Cappe e spadeCoordinateFilmLe narrazioniRecensioni

Le strane esitazioni di Iñárritu

Revenant (Alejandro G. Iñárritu, USA 2015)

Avviso: lievi spoiler.

Ho visto Revenant ormai una decina di giorni fa ma non avevo mai avuto occasione di parlarne.

Per molti aspetti è un gran film: girato benissimo (non dico che il piano sequenza iniziale nel bosco valga da solo il prezzo del biglietto, ma è davvero notevole, perfino per me che di solito non mi rendo mai conto dei movimenti di macchina), benissimo recitato, con una fotografia splendida, ambientato in posti favolosi e con una storia doppiamente interessante: per la vicenda in sé e per il il quadro storico che le fa da sfondo.

Eppure alla fine mi sono chiesto: ma questo sarebbe un film da Oscar?

Che poi naturalmente l’Oscar è il premio che Hollywod dà a se stessa – forse anche che talvolta la Hollywood peggiore dà al peggio di sé – quindi la mia domanda è evidentemente mal posta, e suggestionata dalla solita domanda se Di Caprio questa volta ce la farà, ma insomma, vuol dire che da subito su Revenant avevo un dubbio.

Un dubbio che, per esclusione, non può che andare alla sceneggiatura, solo che bisogna intendersi.

La storia fila via benissimo. Il trapper Hugh Glass è tradito e abbandonato durante una spedizione e riemerge dalla tomba – letteralmente – per raggiungere di nuovo il forte dove si trovano i compagni. Nel mezzo la realtà della frontiera, la spietatezza della natura e l’intreccio di contrasti omicidi e relazioni inaspettate fra le tribù rivali dei Pawnee e degli Arikara e fra gli altrettanto rivali cacciatori americani e i francesi (e di ciascuno nei confronti di tutti gli altri).

La sceneggiatura mette correttamente in fila tutti i temi e le domande che vi potete immaginare, e anche di più. Revenant è una riflessione sul senso della vendetta. È anche una riflessione su ciò che si può e si deve fare per sopravvivere in situazioni estreme: vero anche questo, con in aggiunta l’interessante specularità fra Glass e il suo nemico Fitzpatrick, che alla fine non sono poi così diversi – entrambi fanno quel che è necessario quando è necessario. E poi c’è la riflessione su quanto disumanizzante può essere vivere nelle condizioni estreme della frontiera e a quali esili pagliuzze ci si aggrappi per mantenere il rispetto di sé stessi. Dei rapporti fra colonizzatori bianchi e indiani e della permeabilità dei confini fra i gruppi etnici sulla frontiera ho già detto. Naturalmente Revenant è anche un gran film di avventura, e anche una meditazione sugli spazi sconfinati della natura e sulla piccolezza dell’uomo. Ed è anche un thriller, a suo modo, che precipita verso un possibile regolamento di conti finale, che però non si sa se ci sarà, né quando, né come. E poi è un film psicologico: non solo nell’indagare il tema dei moti dell’animo di Glass rispetto alla vendetta, ma anche andando più a fondo: è impazzito, Glass, nella solitudine, tormentato dalle sue ferite, ed è per questa follia che è riuscito a sopravvivere? I sogni ricorrenti che ci vengono mostrati sono l’ancora di salvezza per mantenere un rapporto con il proprio sé e un senso di direzione, o sono il rifugio di un’anima malata per non sentire il dolore?

Un sacco di roba, come vedete. Con una serie di giochi di rimandi e di specularità fra i personaggi sui quali non posso dilungarmi ma che certo danno ulteriore profondità al film.

Quindi: un filmone. Però, esattamente, un filmone su che? Iñárritu si ritrae al momento di dire una parola decisiva, manca una scena madre, un tocco di epica in più, un attimo di groppo in gola, una scena indimenticabile, una battuta decisiva. Anche ammettendo che i grandi silenzi dell’ovest invitino al non detto, anche così Iñárritu sembra ritrarsi.

Nelle mani di un registra meno bravo Revenant poteva facilmente essere un film retorico, bolso, o stupido: cosa ne avrebbe fatto il Ridley Scott de Il gladiatore? Aiuto (che cosa ne avrebbe fatto lo Scott dei bei tempi si sa: basta vedere I duellanti). Oppure si poteva finire per fare un film sulla violenza, tipo Le iene, cioè un film già fatto. Come già si è espresso sulla frontiera Michael Mann, Kurosawa sull’uomo nella natura… perfino Rambo (c’è una citazione evidentissima che sono stupito che nessuno abbia colto) sull’uomo solo braccato nella foresta. E così via (da Sergio Leone a Sidney Pollack): a ogni passo sembra che Revenant si trovi la strada preclusa da qualcuno che c’è passato prima. Iñárritu ha una gran classe e doma tutta la materia multiforme che si trova per le mani, la mette in ordine e ne trae un filmone, ma mi sono chiesto se non si si sia sentito troppo elegante, troppo di classe, in un certo senso, per abbassarsi al colpo di teatro o alla magniloquenza o alla monomania di altri, e così si sia precluso un risultato migliore. Forse uno meno elegante non si sarebbe sentito costretto, e lui no: segno che forse talvolta la bravura può essere un problema.

 

Facebook Comments

3 pensieri riguardo “Le strane esitazioni di Iñárritu

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo:

Questo sito usa cookie o permette l'uso di cookie di terze parti per una vasta serie di funzionalità, senza le quali non potrebbe funzionare con altrettanta efficacia. Se prosegui nella navigazione, scorri questa pagina, clicchi sui link presenti nel sito, commenti un contenuto, condividi una pagina o un articolo, scarichi un file, visualizzi un video o utilizzi un'altra funzione presente su questo sito stai probabilmente attivando un cookie e acconsenti quindi implicitamente all'utilizzo di cookie. Per capirne di più o negare il consenso leggi la cookie policy - e le informazioni sulla osservanza della GDPR

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi