa, il familismo, la tecnocrazia de noantri e altri difetti che hanno segnato il suo ventennio non li ha inventati Berlusconi né nessuno dei suoi consiglieri: stavano nella società italiana già da prima. Ma il modo di dargli espressione, la narrazione, il linguaggio attraverso i quali si esprimono, e poi le applicazioni politiche ed operative: tutto ciò, senz’altro, sono espressione della classe dirigente, ed è per questo che chi sta alla testa della nazione ha tanta responsabilità in più del cittadino normale nel giudizio storico e morale; ciò che fanno è educativo o diseducativo, costruisce le basi per uno sviluppo del paese o una sua ulteriore degradazione.

Oggi in particolare riflettevo sui modi con i quali la comunicazione si esplicita in questo periodo, dalla rete ai media tradizionali, e di come ambiti che tendenzialmente sarebbero in grado di autoregolarsi decentemente siano però estremamente vulnerabili quando qualcuno scientemente sposta il confine del lecito, sapendo che di fatto non c’è sanzione: dall’insulto sparato a tutta pagina al trollaggio anonimo, il problema non è mai il caso isolato, che la comunità coinvolta sa governare: il problema è la violazione sistematica, l’assunzione di una linea politica, culturale, operativa permanente (che siano i titoli de Il Giornale o il modo di proporre le notizie del blog di Grillo o il vezzo renziano del tweet o l’assunzione di due dozzine di influencer da parte di una multinazionale): in quel caso non c’è niente da fare, e puoi stare tranquillo che in un periodo più o meno breve ti ritrovi gli stessi modi di comunicare o di esprimere il proprio pensiero in rete o altrove. Non è il mezzo: cioè non è sufficiente la spiegazione che la rete, l’anonimato, la spersonalizzazione… oppure la TV, l’asimmetria, la passività… non sono spiegazioni sufficienti. Dipende dal fatto che c’è una scelta di un pezzo di classe dirigente, che per motivi magari contingenti decide di spostare col proprio peso le regole comunemente accettate e così introduce un costume nuovo e peggiore.

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