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Gli scarti della guerra alla droga

Il lungo articolo che segue entra di diritto nella collezione Strange Days: c’è dentro un uso spregiudicato degli informatori da parte della polizia, la costruzione forzata di un esercito di spie adolescenti o giovanissime per denunciare i coetanei che fanno uso di droga, battaglie legali combattute prima sui media che nelle aule dei tribunali e la spinta a fare arresti costi quel che costi per finanziarsi col bottino, cioè coi sequestri. E non avviene in un futuro orwelliano, ma oggi negli Stati Uniti.

L’articolo, che trovo molto bello, è stato pubblicato qui, sul New Yorker. La traduzione è mia.

Coloro che si gettan via

di Sarah Stillman

rifiuti drogaNella serata del 7 maggio 2008 una ragazza di ventitré anni, Rachel Hoffman, salì sulla sua Volvo metallizzata, mise come sottofondo un po’ di musica rilassante e si diresse a nord verso un parco pubblico di Tallahassee, in Florida. Appena laureatasi alla Università Statale della Florida, si era vestita in modo da potersi confondere nella folla: jeans, una maglietta verde e bianca, sandali neri della Reef. Sul sedile del passeggero aveva una borsa con tredicimila dollari, in banconote segnate.

Prima di immettersi sulla North Meridian Road coi suoi chioschetti di pesche della Georgia e venditori di miele di Tupelo mandò un sms al suo ragazzo. «Mi hanno appena attaccato i microfoni», scrisse alle 18.34. «Augurami buona fortuna sono sulla strada».

«Buona fortuna bambina!», rispose lui. «Chiamami e fammi sapere che c’è in ballo».

«Siamo alla fine delle danze», scrisse lei in risposta.

Dietro le querce del parco e le lussureggianti lagerstroemie in fiore il sole si avviava al tramonto. Giovani madri spingevano carrozzine lungo i campi da baseball; i ragazzini correvano fra i giochi. Mentre Hoffman parlava sull’iPhone con l’uomo che doveva incontrare, la sua voce era ripresa da un microfono nascosto nella sua borsa. «Sto entrando nella zona del parco coi campi da tennis adesso», disse come per caso.

Forse ciò che la rendeva tranquilla era la consapevolezza che diciannove agenti di polizia controllavano ogni sua mossa, e che un aereo della D.E.A., l’agenzia antidroga americana, sorvolava la zona. In ogni caso Rachel Hoffman, una ragazza coi capelli rossi, alta e con gli occhi perennemente sgranati, aveva un carattere naturalmente fiducioso e disinvolto. Non si trattava di un agente della narcotici addestrato. Sulla sua pagina Facebook la si può vedere ballare ai concerti con un grande sorriso un po’ ebete, e trovare il falso profilo che aveva pubblicato per il suo gatto («Musica favorita: Cat Stevens, Straycat Blues, Pussycat Dolls») (sono tutti cantanti e complessi con la parola gatto nel nome, NdRufus).

Poche settimane prima degli agenti di polizia si erano presentati nel suo appartamento, dopo che qualcuno si era lamentato dell’odore di marijuana e avanzato il sospetto che vendesse droga. Quando le avevano chiesto se avesse all’interno delle sostanze proibite, Hoffman aveva risposto di sì e acconsentito alla perquisizione. I poliziotti sequestrarono circa un etto e mezzo di erba e diverse pillole di ecstasy e Valium, infilati sotto i cuscini del divano. Hoffman avrebbe potuto dover affrontare accuse di natura criminale, quali “detenzione di cannabis ai fini di vendita” e “gestione di un luogo finalizzato al commercio di droga”, con un conseguente serio periodo di detenzione. Il responsabile dell’operazione, un biondino della Buoncostume di nome Ryan Pender, le disse che avrebbe potuto tirarsi fuori dai guai se avesse dato un “sostanzioso aiuto” alla squadra antidroga cittadina. Rachel credette che le accuse contro di lei avrebbero potuto essere attenuate, o anche cancellate.

Le preoccupazioni legali di Hoffman erano peggiorate dal fatto che questo non era il suo primo reato per droga. Un anno prima, quando era un senior all’Università, la polizia l’aveva fermata per eccesso di velocità ed aveva trovato circa 30 grammi di marijuana nella sua auto. Fu obbligata a seguire un programma specifico, che comportava test antidroga periodici. Una volta, per non essersi presentata al controllo, aveva passato tre giorni in cella.

Hoffman scelse di cooperare. Non aveva mai usato un’arma o manovrato quantità significative di droga pesante. Ora, a beneficio del Dipartimento di Polizia di Tallahassee, stava per condurre una operazione sotto copertura molto seria, che comportava incontrare da sola nella sua auto due pregiudicati per acquistare 70 grammi di cocaina, 1500 pillole di ecstasy e una pistola semiautomatica.

L’operazione non andò come previsto. Dopo un’ora la polizia perse le tracce sue e della sua macchina. A notte fonda si presentarono a casa del suo ragazzo e gli chiesero se Hoffman fosse all’interno. Volevano sapere se poteva essere scappata coi soldi. Il fidanzato non sapeva dove fosse.

Si ricorda che un poliziotto disse: «Era con noi. Poi è successo un casino pazzesco».

Due giorni dopo la scomparsa di Hoffman, il suo corpo fu trovato in un burrone coperto di un intrico di rovi vicino a Perry, una cittadina della Florida a circa cinquanta miglia a sudest di Tallahassee. Avvolta in un sudario improvvisato composto dalla sua maglietta dei Grateful Dead e da un sacco a pelo arancione, a Hoffman avevano sparato cinque volte al petto e al capo con la pistola che la polizia l’aveva mandata a comprare.

Alla data della sua morte Rachel Hoffman aveva lavorato per il dipartimento di polizia per quasi tre settimane. In termini burocratici era l’Informatore Confidenziale 1129, o IC Hoffman. Nel gergo legale, era un “cooperatore”, una delle migliaia di persone che, ogni anno, aiutano la polizia a costruire accuse contro altri soggetti, in cambio della promessa di clemenza nella aule di tribunale.

Gli informatori  sono i fantaccini della guerra condotta dal governo contro la droga. Secondo alcune stime sono coinvolti in fino all’ottanta per cento di tutti i casi legati alla droga negli Stati Uniti, spesso in ruoli attivi come quello di Hoffman. Per i dipartimenti di polizia che fronteggiano guai di bilancio gli informatori non addestrati forniscono un modo economico per esternalizzare il lavoro degli agenti sotto copertura. «Il sistema rende facile ed economico l’uso degli informatori, rispetto ad altri approcci meno rischiosi ma più complessi da gestire», dice Alexandra Natapoff, una docente della Loyola Law School a Los Angeles e una dei maggiori esperti sugli informatori. «Ci sono meno procedure prestabilite e meno controlli istituzionali sul loro utilizzo». Spesso mettere in campo un informatore non comporta scartoffie e nessun processo di supervisione istituzionalizzato, per non parlare di avvocati, giudici o esami pubblici, il loro uso essendo naturalmente coperto dal riserbo.

