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Io non sono sardo (o meglio: io si, voi non so)

Avvertenza: questo articolo è stato concepito sotto l’effetto dell’ira, dell’indignazione e del disgusto; poi, siccome non sono capace nemmeno di ordinare il latte in bottega senza argomentare, è diventato quello che è: sembra girare in tondo in tondo, ma poi l’invettiva arriva.

Mi è sgorgato inarrestabile dalla faccenda degli incendi della settimana scorsa: così forte che ho dovuto per forza un po’ far sedimentare e poi il sito fuori linea mi ha fatto ritardare ulteriormente: alla fine anche io, come l’invettiva, sono arrivato al punto.

Ötzi? Tuo nonno!

Avrete letto che è stato completamente mappato il DNA della mummia del Similaun, l’uomo del Neolitico trovato in un ghiacciaio in Val Venales (l’articolo di Nature è del febbraio 2012 ma ha avuto recentemente nuova visibilità perché la notizia è stata rilanciata da un gruppo di pseudositi dediti alla pseudostoria della Sardegna e c’è stata poi la solita ondata di ulteriori condivisioni su Facebook che ha fatto sembrare nuova la notizia).

I risultati della ricerca di Nature sono molto interessanti: sappiamo, per esempio, il gruppo sanguigno dell’uomo, il colore degli occhi e il fatto che era intollerante al lattosio e a rischio di infarto: tutte cose che non possono che indurre meraviglia per la potenza degli strumenti scientifici a nostra disposizione. Inoltre, siccome nel 2008 era stato stabilito che il genoma di Ötzi non corrispondeva esattamente a quello di nessun gruppo umano attualmente diffuso sulla Terra, il gruppo di ricerca ha cercato di lavorare in termini di prossimità

Sequence analysis showed genetic distance from modern mainland European populations, but proximity to the extant populations of Sardinia. Interestingly, the Iceman’s Y-haplogroup G2a4 has hitherto only been found at appreciable frequencies in Mediterranean islands of the Tyrrhenian Sea (Sardinia and Corsica). Although admixture and demographic history cannot be reconstructed from one individual alone, the Iceman’s Y-chromosomal data document the presence of haplogroup G in Italy by the end of the Neolithic and lends further support to the demic diffusion model. The affinity of the Iceman’s genome to modern Sardinian groups may reflect relatively recent common ancestry between the ancient Sardinian and Alpine populations, possibly due to the diffusion of Neolithic peoples.

Quindi: il gruppo umano più vicino è quello sardo, con una “origine comune relativamente recente” fra le antiche popolazioni della Sardegna e dell’area alpina. Il che fa nascere una serie di domande, di tipo storico o antropologico: lo notano anche i ricercatori quando dicono che la loro scoperta sembra confermare il modello migratorio di diffusione demica. Discussioni un po’ per specialisti, ma non tanto: per esempio che in Sardegna fin dal Neolitico si siano mantenuti stabili dei caratteri genetici rafforza l’ipotesi di Lilliu di una costante resistenziale sarda, teoria che ha ricadute culturali e anche politiche molto attuali.

Ma sulla stampa e negli ambienti attenti all’identità sarda, almeno a questo giro, di questo tipo di domande non c’è traccia. Quello che c’è invece? La rivendicazione che Ötzi è “cosa nostra”. Prendo i primi tre casi che ho trovato:

L’uomo di Similaun, cioè Oetzi, era Sardo

una scoperta che conferma la prodigiosità nell’essere protagonisti, non solo nel Mediterraneo, ma anche nell’Europa continentale, da parte degli antichi grandiosi abitatori della Sardegna Paleolitica

“Prodigiosità”. “Antichi grandiosi abitatori”. Apprezziamo l’understatement

Oppure c’è questo simpatico stile familiare e confidenziale:

Lo sapevate che Oetzi era sardo?

I sardi sono ancora i protagonisti dell’Europa antica. Torniamo indietro negli anni. Siamo nel Paoleolitico. Oetzi, la mummia ritrovata nei ghiacci che ha fatto parlare tutto il mondo contemporaneo era sarda.

