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L’isola delle canne

Oltre che su questo blog questo articolo è stato pubblicato la settimana scorsa anche sui siti di Fondazione SardiniaAladinpensiero, Tramas de amistadeSardegna Soprattutto, Sportello FormaparisTottusinpari e sui blog di Enrico Lobina, Vito Biolchini e Francesca Madrigali.

Lascio alla valutazione di tutti se l’autore, nello scrivere l’articolo, si sia fortificato con l’uso ricreativo del vegetale in questione: scherzo, nel segno con cui l’articolo è stato scritto e con cui l’ho ricevuto.

Canneto BandinuL’isola delle canne

di Bachisio Bandinu

È davvero incredibile l’assurdo e riprovevole atteggiamento dei sardi contro la meravigliosa coltivazione a canne che darebbe musica, poesia e benessere a popolazioni povere e depresse. Un progetto di civiltà da salutare e propiziare come una grande festa. Si dimentica che la canna è il primo strumento musicale della nostra isola, che ha allietato l’arcadia del glorioso periodo nuragico: dallo zufolo improvvisato del giovine pastore innamorato alla perfezione musicale delle launeddas. Perché questi sardi, imbarbariti dalle briciole di un misero consumismo e dal nerofumo minerario e petrolchimico, sono resi ciechi e non sanno cogliere l’apertura alla rinnovata musica dei tempi felici? Il degrado estetico e culturale tocca il fondo. Vorrei elevare un canto salvifico: immaginate infiniti campi di canne che si elevano al cielo vibrando una musica soave, risvegliando le terre opache e depresse del Sulcis in una placida estensione sino ad Assemini e magari costeggiare gli stagni e lambire le marine di Cagliari. Campi estesi a perdita d’occhi e d’orecchi, dove il vento con innumerevoli dita schiuderà le nostre anime novelle, e alcune canne hanno un suono e altre un altro suono in mirabile concerto. Non più canne al vento di spogli e radi canneti deleddiani, bensì chilometri quadrati, ettari musicanti che fanno bosco, animato da canti d’uccelli. Allora noi ci inoltriamo felici alla ricerca del tumbu potente, della mancosa ineguagliabile e della mancosedda  brillante, così camminiamo sulla terra leggeri, satiri cantanti, devoti di Dioniso. E tando nos la sonamus e nos la cantamus, ca sos ballos sunt sos nostros. Il poeta ci dirà verso quali segreti d’amor ci chiami il canneto, dove la passione ha strepito di danza. Finalmente possiamo cantare: Viva la canna! Simbolo poetico di una sessualità traboccante. E non la canna depravata del droghino, bensì la gioiosa conquista della libertà sessuale. Canne che si snodano da sant’Igia, restituita alla prostituzione sacra, sino alla Plaia e lungo viale Trieste giungere a Piazza del Carmine. Era ora che noi sardi, sempre fottuti dalla storia, possiamo finalmente fottere, e così passare dal principio di realtà d’astinenza e oppressione, al principio di piacere inebriante e appagante. Fit ora! E non è secondario neppure il sentimento d’orgoglio nei riguardi degli abitanti de su capu ‘e susu, che hanno scelto il cardo come dispositivo della rinascita. Ma volete mettere a confronto la canna con il cardo? Dieci a zero. In verità son stati sempre spinosi i torresini, dal Logudoro all’irsuta Barbagia, non educati dalla musica delle launeddas, ancora chiusi nei canti rauchi del tenore. La canna è meridionale, nella pienezza mediterranea, ben superiore alla civiltà del cardo. Per rimarcare la differenza di coltura e di cultura possiamo creare una striscia che va da Tortolì al Sinis, coltivata a eucaliptus, un’estesa lingua di mesania. Ma per non creare una divisione tra Nord e Sud, vorrei unirli entrambi in un elogio comune per la brillante e luciferina invenzione di una nuova rinascita della Sardegna, pur nella diversa economia artistica della canna e del cardo.  Non ci sarà più bisogno di sprecare soldi in pubblicità. Lo slogan è foriero di sicura garanzia: «Sardegna – l’isola della canna». Le seducenti valenze musicali ed erotiche affascineranno i turisti. Ma … non è che ci fottono ancora?

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