«Possono portarci in posti dove noi non possiamo andare», dice Brian Sallee, un agente di polizia che è presidente della B.B.S. Narcotics Enforcement Training and Consulting, una società che addestra poliziotti di tutto il paese nelle procedure di soppressione del traffico di stupefacenti. «Senza di loro le operazioni antidroga praticamente cesserebbero di esistere».

Ogni giorno dei trasgressori sono spediti a compiere operazioni di polizia ad alto rischio con scarse coperture legali. Alcuni sono minorenni, talvolta anche di quattordici o quindici anni. Alcuni agiscono nelle nebbie della dipendenza; altri, come Hoffman, sono inseriti in programmi obbligatori di disintossicazione che vietano il contatto con sostanze  illegali di qualunque genere. Molti hanno ricevuto false assicurazioni dalla polizia, e sono utilizzati senza riguardo per la loro sicurezza e trattati come pedine liberamente spendibili del sistema poliziesco-giudiziario.

Il reclutamento di informatori minorenni spesso comporta rischi che sono sproporzionati rispetto alle pene che fronteggiano. E il costo della cooperazione può essere alto. Un caso che si è trascinato per anni nei tribunali ha riguardato LeBron Gaither, uno studente sedicenne di una scuola superiore di Lebanon nel Kentucky. Un pomeriggio Gaither che, secondo la sua famiglia, era di solito pacato, ebbe un accesso di rabbia durante il quale diede un pugno al vicepreside. Fu arrestato per aggressione minorile. Un agente della Polizia Statale del Kentucky lo contattò e gli disse che sarebbe potuto andare in prigione o poteva accettare di diventare un informatore sui traffici di droga locali.

«Nostra madre aveva un problema di dipendenza», ricorda il fratello maggiore Shawn, che sarebbe poi diventato un agente di polizia penitenziaria. «Credo che LeBron volesse così tanto che mamma la smettesse con la droga che quando gli fecero la proposta l’abbia vista come un’opportunità di perseguire quelli che gliela vendevano». Gaither firmò le carte e ben presto si trovò a tendere trappole sotto copertura in due contee.

Dopo una di queste operazioni Gaither, nel frattempo diventato diciottenne, fu chiamato a testimoniare davanti a un gran giurì contro Jason Noel, un trafficante locale che aveva incastrato. Il giorno successivo la polizia lo spedì con microfono e denaro a comprare ancora altri stupefacenti dallo stesso Noel – una decisione che in seguito il procuratore statale definì «l’idea più sconsiderata, stupida e priva di senso» che avesse visto in diciannove anni di pratica legale. L’appuntamento doveva avere luogo nel parcheggio di un market; a Gaither fu ordinato di dire: «Ha un bell’aspetto», una volta che avesse avuto in mano la droga. Se qualcosa fosse andato storto avrebbe dovuto dire: «Vorrei che mio fratello fosse qui» e gli agenti si sarebbero affrettati a soccorrerlo.

Poco dopo l’inizio dell’operazione i poliziotti persero contatto con Gaither quando Noel, che aveva saputo della testimonianza del ragazzo da un giurato, lo portò via in auto. Gaither fu torturato, picchiato con una mazza, gli spararono con una pistola e un fucile a canne mozze, gli passarono sopra con l’auto e lo trascinarono poi per i boschi attaccato a una catena.

Quando la famiglia seppe cos’era accaduto, fece causa. Nel 2009, dopo anni di lungaggini burocratiche, fu stabilito a loro favore un risarcimento di 180.000 dollari per omicidio colposo, ma la sentenza fu revocata. Lo scorso maggio la corte statale di appello ha stabilito che, sebbene l’uso di Gaither come informatore fosse «tragicamente viziato», la polizia non poteva essere ritenuta responsabile perché «l’esecuzione dell’operazione sotto copertura era lasciata al giudizio e al discernimento degli investigatori». La famiglia spera di portare il caso davanti alla corte suprema statale.

Quando l’ho chiamato per chiedergli della causa l’avvocato di famiglia, Daniel Taylor III ha esclamato: «Aspettavo che mi chiamasse qualcuno!». Durante la sua carriera, Taylor ha seguito 146 casi che riguardavano omicidi, ma ritiene quello di Gaither, per il quale ha lavorato gratis, come «quello più importante». E aggiunge: «Mi chiedevo quando diavolo il resto del mondo si sarebbe dato una svegliata su tutto questo».

Ho sentito altre versioni della frase di Taylor dozzine di volte nel corso delle settanta interviste che ho fatto a persone le cui vite sono state influenzate dal crescente utilizzo dell’America dei giovani informatori – agenti della Narcotici, procuratori, avvocati difensori e gli amici e parenti di IC assassinati, così come degli ex-informatori. A volte preoccupazioni su questa pratica sono state avanzate dagli stessi poliziotti, che temono che la pressione a incrementare operazioni antidroga che generino redditività economica ponga sfide che i loro dipartimenti non possono affrontare (secondo Shawn Gaither il poliziotto responsabile dell’arruolamento di LeBron ha detto ai parenti che questo lo avrebbe perseguitato per il resto della sua vita; il poliziotto non ha voluto rilasciare commenti). Più spesso la domanda sul perché l’uso degli informatori rimanga così poco regolamentato viene da genitori che per questo motivo hanno perso un figlio. Fra loro i genitori di Rachel Hoffman sono diventati una specie di eroi popolari. Dopo l’assassinio di Rachel, più di quattro anni fa, Irv Hoffman, uno psicologo, e Margie Weiss, un’infermiera e fisioterapista, si coalizzarono per riformare l’utilizzo di giovani dilettanti  nella guerra alla droga – prima in Florida e ora, se le cose andranno come loro e altri genitori desiderano, in tutto il paese.

A dodici anni Rachel era stata una ballerina, una Coccinella, aveva imparato a cavalcare e aveva partecipato alla selezione per le Piccole Sirene di Weeki Wachee Springs [un parco aquatico della Florida, NdRufus] ; a diciotto suonava il piano e il flauto, aveva fatto paracadutismo e percorso a piedi il Grand Canyon. Ai ventitré aveva preso una laurea di primo livello in psicologia, fatto un tirocinio in un istituto di salute mentale e viaggiato in diversi paesi. Le piaceva cucinare – si metteva a preparare agli amici complessi menù con svariate portate, e aveva fornito a una collega malata la zuppa di polpette di matzo [un piatto tradizionale ebraico, NdRufus]. Era incline a concepire progetti grandiosi: inizialmente pensava di occuparsi di counselling, ma poi aveva deciso di provare a entrare in una scuola di cucina. Voleva inventare una nuova forma di terapia, aveva detto al padre; forse i ragazzi problematici che odiavano parlare al terapista sdraiati su un divano si sarebbero aperti alla confidenza mentre imparavano a mettere in forno un dolce o a fare gli spaghetti alla carbonara.

«Rachel è stata concepita su un veliero», mi disse una notte Margie Weiss mentre sfogliava le foto della sua luna di miele tropicale con Irv Hoffman a bordo di una barca a vela nei Caraibi. Nelle foto la coppia appare abbronzata e felice, il braccio sottile di Margie attorno alle ampie spalle del marito. Entro un anno e mezzo dalla nascita di Rachel si erano separati. Margie era una gran lavoratrice, ma anche un po’ una ragazza con la testa nelle nuvole, che portava lunghe gonne fluenti e profumava il salotto con erbe dal significato spirituale. Irv, figlio di sopravvissuti all’Olocausto di origine ceco-ungherese, era più lineare, e teneva molto alla stabilità e alla solidità.

Margie teme che crescere fra le due famiglie abbia comportato un prezzo da pagare per Rachel. Alla fine della scuola superiore venne eletta “party animal of the senior class”  [più o meno: miss “nata per i festini” fra i ragazzi dell’ultimo anno, NdRufus], un titolo che generò un po’ di ansia familiare in vista della sua prossima partenza per l’università. «Se mai ti sentissi solo o annoiato, o semplicemente ti mancasse la mia meravigliosa persona (ahah), bene il telefono è a portata di mano e così anch’io», scrisse a Irv in una lettera di cinque pagine che gli lasciò sul piano di cucina giusto prima di partire per il college. Lo rassicurò che sarebbe stata «proprio bene».

Nonostante i suoi problemi legali, nel periodo precedente la morte Hoffman ottenne di essere accettata a un master in psicoterapia, presentando una tesina che raccontava come i suoi nonni, «che videro la distruzione della propria famiglia e ne furono duramente segnati emotivamente», le avessero insegnato «l’importanza della famiglia, del lavorare sodo e della sicurezza economica». Continuava a fumare erba e ne vendeva in piccole quantità agli amici.

La polizia poté usare la riserva di droga di Hoffman come elemento di pressione. Il giorno dopo la perquisizione del suo appartamento Hoffman si recò alla centrale di polizia per sottoscrivere  il suo contratto da IC. In preda al panico e ansiosa di cooperare tentò dapprima di incastrare uno studente della Università della Florida, un piccolo spacciatore del campus. Ma il senso di colpa ebbe la meglio, e subito dopo lo chiamò per confessare cosa avesse fatto. Quello non solo la perdonò ma accettò di aiutarla con la polizia. Insieme avrebbero trovato qualcuno da far arrestare. In cambio Hoffman promise di pagare una sua bolletta scaduta.

Secondo quanto dichiarato confidenzialmente da un amico di Hoffman, la polizia mise subito in chiaro che banali arresti per possesso di droghe leggere non sarebbero stati sufficienti per far deporre le accuse contro di lei. Invece secondo l’amico i poliziotti si aspettavano grosse quantità di «eroina, cocaina, crack, ecstasy, armi». Lo studente universitario la indirizzò a un giovane che aveva visto spacciare a un autolavaggio vicino al campus – l’uomo, di cui sapeva solo che si chiamava Dre, poteva avere accesso a ecstasy o cocaina, e forse altro. Venne fuori che Hoffman aveva giusto portato la sua Volvo da Dre nello stesso lavaggio, e lui aveva fatto una battuta sul pungente odore di marijuana della macchina. Ben presto Rachel venne equipaggiata con un microfono nascosto e condotta da Dre tramite il quale, usando la presentazione di un amico, chiese al cognato di Dre, Deneilo Bradshaw, di poter comprare una discreta quantità di cocaina, mille e cinquecento pasticche di ecstasy e, per usare le sue parole, una pistola «piccola e carina». Era un grosso ordine, sotto ogni punto di vista. Spiegò che gli stupefacenti le servivano per amici che sarebbero arrivati da Miami. E la pistola? «Sono una ragazzina ebrea», disse a Bradshaw mentre i poliziotti ascoltavano a distanza. «Ho bisogno di sicurezza».

Ai primi di maggio l’accordo era stato raggiunto. Si sarebbe dovuta presentare con tredicimila dollari e avrebbero fatto lo scambio – a casa dei genitori di Bradshaw, in un quartiere tranquillo immerso nel verde alla periferia di Tallahassee. Dietro le quinte la polizia preparò un Piano Operativo e di Perquisizione, che prevedeva più di una dozzina di agenti sia locali che federali.

Nel pomeriggio dell’operazione, Hoffman andò in auto alla Centrale di Polizia. L’agente Pender la equipaggiò con un microfono di sorveglianza e un registratore nella borsa, insieme con le mazzette di denaro per l’acquisto. Dre, che venne in seguito identificato come Andrea Green, un venticinquenne della zona, aveva cambiato il luogo dell’appuntamento a un giardino pubblico nei pressi chiamato Forestmeadows – sconosciuto a Hoffman. Il suo ragazzo le mandò un sms augurale: «In un certo senso mi piaci perciò sta attenta!», scherzò. Lei si diresse al parco.

Più o meno dopo un quarto d’ora sulla strada, Hoffman era nei pressi dell’ingresso di Forestmeadows, ma svoltò troppo presto, nel parco sbagliato. Al telefono Pender la reindirizzò al viale poco più a nord.

A questo punto Pender ne perse le tracce. Altri poliziotti dichiararono in seguito che tutti credevano che lui  – o almeno qualcun altro – avesse «sott’occhio» Hoffman. Lei invece si diresse verso un vivaio un miglio e mezzo a settentrione, evidentemente credendo che la polizia la stesse ancora controllando. Nello spazio di pochi minuti il suo equipaggiamento audio smise di funzionare («Uh, l’ho persa alla radio», disse Pender ai suoi colleghi alle 18.46). Non rispondeva al cellulare. Secondo Pender, Hoffman lo chiamò pochi minuti dopo, dicendo: «Li ho seguiti via dal vivaio. Siamo sulla Gardner. A quanto pare lo scambio si farà qui. È una strada senza uscita». Pender in seguito dirà di averle detto: «Gira! Gira! Non li seguire!». Poi la comunicazione saltò. «Non ho avuto risposte da lei», disse in seguito Pender agli investigatori, «che voleva dire, no, che o aveva chiuso o che era caduta la linea».

I poliziotti iniziarono disperate ricerche nell’area, nel tentativo di trovare Gardner Road. L’aereo della D.E.A. girava inutilmente al di sopra, il suo equipaggio incapace di vedere a causa del denso fogliame degli alberi. Quando finalmente una squadra arrivò allo stretto incrocio Hoffman e la sua auto non erano più lì. Invece trovarono un bossolo calibro .25, due proiettili non esplosi, sei mozziconi di sigaretta, e un singolo sandalo infradito nero.

L’appuntamento non era mai stato, in realtà, una potenziale occasione per spacciare droga. Green stava a quanto pare preparando una truffa: dare a Hoffman una borsa piena di aspirine al posto dell’ecstasy, mi ha detto un suo parente, e filarsela col denaro. Quando gli investigatori parlarono con la moglie di Green il giorno successivo, lei ammise che il marito l’aveva chiamata la notte dell’operazione fallita, e descrisse ciò che era successo: «Hanno trovato  il microfono nella sua borsa e le hanno sparato».

A metà degli anni ottanta il Congresso emanò  linee guida federali per i giudici che imponevano obbligatoriamente pene severe per i reati legati alla droga, anche se minori. L’impatto  di queste e altre misure simili fu enorme. Nel corso di quel decennio la popolazione carceraria degli Stati Uniti è raddoppiata. In Florida il tasso di arresti per reati di droga è cresciuto di venti volte – con alcune pene comminate per vendite di marijuana che hanno sorpassato quelle per omicidio. Il nuovo approccio codificava una via di scampo per gli accusati da tempo conosciuta: fornire «sostanziale collaborazione» con le autorità in cambio della possibilità di un rilascio anticipato o una remissione delle accuse. L’uso di informatori crebbe improvvisamente. Presto, dicono gli esperti, la tendenza si diffuse attraverso i vari enti di polizia statali e locali attraverso l’America. Rachel Hoffman era, sotto questo punto di vista, una tipica recluta nella guerra alla droga basata sui numeri condotta dal suo paese.

Ma Hoffman col suo background borghese non era per alcuni aspetti un tipico IC. In generale si tratta di giovani che provengono da quartieri a basso reddito – spesso neri o latini – che vengono messi sotto pressione per fare gli informatori. È pertanto nei loro vicinati, allo stesso modo, che si è verificata un’ondata di reazione alla pratica. Per prima cosa il sistema basato sulle soffiate si è rivelato notoriamente inaffidabile, alimentando condanne ingiuste. Nel 2000 furono arrestati a Herne, nel Texas, più di venti afroamericani con accuse legate al traffico di cocaina, sulla base delle rivelazioni di un informatore che cercava di sottrarsi a una accusa di effrazione; l’episodio, e un numero di altri simili, ha originato richieste di una forma di legislazione nazionale che regolamenti l’uso degli informatori.

In molti quartieri urbani con una forte presenza di polizia l’ondata anti-IC ha preso forme più virulente: «Ferma le spiate» o «I pentiti vengono feriti» sono slogan abituali (la seconda frase era intraducibile letteralmente: «Snitches get stitches», con un gioco di parole fra snitch, spia, e stitch, punto per chiudere le ferite, NdRufus). La polizia ha reagito con la contro-propaganda, destinata sia a sostenere i propri IC che i normali testimoni (a Baltimora lo slogan ufficiale è: «Continua a parlare»). Queste campagne hanno sollevato questioni spinose. Se le poste in gioco sono così evidentemente alte, e così difficili da moderare – se, come dice il rapper Master P, «le donne dicono cazzate e le spie vengono ammazzate» – si deve incoraggiare la pratica in segmenti fragili della popolazione, in assenza di chiare regole su come gli informatori devono essere protetti? In particolare, ci dovrebbero essere dei prerequisiti che riguardino l’utilizzo di coloro che sono giovani e inesperti in operazioni ad alto rischio?

Un giorno della scorsa primavera Irv Hoffman mi parlò del concetto di parens patriae, e l’idea che lo stato abbia il dovere, quando tratta con coloro che necessitano di una protezione speciale – i minori, i malati mentali, forse anche coloro che hanno una dipendenza – di agire come farebbe un genitore. «Sai la storia della ragazza di Detroti?», mi chiese.

Si riferiva ad una informatrice diciannovenne che era stata uccisa diversi mesi prima. In effetti avevo appena fatto visita alla madre nella sua casa squadrata di mattoni oltre Seven Mile Road di Detroit. Insieme avevamo assistito all’udienza preliminare contro James A. Matthews, un tipo tarchiato con una lunga coda di cavallo bionda. Matthews, con indosso la divisa arancione, era in tribunale per essere accusato di avere «mutilato, sfigurato, rimosso, o fatto scomparire» il cadavere della ragazza.

Una notte dell’autunno 2011, Shelly Hilliard, un’adolescente afroamericana di Detroit – la famiglia la chiamava Tesoro – si fermò da sua madre per un piatto di maccheroni al formaggio. Hilliard, che era transessuale (nato maschio, col nome ufficiale di Henry Hilliard, Jr), lasciò la casa e non fece ritorno quella notte o la successiva. Presto una delle sue sorelle più grandi, Mechelle, si accorse di un inquietante fenomeno su Facebook. «Tutti hanno iniziato a postare “Riposa in pace, Shelly”, e “Lei è con Dio adesso”, e questo e quello», mi ha raccontato un pomeriggio di pochi giorni fa Mechelle, mentre sedeva con sua madre Lyniece Nelson al tavolo rosso acceso della cucina. «E noi dicevamo: “Calma, non siamo stati nemmeno chiamati al telefono”».

Nelson, una devota cristiana che talvolta scrive versetti della Bibbia sugli stipiti col gesso blu, sospirava. «Immagino che la strada sappia», diceva.

Shelly era fissata col ballo («Amava Beyoncé!»), e aveva occhi nocciola e lunghi capelli stirati per renderli lisci che parevano essere di un colore diverso ogni volta che tornava a casa. Passava la maggior parte del suo tempo a cantare, a curare i capelli o il trucco delle amiche e, come molti adolescenti, documentava la sua vita con continui scatti col cellulare.

Il 23 ottobre più o meno alle 4.30 del mattino un torso umano, più tardi identificato come quello di Shelly, fu trovato in fiamme sotto un vecchio materasso su una strada di servizio della autostrada I-94. In marzo venne ritrovato il resto del corpo, eccezion fatta per le mani. A questo punto la famiglia aveva da tempo iniziato a immaginare cos’era successo.

Dapprima, dato che la vittima era un transessuale, i poliziotti locali pensarono a un  crimine legato all’omofobia. Ma diverse settimane dopo venne alla luce il fatto che l’omicidio di Shelley era legato al lavoro svolto come informatrice della polizia. Pochi giorni prima che venisse uccisa, dei poliziotti avevano individuato Shelly e un’amica mentre si facevano una canna al balcone di un albergo della catena Motel6 alla periferia di Detroit. Alla perquisizione trovarono quattordici grammi di marijuana nascosta nella cassetta del water in una busta per alimentari. Uno dei poliziotti intimidì Shelly con la minaccia del carcere – una prospettiva particolarmente terrorizzante per una ragazza transessuale, che sarebbe stata rinchiusa in una struttura maschile – e poi le offrì una via d’uscita: poteva incastrare il suo fornitore, Qasim Raqib, e uscirsene libera il giorno stesso. Lei accettò.

Raqib fu arrestato dopo che Shelley organizzò il colpo. Alcune ore dopo fu rilasciato. A quel punto la rintracciò e, con l’aiuto di James Matthews, la strangolò, mutilò, bruciò e smembrò il cadavere (entrambi si sono in seguito dichiarati colpevoli di omicidio; al processo un testimone ha dichiarato che la polizia aveva rivelato l’identità di Shelly).

«Ho perso la mia bambina per un’oncia di erba», mi ha detto Nelson al suo tavolo da cucina. «È come se l’avessero semplicemente gettata via».

Quando ho chiesto del caso al tenente Joseph Quisenberry, il comandante della locale squadra antidroga dello sceriffo, mi è stato risposto: «Non ho linee guida formali che prevedano ogni situazione». E ha proseguito: «Mi è stato detto che si trattava di qualcuno che viveva in un contesto pericoloso». Si è rifiutato di discutere i particolari del caso.