L’uomo di Similaun, cioè Oetzi, era Sardo. È una scoperta, risalente a nemmeno un anno fa e avvalorata da ulteriori test recenti,  che conferma il nostro essere protagonisti, non solo nel Mediterraneo, ma anche nell’Europa continentale. Siamo antichi abitanti, parliamo dell’era paleolitica, che hanno fatto storia

O per riassumere in maniera definitiva (occhio alle maiuscole):

L’uomo di Similaun, cioè Oetzi, era Sardo. LA STORIA SIAMO NOI.

Vi prego di notare quel “noi” gridato: ci torneremo fra un attimo. Per il resto chiediamoci: da quali abissi misti di ignoranza e senso di inferiorità nascerà questo bisogno perverso di accumulare titoli di merito? Se avessimo scoperto che Ötzi aveva un codice genetico simile a quello, Dio non voglia, degli albanesi, cosa sarebbe cambiato nella vita degli estensori di questi articoli? Apparentemente niente: ma invece la caparbia, continua, rabbiosa volontà di rivendicare questi titoli di merito (sembra di sentire Muttley: «Dammi la medaglia, medaglia, medaglia») indica un bisogno, un bisogno direi anche profondo, non soddisfatto il quale la vita appare più misera. Brutta bestia i complessi di inferiorità.

Anche su questo torneremo, ma prima un’ultima domanda: esattamente per cosa si dovrebbe essere orgogliosi di Ötzi? Voglio dire, stiamo parlando di un selvaggio che mangiava stambecco crudo, si tatuava la schiena lungo la spina dorsale perché credeva di combattere così i dolori articolari ed è passato alla storia perché ha avuto la malaugurata idea di farsi tirare una freccia nella schiena in mezzo al nulla, in modo da farsi surgelare con comodo e essere così ritrovato nel 2000. Apparentemente il cervello di tutta questa gente che parla di protagonismi e di prodigi non è stato sfiorato dall’idea che non c’è molto di cui essere fieri: Ötzi non è proprio Ramsete nella sua piramide o Einstein – al massimo parliamo di uno sfigato, però ben conservato. Magari, se proprio si vogliono esibire medaglie, c’è di meglio.

Niente paura: ci hanno già pensato. Non smettono mai di pensarci.

Noi, proprio noi, fortissimamente noi

In realtà quando un amico mi ha segnalato il risorgere della notizia di Ötzi su Facebook io ero già in caccia. Sullo stesso Facebook avevo trovato il link a un articolo che racconta di una visita al nuraghe Seruci, un importante sito archeologico nella zona di Gonnesa.

L’articolo in sé non è niente di particolare: è la cronaca di una bella giornata di cultura. A un certo punto, però, si legge

Al centro del villaggio, la piazza. La famosa piazza nuragica di Seruci, luogo di scambio di convivialità. “Marco Rendeli (il famoso etruscologo che ha riportato alla luce il bellissimo villaggio nuragico di Sant’Imbenia)”, ci rivela Nicola con un briciolo d’emozione – “ha cercato per anni una piazza in Etruria e non l’ha mai trovata, di converso, al suo primo scavo in Sardegna, ha trovato subito la piazza! Quando vedrà questa di Seruci, analoga a quella di Alghero, esulterà dalla gioia!” La piazza, eccola li, davanti ai nostri occhi: può sembrare strano ma solo nelle nostre acropoli nuragiche ci sono le piazze, forse le abbiamo inventate in Sardegna, chi può dirlo.

Già: chi può dirlo? O meglio, chi può, così su due piedi, dire che non è vero? Uno su mille: e quindi appropriamoci anche di questo merito, va’. In maniera del tutto conseguente l’articolo ha per titolo (il grassetto è mio): Nuraghe Seruci: la sua straordinaria città e la piazza più antica del Mondo. È una progressione interessante: negli insediamenti etruschi non si sono mai trovate piazze ergo le abbiamo inventate noi ergo quella del nuraghe Seruci è la più antica del mondo. Una logica che a Aristotele gli fa un baffo, evidentemente.

