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La leggenda di Shangai Devil

Dopo aver finito il tredicesimo numero di Shangai Devil, Sette diavoli, riflettevo che questa serie sarebbe piaciuta al vecchio David Gemmell, i cui romanzi finivano tutti per arrivare ad un assedio disperato in cui pochi eroi affrontavano forze soverchianti. Dalle Termopili a Davy Crockett ad Alamo si tratta di un topos dell’avventura, ma il buon David ha sempre avuto il vezzo e la capacità di usare l’assedio (o, il che è lo stesso, la battaglia che lascia presagire una sconfitta certa)  come qualcosa di più, come il punto focale che dà senso a tutta la storia.

Come in una trama di Gemmell infatti la storia che Gianfranco Manfredi ha costruito sembra precipitare con velocità sempre maggiore verso uno scioglimento ambientato in un assedio senza speranza, e il fatto che noi sappiamo che nella realtà storica l’assedio del quartiere delle Legazioni Internazionali a Pechino da parte dei boxer e dell’esercito imperiale cinese si sia risolto con la vittoria delle truppe europee non toglie niente alla forza dell’intreccio, anche perché apparentemente Manfredi ha deciso di puntare su un episodio meno noto storicamente, l’assedio della Cattedrale cattolica di Beitang, di cui il lettore medio non conosce probabilmente l’esito finale e che permette quindi di mantenere la suspence.

Facciamo però un passo indietro per quelli di voi che non sanno di cosa io stia parlando. Per Bonelli Manfredi ha prodotto, con Magico Vento, una visione del western ad un tempo rigorosa filologicamente (come si addice alla sensibilità contemporanea) e contemporaneamente vicina allo spirito eroico delle rivistine dime press dell’Ottocento: un compromesso interessante basato sulla capacità di reintrodurre nel western l’elemento orrorifico e misterioso. Il fatto che secondo molti lettori – me compreso – molti dei momenti migliori della serie fossero non quelli horror ma quelli ambientati fra i nativi americani o che si rifacevano al grande western classico non toglie niente alla capacità innovativa di Manfredi, e Magico Vento rimane una delle serie di gran lunga migliori e più provocatorie dal punto di vista del pensiero degli ultimi quindici anni.

Mentre già Magico Vento si avviava alla fine (dopo oltre dieci anni) Manfredi ha potuto dare libero sfogo alla sua passione per il romanzo d’appendice e la letteratura popolare dell’Ottocento con una nuova serie a termine (cioè la cui conclusione era prevista già in fase di ideazione; Magico Vento si è concluso per motivi economici, ma dal punto di vista della storia sarebbe potuto eventualmente durare ancora). Questa serie, intitolata Volto Nascosto, si annunciava veramente interessante: un protagonista italiano, Ugo Pastore, una ambientazione “importante” ma poco frequentata dal fumetto, cioè l’Etiopia/Abissinia durante la guerra del 1895-96, e una trama che mischiava abilmente esotismo e feuilleton sentimentale. Il che non vuol dire che Volto Nascosto, che pure ho seguito con piacere fino alla fine, non abbia poi mostrato difetti: una costruzione talvolta un po’ legnosa del carattere dei personaggi, in particolare dello stesso Ugo, una trama non sempre benissimo armonizzata  e alcuni sorprendenti anticlimax (in Magico Vento i cinque albi dedicati alla battaglia del Little Big Horn sono l’apice della serie, in Volto Nascosto Adua è, se non ricordo male, abbastanza deludente) sembravano contraddire esattamente le premesse della serie, che però dava il meglio di sé, ancora una volta, nella filologicità della ricostruzione storica: dopo l’episodio di Adua le storie ambientate fra i prigionieri italiani degli Abissini – un episodio storico del tutto sconosciuto – sono un momento molto buono della serie. E il finale per quanto molto letterario e degno di Salgari (lo dico in senso positivo) chiudeva la serie in modo soddisfacente.

Insomma, ce n’era abbastanza per salutare con piacere il ritorno di Ugo Pastore in edicola per una seconda serie ambientata in una vicenda storica notissima ma poco frequentata dal fumetto (a parte Robin Wood, ma lui è enciclopedico), cioè la rivolta dei boxer in Cina (fra il 1899 e il 1901).

Dopo una serie di storie dedicate a impostare trama e personaggi mi sembrava che la serie si fosse un po’ persa nella faticosa definizione dell’intrigo di fondo che fa da cornice delle singole vicende avventurose: e non mi pareva che il tentativo di rendere il tema di base, Ugo non si può fidare di nessuno, ognuno porta una maschera, non solo il protagonista, fosse sempre efficace. Ed è stato anche un po’ spiazzante vedere apparentemente abbandonate figure e vicende principali in favore di deviazioni improvvise della trama: Shangai Devil sembra costruito in blocchi narrativi di cinque-sei capitoli non troppo ben collegati fra loro. Allo stesso modo alcuni interessanti personaggi secondari, come il faccendiere Risto, risultavano un po’ artificiali.

Negli ultimi due-tre album però la trama ha ripreso slancio e in un certo senso l’urgenza degli eventi – la rivolta ormai è scoppiata, la guerra dichiarata, lo scontro decisivo, cioè l’assedio, si avvicina a grandi passi – definisce meglio i caratteri dei protagonisti, Risto, appunto, ma anche i comprimari cinesi se non proprio l’eternamente imbronciato Ugo e offre, grazie ancora una volta allo scrupolo della ricostruzione storica, una serie di figure secondarie finemente cesellate, soldati, missionari, funzionari cinesi, che catturano e mantengono avvinto l’interesse del lettore. E se questo vale adesso, alle prime battute dell’assedio, dovrebbe valere maggiormente per il prossimo paio di numeri, in cui lo scontro si dipanerà in pieno.

Come in Gemmell, appunto: i cui personaggi non sono forse i meglio definiti della storia del fantasy ma a cui i fuochi di battaglie impegnate contro ogni speranza conferivano, in chiaroscuro, molto più dettaglio di quelli di altri autori più abili a tratteggiare i particolari.

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