«Più di ogni altra cosa», dice Nelson del trattamento riservato dalla polizia a sua figlia, «vorrei sapere: perché voi tutti non l’avete protetta?».

Come Lyniece Nelson, i genitori di Rachel Hoffman hanno avuto il dubbio che le autorità non gli stessero rivelando tutti i retroscena della scomparsa della loro figlia. Più o meno alle due e mezza della notte della mancata operazione, Margie ricevette una chiamata della polizia, nella sua abitazione nel sobborgo di Safety Harbor. «Sua figlia è scomparsa», le venne detto. Poche miglia più in là, a Palm Harbor, anche Irv ricevette una telefonata, con la quale gli si chiedeva se avesse sentito Rachel o sapesse dove fosse. Il dipartimento li contattò ancora nella mattinata, per consigliargli con insistenza di andare a Tallahassee; Rachel non era ancora stata localizzata, dissero, senza menzionare la pasticciata operazione antidroga o il reclutamento di Rachel come IC. Entro un’ora Margie e Irv erano entrambi per strada verso nord sulla US 19 in due separate auto. Il loro rabbino, Gary Klein, li seguiva a poca distanza.

Quando i genitori di Rachel giunsero alla centrale del Dipartimento di Polizia di Tallahassee, in loro si accesero immediatamente dei sospetti. «Mi ricordo di avere notato che non ci portavano alla squadra per le persone scomparse», riferisce Margie. «Era invece qualcosa tipo: “Accomodatevi qui alla Narcotici”».

Lì il Capo della Polizia Dennis Jones, un uomo di mezza età con folti baffi, gli ripeté ciò che già sapevano: «Rachel è scomparsa» (un avvocato di parte civile li aveva già avvisati che c’era una possibilità che potesse non essere ritrovata viva). Jones assicurò che una intensa ricerca era in corso, e gli ordinò di andare a casa della figlia e di aspettare ulteriori aggiornamenti.

Margie e Irv entrarono a casa di Rachel (che lei spesso non chiudeva a chiave) e si sedettero in mezzo a candele aromatiche e posters di John Lennon e Johnny Depp. Solo in quel momento, accendendo la televisione per sentire le novità, vennero a sapere che Rachel aveva «fornito assistenza a un’operazione di polizia» il giorno prima, e che gli agenti sospettavano «un delitto» dietro la sua scomparsa. La polizia era alla ricerca di due sospetti, Andrea Green e Deneilo Bradshaw, secondo quanto diceva una nota stampa del dipartimento.

I telegiornali riferivano che la Volvo di Rachel era stata trovata a Perry. L’auto era vuota, parcheggiata sotto un albero vicino a una fonderia. Il suo telefono venne ritrovato al bordo della strada, il che diede a Irv un «brutto presentimento». «Teneva a quell’iPhone», mi ha raccontato. «Glielo avevo regalato io, e avrebbero dovuto strapparglielo a forza per prenderglielo»

Di mattina presto del giorno seguente Margie e suo marito, Mike Weiss (che l’aveva raggiunta), fecero un breve tratto lungo la strada per procurare caffè e ciambelle. Margie era nel parcheggio di Publix Food & Pharmacy quando ricevette una telefonata di Irv. «Devi tornare all’appartamento», le disse. Lei è corsa dentro il negozio e si è messa a cercare Mike fra le corsie, gridando ai cassieri e a clienti mai visti: «Dov’è mio marito? Mia figlia è stata appena ammazzata». A casa il rabbino Klein confermò i suoi timori: il corpo di Rachel era stato trovato. Giaceva in un fossato asciutto vicino a Cabbage Grove Road, a Perry.

Più tardi in quella stessa mattina i giornalisti calarono in una radura nel bosco in cui rappresentanti del Dipartimento di Polizia di Tallahassee tennero una conferenza stampa, non lontano da dove il corpo di Rachel giaceva (i sospetti erano stati arrestati e, più o meno alle 6.30 di mattina, avevano condotto la polizia sul luogo). «Noi avevamo messo in opera protocolli prestabiliti per la sua protezione», dichiarò l’agente David McCranie alla folla. «A un qualche punto durante l’operazione ha scelto di non seguire le istruzioni. Ha incontrato Green e Bradshaw da sola. L’incontro ha avuto come risultato finale il suo omicidio»

I genitori di Rachel seguirono la conferenza stampa alla TV del suo appartamento. L’episodio segnò, per Irv Hoffman, quello che talvolta chiama «la diffamazione» – il periodo successivo alla morte di Rachel durante il quale la loro figlia fu dipinta, nelle dichiarazioni della polizia e sulle prime pagine dei giornali come, per usare le sue parole, «questa specie di orribile mostro spacciatore».

Iniziarono ad arrivare all’appartamento gli amici di Rachel e anche loro furono colpiti dai resoconti dell’omicidio quasi quanto dalla morte stessa. «È stato doloroso per molti di noi», ricorda una delle amiche di infanzia di Hoffman. «I primi resoconti miravano a descrivere Rachel come una delinquente drogata che spacciava». Due mesi dopo, in un pezzo in TV sulla morte di Hoffman, il corrispondente della ABC News intervistò il Capo della polizia Jones. «Io la definisco una criminale», dichiarò Jones. «Il mio compito come capo della polizia è questo – scoprire questi criminali all’interno della nostra comunità e toglierli dalle strade, fare gli arresti opportuni». Ross fece una domanda sulla chiamata in causa del dipartimento. Jones rispose: «Se ci sentiamo responsabili? Noi siamo responsabili della sicurezza di questa comunità».

Su consiglio di un amico comune Irv Hoffman fissò un appuntamento con Michael Schiavo, un vicino che aveva avuto molta esperienza con l’attenzione ostile dei media. Si trattava del marito della defunta Terry Schiavo, una donna con danni cerebrali che aveva passato quindici anni in stato vegetativo e i cui genitori avevano condotto una lunga e molto pubblicizzata battaglia legale quando Michael aveva deciso di interrompere il supporto vitale di Terry. Michael era diventato il bersaglio di un continuo flusso di attacchi mediatici, e perfino di minacce di morte.

All’incontro, che si svolse nel salotto dell’amico, Hoffman chiese a Schiavo che lezioni avesse appreso dal suo rapporto con l’informazione. «Devi renderti conto che se parli apri il vaso di Pandora», è la risposta che riferisce Hoffman. «Ti ritroverai ben presto fuori della tua zona di conforto, e ci saranno persone che ti sosterranno e ci saranno persone che ti attaccheranno. E tu devi decidere : “Sono pronto a attraversare quella soglia?”». Hoffman sapeva di esserlo. Lui e sua moglie assunsero un avvocato e definirono un piano.

Dall’altra parte del paese, a Vancouver nello stato di Washington, un’altra coppia di genitori, Shelly e Mitchell McLean, ha provato a affrontare il sistema degli IC. Shelly dirige un market della catena Fred Meyer appena oltre il confine con l’Oregon; Mitchell lavora nell’edilizia. La mattina che ci siamo incontrati, in un ristorante di Longview, Shelly indossava un grosso maglione grigio, rossetto rosa e un ombretto dorato, Mitchell, un omone rude e cordiale, ci raggiunse poco dopo dal suo cantiere «là fuori nel nulla» con addosso una giacca di cuoio macchiata di fango.

