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Quantità di sangue ragguardevoli

The hateful eight (Quentin Tarantino, USA 2015)

(nota: possibili spoiler, a vostro pericolo)

L’altra sera ho visto l’ultimo di Tarantino: è stato interessante vederlo a così breve distanza da Revenant perché i due film, per quanto diversissimi, condividono in fondo il tentativo di parlare esclusivamente attraverso l’estetica.

Premessa: se siete deboli di stomaco, non andate a vederlo: c’è una quantità di sangue tale da mandare in fallimento un centro trasfusionale (e però il film, pur crudo, non fa di questo la sua cifra stilistica).

Dunque, la storia sarebbe questa: all’emporio di Minnie si trova un gruppo di varia umanità, tutti in viaggio verso Red Rock ma bloccati dalla tormenta.

Oddio, varia umanità. In realtà sono tutti uomini, tutti pericolosi e tutti probabilmente con qualche segreto da nascondere. L’unica donna presente è ammanettata a un cacciatore di taglie e viene condotta a Red Rock per essere impiccata.

L’impianto è chiaramente claustrofobico e Tarantino è abilissimo, nella prima parte, a disporre indizi e false piste con un gioco elegante di simmetrie: i cacciatori di taglie sono due, e forse sono alleati e forse no; c’è uno sceriffo che forse va a Red Rock a prendere possesso del suo nuovo incarico e forse deve presiedere all’impiccagione di chi ha ucciso il suo predecessore; c’è uno che forse è il boia e va a Red Rock a impiccare il suddetto, ma anche uno dei cacciatori di taglie è noto come “il boia” e comunque le impiccagioni in vista sono due; tre dei presenti hanno fatto la guerra di Secessione, su fronti opposti – uno è nero – e forse l’hanno fatta con onore e forse no e forse i vecchi rancori della guerra civile riesploderanno e forse no; forse la prigioniera è il McGuffin posto al centro per far avanzare la trama e forse no; c’è uno a cui forse Minnie ha lasciato in gestione l’emporio e forse no. Potrei continuare.

Una impostazione del genere farebbe presagire un disvelamento progressivo, un venire a nudo dei vari segreti e delle varie vere e false identità e un abbandono delle false piste fino alla chiusura in maniera coerente di quella che sarà rivelata come la vicenda principale.

Parentesi: alcuni commenti dei giornalisti facevano pensare lo stesso. Ho visto più volte citare Dieci piccoli indiani (e mi son fatto l’idea che si volesse invece indicare Trappola per topi). Dopo aver visto il film mi chiedo se i giornalisti vedano mai i film che commentano (risposta: mai, evidentemente) perché il riferimento è del tutto campato per aria (casomai si poteva citare alla lontana Dalle nove alle dieci perché Tarantino bara intenzionalmente con gli spettatori – non vi dico come, ma dopo aver visto il film sarete d’accordo con me). Fine parentesi.

Dicevo: si presagisce un disvelamento progressivo, invece non c’è. Quando cominciano a saltar fuori le pistole i giochi sono del tutto fatti: le spiegazioni vengono date interamente agli spettatori (con un flashback pletorico) e resta solo da gestire la macelleria – con la quantità industriale di sangue di cui si diceva prima.

Lo spettatore ha diritto a sentirsi defraudato? Boh. Ha avuto un cast fantastico in stato di grazia e un’estetica rigorosa e interessante. E un abbozzo di tematiche: il destino dell’America. I neri e le donne come parti deboli di questo destino. I lupi affamati chiusi in un recinto che si sbranano a vicenda.

Basta? Ma no che non basta. Se Iñárritu sembrava ritrarsi dal dire una parola definitiva sulla vicenda per eleganza, Tarantino sembra farlo perché troppo cafone: meglio che una storia puzzi di polvere da sparo che di morale. Questa indulgenza verso se stesso e i propri gusti è anche ciò che, temo, ha fatto pensare a molti critici che The hateful eight sia inutilmente autocitazionista: a me non sembra, in realtà, ma mi sembra che come per Iñárritu ci sia la pretesa di pensare che la sola estetica – là rarefatta, qua carnale, oh quanto carnale – basti per definire un film e renderlo compiuto.

Purtroppo invece non basta.

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