Ora, a me è sembrato da subito improbabile che la piazza del nuraghe Seruci sia la più antica del mondo: ci sono città più vecchie di centinaia e forse migliaia di anni rispetto al villaggio di Seruci ed hanno spiazzi cerimoniali, spianate di templi, grandi cortili per assemblee e così via: se siano piazze è questione di intendersi, ma in sé la richiesta di primogenitura appare davvero campata per aria.

Diverso ovviamente sarebbe stato se si fosse scritto qualcosa del genere: «L’importanza attribuita dagli abitanti dell’insediamento di Seruci e in generale dalla civiltà nuragica alla dimensione della vita pubblica e comunitaria, alle relazioni civili e anche alla convivialità è testimoniata dalla scelta urbanistica di riservare all’interno dell’acropoli uno spazio apposito per una piazza, una scelta che è caratteristica e distintiva degli insediamenti nuragici e della cultura ad essi collegata rispetto ad altre civiltà ad essa coeve». Questo sarebbe un modo non competitivo, non rivendicativo (direi: nonviolento), di definire un’identità: invece abbiamo questo curioso inseguimento di primati. Medaglia, medaglia, medaglia, appunto.

Sono piani inclinati: l’autore dell’articolo forse si è fatto trascinare un po’ dall’entusiasmo, forse ha capito male l’archeologo che guidava la visita. Ma il pensiero che c’è dietro spinge alla ricerca di… medaglie sempre maggiori.

E quindi siccome da cosa nasce cosa, non stupisce che chi ha segnalato l’articolo su Facebook si sia sentito autorizzato a scrivere (naturalmente l’autore dell’articolo orginario non c’entra niente, direttamente, ma è il piano inclinato che conta):

Quando da noi costruivano le piazze e le strade, nel resto del mondo vivevano ancora nelle grotte o al massimo in tende rozze fatte di pelle di capra

e qui ho capito tutto. La questione non è che quanto sopra sia una evidente cretinata – all’epoca di cui parliamo c’erano già state città di decine di migliaia di abitanti e civiltà potentissime avevano fatto in tempo a sorgere e cadere – il problema sta in quel “da noi”. “Da noi” esattamente dove? A casa mia? A casa tua? Cosa ci unisce a popolazioni vissute migliaia di anni fa che avevano credenze, costumi, stili di vita… tutto completamente diverso? Nulla ci unisce, nulla.

Non stiamo parlando qui di sentirsi dentro i flussi della storia e apprezzare, poniamo, la continuità o anche l’evoluzione, le persistenze e le differenze, tra le idee politiche del mio bisnonno (mazziniano), quelle dei miei nonni (antifascisti e azionisti), quelle di mia mamma (comunista) e le mie, il diverso intreccio con le idee e le condizioni di vita delle comunità in cui le nostre generazioni hnno vissuto e il sapere che ciascuno dei miei vicini, conoscenti, abitanti della mia città viene da storie e famiglie e tradizioni che si intrecciano con le mie in una combinazione che a Genova o Berlino o Pechino o New York sarebbe per forza diversa.

No. Qui parliamo dell’accettare acriticamente l’idea che, in base a qualche misterioso motivo, si possa pensare che il nuraghe Seruci all’epoca in cui era popolato e casa mia oggi siano la stessa cosa, indistinguibili, un “da noi” che si estende attraverso i secoli, sfidando tutto per rimanere immutabile, e che questo “noi” geografico si trasformi in un “noi” di popolo che rende possibile dare un significato di identità comune a Ötzi e a Eleonora d’Arborea, ai nuragici e a un frequentatore di Facebook che vive da qualche parte in Sardegna, un “noi” che si protende aldilà del tempo e dello spazio… un “noi” che non può chiamarsi in altro modo che “i sardi”, sempre uguali, sempre gli stessi, per cui è normale, grottescamente, dire che “noi” abbiamo costruito i nuraghi, “noi” la Carta de Logu, noi, noi, noi ci siamo ricoperti di meriti, non importa se spesso inventati di sana pianta. Medaglie, medaglie, medaglie, noi, noi, noi.