La coppia scaricò dall’auto ceste di vimini e lucidi contenitori di plastica e li pose sul tavolo. Avevano portato tutte quelle reliquie – album di foto, trofei di golf, pagelle stropicciate, macchinine, dentini da latte, mazze da baseball e dei racconti scritti in corsivo con titoli come Le avventure del Selvaggio West – per permettermi di avere un’idea del loro figlio, Jeremy. Buffonesco e affabile era il tipo che, se sfidato, non avrebbe esitato a mangiare più di venti BigMac di seguito. Ma amava anche andare alla ricerca di anticaglie con la madre, che da bambino lo chiamava Bubbers [un nomignolo che si potrebbe tradurre con “bolliciotto”, NdRufus]. Crescendo Jeremy e la sorellina Jenny vennero iscritti a una scuola cristiana locale, e Mitchell stabilì che non dovessero mai prendere l’autobus: «Questo è quanto siamo stati protettivi». »Io ero l’autobus», ha aggiunto Shelley.

Al liceo Jeremy era un appassionato di sollevamento pesi e lotta libera e dopo il diploma suo padre gli procurò un lavoro nell’edilizia. Gli piaceva portare carichi pesanti, ma a un certo punto si fece male alla schiena e iniziò a prendere de farmaci per i dolori. «E questo è quello che fece partire tutto», sostiene Mitchell; Jeremy cominciò a prendere antidolorifici senza prescrizione. A venticinque anni lottava per capire cosa fare della sua vita – forse entrare in polizia, o nell’esercito – quando, un giorno del 2006, accettò di vendere otto pastiglie di metadone a un amico.

L’amico, venne fuori, aveva un registratore; c’erano accuse di droga a suo carico e stava cercando di venirne fuori lavorando come IC.  Jeremy fronteggiava la prospettiva di finire in prigione – e temeva di far vergognare la sua famiglia, dato che niente poteva rimanere quieto nella loro piccola comunità. Secondo Mitchell McLean un poliziotto di una task force antidroga federale elencò le alternative di Jeremy, dicendo: «Puoi restare qui seduto con noi e fare un accordo. Oppure puoi salire di sopra, chiedere un avvocato, e prepararti a farti inculare in prigione». Jeremy accettò un contratto per «fare acquisti di sostanze controllate da quattro individui», in cambio della qual cosa le sue accuse sarebbero state ridotte, «con la raccomandazione che non passasse tempo in prigione».

Ben presto, usando una telecamera nascosta nel suo berretto da baseball, Jeremy aveva incastrato cinque sospetti spacciatori della zona. Ma, secondo i suoi genitori, gli venne detto che avrebbe dovuto continuare, perché i casi erano stati risolti con accordi di ammissione di colpevolezza piuttosto che con condanne (non c’era alcune specifica del genere nel suo contratto).

Non vedendo alternative Jeremy continuò a condurre, in tutto, più di una dozzina di operazioni per la task force regionale, il che lo pose in una situazione progressivamente più pericolosa. «Nella loro testa, i poliziotti avevano un contratto a tempo indeterminato», disse Mitchell, che al momento non sapeva niente dell’accordo.

La quattordicesima operazione sotto copertura di Jeremy portò all’arresto di un trafficante di eroina, William Vance Reagan, Jr. Dopo un giorno in cella Reagan uscì sui cauzione.

Una settimana dopo Reagan, un omaccione calvo di cinquantun anni con una folta barba grigia sparsa di rosso, telefonò a Shelley: «Dì a tuo figlio che sono fuori di prigione e che si guardi le spalle», lei si ricorda che le disse. Jeremy immediatamente avvisò il suo supervisore  alla polizia, ma l’agente, secondo Mitchell, non parve preoccupato, dicendo: «Non ti tormentare, quel tizio è innocuo» (il supervisore si è rifiutato di discutere questi episodi, sulla base di una causa legale in corso).

Gli amici iniziarono a lanciare avvertimenti. «Vance ti sta dando la caccia», dicevano, «Sta offrendo una bella sommetta a chi ti attira nel bosco per farti fuori». Un amico vide Reagan con una pistola in mano, che affermava: «La userò su Jeremy». Secondo i genitori di Jeremy lui riferì ogni cosa al suo supervisore, e il supervisore rispose: «È solo un sentito dire».

A quel punto Jeremy aveva detto ai suoi genitori delle sue attività sotto copertura e sta provando a rimanere nascosto in casa di sua madre. Appese un asciugamani sulla finestrella a mezzaluna sopra la porta, e si assicurò che nessuno potesse vedere dentro la casa da altri punti elevati. Passò diversi mesi in questo modo, praticamente agli arresti domiciliari. «Cucinavamo la cena insieme di notte, friggendo col wok», mi raccontò sua madre. «Guardavamo film. Gli piaceva It’s alweays sunny in Philadelphia [una sitcom indipendente americana, NDRufus]». E aggiunse: «Ma quando sei costretto ad appendere qualcosa sopra la tua finestra?». Allora, spiegò, è il momento in cui sai di essere nei guai.

Dopo diversi mesi, Mitchell andò alla polizia con un ultimatum: «Se succede qualunque cosa a mio figlio, sarà colpa vostra». Dice che gli fu detto di non preoccuparsi; i tizi che Jeremy aveva incastrato erano «insignificanti», non tipi da omicidio, giusto malavitosi che facevano i corrieri. «Ma qualunque idiota può prendere una pistola e sparare a qualcuno!». Mitchell ricorda di avergli detto. «Non ci vuole Pablo Escobar – può essere un tizio con il QI di un cespo di lattuga».

Il 29 dicembre del 2008 Jeremy lasciò la casa dopo una tempesta di neve per comprare del latte. Non fece ritorno. Reagan aveva pagato un complice per attirare o rapire Jeremy e portarlo in una roulotte nei pressi, dove lui stava aspettando con una pistola calibro .22. Sparò a Jeremy tre volte alla nuca, poi un’altra, a bruciapelo, in faccia.

Al processo Reagan si vantò col giudice di avere fatto un favore al mondo, eliminando una spia. Secondo quanto riportato dai riassunti dei mezzi di informazione, disse alla corte: «Chiunque che fosse venuto in contatto con Jeremy o che lo conoscesse avrebbe sofferto per questo», e dichiarò: «Il bene dei molti pesa più del bene di pochi». È stato condannato all’ergastolo senza possibilità di rilascio.

Mitchell McLean è giunto a considerare la morte di suo figlio come il risultato di un’equazione altrettanto cinica e strumentale. «I poliziotti ottengono i finanziamenti federali sulla base del numero di arresti che fanno – per avere i soldi, hai bisogno dei numeri», mi ha spiegato, facendo riferimento, fra le altre cose, alle leggi sul sequestro dei beni che permettono ai dipartimenti di trattenere una sostanziosa porzione dei liquidi e di altre risorse su cui mettono le mani durante le azioni antidroga. «È così che pagano per i loro furgoni, per i loro procuratori – fanno soldi con la guerra alla droga. Non intaccano la fornitura. Si focalizzano su arresti da piccole città, per piccoli reati». E prosegue: «Io capisco usare gli IC per su avere informazioni sugli intermediari, o per perseguire i pesci grossi. Questa è la ricerca che io, come contribuente, vorrei vedergli fare – casi che hanno un certo significato. Mi ricordo ancora i grossi colpi degli anni ottanta e novanta, quando beccavano i boss dell’eroina».

