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Con la stessa passione dei bambini

Ieri sono andato alla Messa in occasione del diciannovesimo anniversario dell’ordinazione di don Giulio Madeddu. Al momento della colletta (la preghiera che il sacerdote pronuncia fra i riti di ingresso e la liturgia della Parola, per predisporre l’assemblea ormai costituita all’ascolto), Giulio ha letto ad alta voce il testo, rubricato come “Messa per un sacerdote, specialmente se in cura d’anime”:

O Dio, che mi hai posto alla guida della tua famiglia
nel sacerdozio ministeriale,
non per i miei meriti, ma soltanto per la tua grazia,
fa’ che io compia degnamente il mio servizio.

Non so se sia dipeso da un’enfasi posta da Giulio o da una coincidenza, ma le parole del terzo verso sono risuonate con particolare evidenza: non per i miei meriti ma per la tua grazia. Ascoltando riflettevo su come la formula segnalasse una distanza abissale dagli stereotipi sulla Chiesa e i preti che spessissimo mi capita di sentire ultimamente.

Non so chi materialmente abbia scritto quella preghiera: il Messale è stato riformato dopo il Concilio ma non sono abbastanza competente in termini di liturgia da sapere quanto riprenda di formule più antiche. In ogni caso non è quello che importa; importa invece che chi ha scritto quel brano ci si è avvicinato con un senso vero di fede: e ha voluto sottolineare con precisione un aspetto di umiltà, di affidamento alla grazia.

Distanza abissale dalla stereotipizzazione dei preti tutti volti a se stessi, alla propria glorificazione, al potere, o della Chiesa come costruzione del tutto umana. Sembrerebbe persino strano sottolineare che la Chiesa, essendo composta di gente religiosa, quando parla a se stessa (prima ancora che di sé) svolga concetti religiosi e celebri in senso religioso: si vede che però le vicende del periodo mi predisponevano a questo pensiero.

Del resto la liturgia tutta è dimostrazione di quel che dicevo. La stessa cura nello scrivere la parola giusta che pronuncia un prete quando presiede una Messa nel suo anniversario di ordinazione c’è in tutti i testi, in tutte le preghiere, nella organizzazione complessiva dei riti, nessuno dei quali è mai stato pensato in maniera superficiale. C’è una bella immagine di Romano Guardini che mi piace spesso citare, quella che paragona la cura per la liturgia per l’attenzione ossessiva che i bambini dedicano all’organizzazione dei loro giochi. Chi è mai stato in cortile a litigare per stabilire se vale far carambolare la palla contro il muro per dribblare un difensore o se questo non è ammesso può capire quello che dico: e una simile cura non è finzione, non può avere origine che laddove si è religiosi davvero.

Facendo l’avvocato del diavolo

Si sarà capito, non sopporto gli stereotipi negativi su Chiesa e preti. È vero però che ieri eravamo in posizione privilegiata per percepire la celebrazione come espressione di una Chiesa davvero religiosa e, in definitiva, di un mistero. Non eravamo tanti, ciascuno conosceva (e stimava) diversi degli altri, presiedeva un sacerdote verso cui tutti avevamo sentimenti di amicizia. C’era anche la musica, sebbene magari un po’ strascicata oltre il limite. Era una celebrazione intima ma anche moderatamente solenne: un contesto favorevole alla preghiera e alla meditazione.

Non è probabilmente rappresentativa, purtroppo, delle celebrazioni ordinarie nelle comunità parrocchiali, che forse non sempre riescono a testimoniare quel che sarebbe necessario.

All’incontro delle Lucido sottile con don Dino Pirri (di cui dovrò decidermi a raccontare) a un certo punto si è raccontato di celebrazioni di esequie noiosissime, «che duravano un’ora e mezza». Bum!! ho pensato, ma quando mai. Certo, c’era nell’occasione un’ignoranza religiosa che si tagliava a fette, ma dopo ieri un altro pensiero mi è venuto: magari quella Messa non durava un’ora e mezza, ma era così noiosa che davvero… sembrava non finire mai!

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