Tutto questo ha un nome

Come si chiama l’ideologia che, partendo da abissi di ignoranza e senso di inferiorità, presuppone identità che in un mistico abbraccio attraversano i secoli, attraverso la continuità sacrale del sangue e dei luoghi? Per la quale l’individuo trae la propria identità esclusivamente dalla dimensione collettiva di popolo? Un’ideologia tutta tesa all’affermazione dell’identità comunitaria in termini di superiorità, o perlomeno attenta al rafforzare l’identità del popolo sulla base di primati storici e culturali?

Si chiama nazionalismo. Una delle ideologie più becere, ignoranti, mistificatorie e reazionarie del tardo ‘800 e del ‘900, intimamente violenta, incline al razzismo, madre dell’imperialismo, alla radice di due conflitti mondiali e di alcune delle peggiori tragedie recenti. Nazionalismo.

Sinora avevo considerato molti degli alfieri dell’identità sarda irritanti ma tutto sommato innocui, o almeno dannosi solo in specifici ambiti culturali. Non ci avevo mai pensato da un punto di vista politico, anzi mi era sempre venuto facile distinguere i due ambiti: ma questa costruzione insistita di un “noi” mitologico è troppo evidente per essere ignorata e per non allarmare – in Sardegna ci sono ultimamente un sacco di nazionalisti.

Non è una buona notizia, non può essere una buona notizia, per nessuno che si ritenga democratico o progressista.

Mi direte: è vero, ma è roba vecchia, ci siamo sempre tirati dietro questa burrumballa, i sardi chiusi ma ospitali, cinghiali, maialetti e ferragosto campidanese, le mitologie che prima che ai turisti vendiamo a noi stessi, robe del genere. Le mille discussioni sulla lingua.

Non mi pare la stessa cosa: quella era una visione derivata da una condizione percepita di inadeguatezza che cerca faticosamente di definirsi nel contesto mutato del dopoguerra, questa è ideologia al servizio di ben altro. Sono parenti, sono collegate, ma non è la stessa cosa.

Mi direte: ma quale ideologia, ma quale servizio, è roba folkloristica, sono sottoculture, frange che non entrano nella vita culturale realmente importante e neppure nella vita politica: là, per fortuna, si fa e si parla d’altro. Invece non è proprio così: un’opinione publica che piano piano si va imbevendo di nazionalismo e ne usa le argomentazioni per qualunque cosa ottiene quel che si merita: una classe politica che vive di demagogia, un modo di affrontare i problemi che scarica all’esterno le proprie manchevolezze – anche questa una vecchia abitudine, ma ormai senza freni – retorica, luoghi comuni, mistificazioni e, in definitiva, un danno per la Sardegna. Ci sono tanti nemici della Sardegna, i nazionalisti non sono fra i meno dannosi.

Non è una sparata: negli stessi giorni in cui leggevo di Ötzi e delle piazze che abbiamo inventato abbiamo avuto una dimostrazione di come il nazionalismo sia una facile scappatoia per non affrontare i problemi.

Erano i giorni che la Sardegna bruciava.

E veniamo agli incendi

Fra il 7 e il 10 agosto in due grandi incendi in Sardegna sono andati bruciati più di ottomila ettari di vegetazione.

Erano incendi dolosi. Chi ha messo fuoco? Dei sardi. Non gli italiani, non il Governo, non i colonialisti, non gli USA, non la NATO, non l’Aga Khan. Dei sardi.

La costruzione del dispositivo antincendi, la sua gestione, il finanziamento e il coordinamento a chi spettano primariamente? Alla Regione Sardegna. Non all’Italia, al Governo, alla Protezione Civile Nazionale, non agli USA, non alla NATO o all’Aviazione Militare o a Flavio Briatore. Alla Regione Sardegna, cioè ai sardi.

Se bruciano ottomila ettari vuol dire che il dispositivo antincendi è stato sovrastato. Siccome non ci sono state catastrofi impreviste e inarrestabili, tipo una pioggia di meteore, vuol dire che era inadeguato o non ha funzionato bene (cioè era inadeguato).

Se era indeguato, cosa si deve verificare a posteriori? L’adeguatezza dei mezzi predisposti? Le procedure previste? I piani che erano stati stesi? Oppure piani e procedure andavano bene ma ha fatto difetto la loro esecuzione? È mancato il coordinamento? I vari corpi ed enti coinvolti, Corpo Forestale, Ente Foreste, Vigili del Fuoco, barracelli, volontari, sono stati usati come dovevano ed hanno riposto come necessario?

Se era indeguato, di chi è la responsabilità (che è cosa diversa dalla colpa)? Di chi aveva predisposto, progettato e pianificato. Di chi vi era preposto, di chi coordinava e comandava. Cioè della classe dirigente sarda. Non del prefetto Gabrielli, dello Stato, dell’Italia, degli USA o della NATO. Della classe dirigente sarda.

Qual è il primo modo con cui assumersi le proprie responsabilità? Ma quello di dire ai cittadini sardi cosa non ha funzionato e perché, cioè di dare risposte alle domande che ho elencato sui motivi, le procedure, i piani, il coordinamento, l’adeguatezza delle risorse e dei mezzi.

Una opinione pubblica seria, un elettorato serio, avrebbe dovuto chiedere queste risposte alla propria classe dirigente e, successivamente, chiedere che vengano apportati i cambiamenti necessari e, casomai, che chi ha sbagliato paghi.

Ancora prima un’opinione pubblica seria avrebbe dovuto porsi il problema di chi è che mette gli incendi e perché, e creare un fronte di opposizione. In Sardegna le spinte a dissociarsi, a dire: «Io sto qui, tu stai di là, e non abbiamo niente in comune», a isolare i violenti, i ladri di uomini, gli incendiari come in questo caso, sono sempre troppo deboli, le nostre comunità troppo opache. In Sardegna è impensabile porre un discrimine sulla base della legalità, in maniera analoga al movimento antimafia di alcune regioni meridionali: noi siciliani perbene qui, voi mafiosi là, nessun accordo possibile, a costo del sangue. Invece gli incendiari, come gli inquinatori o i sequestratori, rimangono figure impalpabili, misteriose. Nessuno di noi cittadini normali sardi è materialmente complice di chi mette fuoco, ma l’acquiescenza, il fatalismo, il considerare gli incendi inevitabili come fenomeni meteorologici, il trincerarsi dietro luoghi comuni come i codici pastorali diventano, alla lunga, altrettante complicità (come sarebbe in Sicilia dire oggi che la mafia non esiste…).

Un disastro come quello della settimana scorsa (perché ottomila ettari sono una catastrofe, non meno) richiederebbe atti di verità da parte di un’opinione pubblica, di un popolo e della sua classe dirigente, assunzioni di responsabilità  e occasioni di raddrizzare i propri stili di vita o piani di sviluppo, anche a costo di pagare dei prezzi o di guardare in faccia realtà sgradevoli.

Cosa succede invece in una situazione di nazionalismo? Che la compattezza del popolo non può essere scalfita, pena la distruzione alla base di tutto il castello di carte. Ammettere responsabilità collettive, fare i conti con le proprie storture è impensabile. Per l’ideologia nazionalista il popolo è innocente per definizione. I propri difetti possono essere ammessi solo se possono essere trasfigurati e resi positivi, come Graziano Mesina, divenuto eroe romantico. Con gli incendi è impossibile. E quindi cosa è successo? Che la classe dirigente ha gettato in pasto all’opinione pubblica alcune esili esche che permettevano di dare la colpa ad altri, quella ha subito abboccato e tutti insieme hanno operato l’ennesima rimozione collettiva, scaricando all’esterno della comunità tutte le responsabilità, con una capacità di individuare capri espiatori fittizi che lascia attoniti.