Ora, sostiene, il livello in cui si mette a rischio la vita di un informatore è drammaticamente più basso, e i piccoli casi per gonfiare le percentuali degli arresti sono all’ordine del giorno. È pesce piccolo che caccia un altro pesce piccolo, come Jeremy e le sue otto pasticche di metadone. Questo ragionamento è alla base della querela che i genitori di Jeremy decisero di presentare lo scorso dicembre. Sostengono che la task force regionale e gli agenti che gestivano il caso di loro figlio hanno mostrato «deliberata indifferenza» a un «evidente pericolo». Hanno anche citato le città di Longview e Kelso, i cui dipartimenti di polizia erano coinvolti, per non avere creato «appropriate procedure e regolamenti che riguardino il reclutamento, addestramento, mantenimento e protezione di informatori confidenziali». L’avvocato della controparte nega la maggior parte del racconto dei McLean e sostiene che Jeremy non «ha esercitato ragionevole cautela per la propria sicurezza». La causa è in corso.

Qualche settimana dopo la morte di Rachel Hoffman, intorno alle 2 di notte suo padre Irv iniziò a buttare giù degli appunti. Quasi quotidianamente dal giorno dell’omicidio della figlia si era svegliato molto presto, rivivendo nella sua mente i particolari del fiasco dell’operazione. Cominciò a stendere una lista: perché Rachel era stata utilizzata in una operazione di polizia così pericolosa quando non aveva alcun addestramento, quando non era nemmeno capace di trovare da sé le calze la mattina? Perché era stata mandata  comprare una pistola semiautomatica quando non aveva mai nemmeno sparato? Perché era stata spinta a prendere parte all’operazione prima di consultare un avvocato?

Hoffman si dedicò a trasformare le sue domande in una lista di auspicabili riforme. «Mi capitava di scrivere qualcosa, buttarlo via, scrivere qualcosa in più, buttarlo via», mi ha detto. Anche Margie Weiss aveva pensato a delle riforme. Iniziarono a lavorare a quella che chiamarono Legge Rachel. Weiss propose che si rivolgessero al padre  di un amico di Rachel, un avvocato della Florida di nome Lance Block, per farsi guidare attraverso il procedimento.

Block, un tipo curato e abbronzato con folti capelli castani, aveva profonda familiarità con il processo legislativo statale. Ex presidente dell’Accademia degli Avvocati Patrocinanti della Florida aveva collaborato con i consulenti della squadra legale di Al Gore durante il riconteggio presidenziale del 2000, e sembrava in confidenza con mezza Tallahassee, dai commessi di gelateria ai deputati e senatori della capitale. Acconsentì a condurre la campagna della Legge Rachel  senza compenso, e a rappresentare la famiglia in una causa civile contro la città.

Block si immerse in uno studio del sistema degli informatori, sia in Florida che nel resto del paese, alla ricerca di un modello legale, un qualche tipo di traccia che potesse usare per dare forma alle elucubrazioni notturne di Hoffman e Weiss. «Cominciai a intervistare gli esperti legali, ma quasi tutti si erano focalizzati esclusivamente su come rendere innocui gli IC, non sul proteggerli», ricorda, facendo riferimento agli sforzi dei gruppi in difesa dei diritti civili per combattere le false accuse degli informatori arrestati. Venne a sapere poi che la California era uno dei pochi stati che aveva norme che regolavano l’uso di informatori adolescenti, e proibivano l’arruolamento di quelli minori di tredici anni. Queste regole erano state elaborate dopo che un diciassettenne, Chad Mac Donald, era stato brutalmente ucciso e la sua ragazza quindicenne stuprata e ferita a colpi d’arma da fuoco per ritorsione contro il lavoro di Chad come IC di basso livello, nel 1998. Ma comunque quando si trattò di comporre una forma coerente e realistica della Legge Rachel, «ci trovammo in un territorio del tutto sconosciuto».

Block, Hoffman e Weiss partivano da zero, ma elaborarono velocemente i particolari. Per prima cosa tutti gli IC avrebbero avuto diritto ad assistenza legale; l’emendamento Miranda e e il sesto emendamento spesso non si applicano agli informatori, perché possono non essere mai formalmente arrestati o imputati di un crimine [l’emendamento Miranda (il quinto emendamento) garantisce fra l’altro il diritto a non essere costretti a testimoniare contro se stessi; il sesto emendamento garantisce una serie di diritti relativi al processo, fra cui quello a essere assistiti da un avvocato, NdRufus]. In secondo luogo ci sarebbe dovuta essere una norma che impedisse del tutto l’uso di minori. E, terzo, sarebbe stata prevista una “parità di offesa” – i colpevoli di reati di droga a bassa intensità e senza uso di forza non avrebbero dovuto essere usati per catturare trafficanti con passate storie di violenza. Quarto, non si sarebbero dovute impiegare persone già inserite in programmi di riabilitazione, come nel caso di Rachel Hoffman. Fu anche suggerita una serie di altre misure.

Ad agosto, poco dopo che avevano cominciato a comporre la proposta di legge, ricevettero una improvvisa spinta in avanti. Un gran giurì incaricato di ricostruire i fatti riguardanti il caso Hoffman non solo rinviò a giudizio i due sospetti di omicidio, Green e Bradshaw, ma si spinse anche, in maniera fortemente inusuale, a condannare con parole di fuoco il comportamento del dipartimento di polizia (Green e Bradshaw stanno attualmente scontando l’ergastolo per l’omicidio Hoffman; Bradshaw ha recentemente presentato appello). «Permettere che una donna giovane e immatura si recasse da sola in auto con 13.000 dollari per incontrare due pregiudicati di cui si sapeva che portavano all’appuntamento almeno un’arma da fuoco fu una decisione incosciente che è costata alla signorina Hoffman la sua vita», ha dichiarato il gran giurì. «Meno di quindici minuti dopo aver lasciato il Dipartimento di Polizia di Tallahasse venne persa di vista dagli agenti che le avevano assicurato che sarebbero stati nelle sue immediate vicinanze, guardandola e ascoltandola in ogni momento. Nel momento in cui le spararono uccidendola ella chiamò aiuto e nessuno era lì per sentirla».

A questo punto il dipartimento di polizia iniziò a riconoscere che c’erano stati degli errori. Un’inchiesta interna rivelò che nel caso Hoffman gli agenti avevano commesso almeno ventuno violazioni di sei separate direttive. «Non pensavo che potessero essere state violate così tante direttive», dichiarò il Capo della polizia Jones al Democrat di Tallahasse, che che diede ampio risalto al caso. Jones ammise che era stato scorretto dare la colpa alla vittima, ed espresse rincrescimento.

Era il momento giusto perché i genitori di Hoffman agissero in maniera decisa. Due uomini politici repubblicani, Mike Fasano e Peter Nehr, rispettivamente senatore e deputato statale, accettarono di presentare a proprio nome la Legge Rachel, e furono indette riunioni di commissione. Tuttavia si scoprì che le riforme avevano dei formidabili oppositori. Il Dipartimento della Florida per le Forze dell’Ordine, l’Associazione degli Sceriffi della Florida e altri gruppi fecero pressioni contro la legge, e più di un centinaio di poliziotti riempirono le sale delle riunioni.

Molti agenti nelle varie narcotici, in particolare, dichiararono che il divieto di usare minori come IC li avrebbe costretti a far finta di niente rispetto a crimini da adulti commessi da giovani. Più registri avrebbero solo aumentato il rischio che venissero svelate le identità degli IC.  La clausola del diritto all’avvocato difensore, polemizzarono, avrebbe reso impossibile prendere e “convertire” sui due piedi un sospetto, rendendo di fatto inutile una tattica efficace per combattere i crimini in tempo reale. Lo Sceriffo Larry Campbell, della Contea di Leon, dichiarò che la proposta di legge, se approvata nella sua forma originale, sarebbe stata «la fine delle operazioni di polizia».

Dietro molte di queste obiezioni c’è la convinzione che gli IC non dovrebbero essere soggetti a norme generali e uniformi, perché la pratica è eminentemente non sistematica e improvvisata. «Non esiste una cosa come addestrare un informatore», mi ha detto Brian Sallee, della B.B.S. Narcotics Enforcement Training and Consulting. «Uno gli dice cosa fare e se seguono le istruzioni questo renderà le cose più sicure per loro. Ci sarà sempre un rischio, ma quando le cose vanno male di solito è perché non fanno quello che gli si dice. Sono loro che si fanno del male, non gli agenti. Gli informatori causano il loro stesso dilemma».

Alla fine fu proposto un compromesso, privo di alcune delle proposte iniziali, compreso il diritto inequivocabile all’assistenza legale per gli informatori e la norma per escludere i minorenni. Ma anche la versione corretta prometteva norme e diritti per gli informatori del tutto innovative; i poliziotti erano ora obbligati a ricevere un addestramento speciale, a tenere in considerazione l’età e lo stato emotivo di una recluta e il livello di rischio di ogni data operazione. E in tutte le operazioni che coinvolgevano  gli IC la sicurezza sarebbe stata la prima priorità.

La proposta di legge modificata passò in entrambe le camere all’unanimità. Il 7 maggio 2009, anniversario dell’omicidio di Hoffman, il Governatore Charlie Crist firmò la Legge Rachel. Essa divenne la prima previsione coerente di legge sull’argomento nell’intera nazione. Nonostante questo i genitori di Hoffman hanno giurato a se stessi di continuare a lavorare per rafforzarla. Questa estate hanno preso posizione sul caso della madre ventisettenne di due bambini che è stata uccisa dopo avere lavorato come informatrice nella Contea di Citrus.

In precedenza nello stesso anno Weiss e Hoffman avevano ottenuto un’altra importante vittoria: un risarcimento di 2.6 milioni di dollari dalla città di Tallahassee in una causa per omicidio colposo – e insieme delle scuse formali. Sperano ora di portare la loro campagna oltre i confini della Florida e di ampliare la loro spinta verso norme del tipo che avrebbe potuto salvare la loro figlia. Nel frattempo il loro esempio pubblico e il risalto datogli dai mezzi di informazione  – compresi gli articoli di Jennifer Portman sul Democrat di Tallahassee, spezzoni su ABC News, e un ampio articolo di Vince Belser per l’Huffington Post – hanno spinto i familiari di altri IC oggetto di violenza a chiedere riparazione.

«Perché sembra che facciamo le leggi sempre e solo a seguito di tragedie?», ha chiesto Lance Block poco tempo fa sotto il portico del Black Dog Cafe, un bar vicino alla Centrale di Poiizia di Tallahasse. «Abbiamo affrontato tutte le forze più potenti della Florida, e abbiamo vinto. Ma ci vorrà molto di più di noi tre per portare questa esigenza oltre i confini dello stato – per dire: “Civili non addestrati non devono svolgere i compiti delle forze dell’ordine”». E ha aggiunto: «Non dovrebbero essere trattati come persone di scarto».

Margie Weiss non si aspettava che il risarcimento o la fine del processo per omicidio, o perfino l’approvazione della Legge Rachel, le dessero pace. Niente lo ha fatto. «Certi giorni non posso lavarmi i capelli, non posso guidare la macchina. Sono fiera di me se posso giusto alzarmi dal letto e fare quel che c’è da fare. Oggi ho lavato per terra. È andata bene». In altre giornate, invece, resta alzata fino a tardi a fare progetti per la Fondazione Rachel Stella del Mattino, un’organizzazione che sta lanciando con lo scopo di promuovere la riforma degli IC (Irv, da parte sua, ha fatto partire una borsa di studio a nome di Rachel). In quei giorni, dice, fra contattare politici e corrispondere con genitori  di tutto il paese che hanno perso i figli a causa di un impiego non addestrato come informatori: «Sento la sicurezza che intraprenderemo una crociata per rendere la legge nazionale, che salveremo degli altri ragazzi».

Margie ha costruito un piccolo giardino in memoria di Rachel fuori delle finestre del suo studio. Là ha piantato fiori di persecuzione – spina di Cristo, cuor di Maria – insieme con quelle che considera piante di resistenza: passiflora porpora, una brugmansia che è fiorita, dice lei, il giorno in cui è stata approvata la Legge Rachel. Conta le farfalle monarca sul cespuglio di asclepia. Il loro colore le ricorda i capelli di Rachel.

Anche Irv Hoffman ha i suoi rituali. Ogni mattina guida fino alla tomba di Rachel, con le sue scorte nel bagagliaio: una bottiglia d’acqua per i fiori di Rachel , un paio di forbici per potare i gambi, una sedietta da spiaggia per sedersi e leggere a fianco alla panca in memoria di sua figlia. A casa talvolta ripercorre una ferita, facendo scorrere su YouTube l’intervista di ABC News al Capo della polizia Jones, riguardando Jones dire: «Si, la definisco una criminale». Altre volte rilegge la lettera che Rachel gli scrisse la sera prima di partire per il college. Un pomeriggio recente mi ha mostrato la lettera, che aveva fatto plastificare e teneva sul tavolino. La prese e iniziò a leggere: «Al mio eroe, Papà, dove posso cominciare?».

Irv fece una pausa per riprendersi. La casa era silenziosa, tranne per il rumore del gatto tigrato di Rachel, Bentley, che russava su una sedia lì accanto. È questa lettera, più di ogni altra cosa, a far sentire a Irv il peso degli anni a venire, in cui si aspettava di essere un padre e un nonno attivo e in cui si trova invece a ripercorrere senza fine i dettagli di una fallita operazione di IC. «Papà, per favore non ti preoccupare per me», continuò a leggere ad alta voce: «Io sono una ragazza molto intelligente e indipendente e ho la morale e l’etica che mi hai insegnato, che non lascerò a casa. Abbi fede, Vecchio, starò senz’altro bene».

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