Cinici, demagogici o semplicemente retorici

Diciamo una cosa sgradevole: non bastano i Canadair a spegnere il fuoco. E in ogni caso i Canadair della Protezione Civile sono un dispositivo integrativo, non sono la barriera antincendi principale. Ed è bene essere contro l’acquisto degli F-35, ma l’unico nesso fra loro e i Canadair è che gli uni e gli altri volano. Dire che con i soldi degli F-35 si potevano comprare un tot di Canadair è privo di senso: perché i Canadair e non, poniamo, più scuole e insegnanti? Solo perché adesso c’è questa emergenza su tutti i TG? E quando la settimana prossima ci sarà un’altra emergenza invocheremo l’uso dei soldi degli F-35 anche per quella? E poi, perché polemizzare proprio sugli F-35 e non su altro? Che so, la TAV? L’impressione è che si sia scelto un tema facilmente digeribile dall’opinione pubblica per creare e cavalcare un’ondata demagogica e strumentale. Mauro Pili incendio di LaconiUtile per i responsabili politici della Regione, che così hanno abilmente dribblato il ragionamento sulle proprie responsabilità, e utilissimo per politici in caccia di facile visibilità, come l’onorevole Pili che durante l’incendio stava a Laconi, non si sa bene a fare che cosa se non a twittare messaggi quasi fosse un novello sindaco Alemanno. Pili ha studiato comunicazione, e si vede: nel messaggio su Facebook ci ha messo anche la foto, che rende le condivisioni più visibili. Si è preso il tempo di scattare la foto e di allegarla: si vede che l’indignazione non gli bruciava proprio la mano, non forzava a scrivere prima possibile. Già che c’era Pili ha avuto anche l’abilità di infilarci la propria battaglia sulla continuità territoriale e di assolvere (con quel magnifico: «Ma se…») o almeno lasciare indeterminati gli incendiari: se non lasciasse sgomenti per il pelo sullo stomaco ci sarebbe da restare ammirati per la dedizione alla propria visibilità, che non arretra neanche di fronte alle catastrofi, di quest’uomo.

Non che a sinistra si stia meglio: è speculare a quello di Pili l’intervento alla Camera dell’onorevole Michele Piras, accuratamente accorato, accuratamente calibrato per regolare qualche conto passato con Monti, accuratamente teso a ignorare qualunque responsabilità che anche lontanamente possa essere collocata in Sardegna (meglio parlare de “lo Stato”, che tanto è tutto e niente), accuratamente mistificatorio. Veramente geniale la frase: «è salita la temperatura, si è levato un po’ di vento», che porta gli incendi nel novero di quei fenomeni inesplicabili e inevitabili come le maree o le basse zone depressionarie.

Michela Murgia incendiE gli indipedentisti? Accidenti, questa volta si sono fatti fregare sul tempo. L’intervento di Michela Murgia arriva quando già Pili e Piras hanno occupato la scena e dettato la linea, e del resto Progres non si è mai scaldato più di tanto per gli F-35. Però si sono via via esposti sempre di più (giustamente) sulle questioni legate a Quirra, quindi niente paura: l’occasione di essere cinici e strumentali c’è anche per loro. Ha torto Cappellacci quando dice che una scrittrice non è adatta alla politica: serve dell’abilità per concepire un bel post che metta insieme senza farle stridere troppo cose che c’entrano come i cavoli a merenda come gli incendi, le esercitazioni militari sul territorio sardo e perfino la manifestazione delle Frecce Tricolori prevista a chilometri di distanza dalla zona degli incendi. Non siamo alle vette di Pili, ma ci avviciniamo.

Parentesi: sia chiaro che queste periodiche esibizioni delle Frecce Tricolori sono, è evidente, una forma di propaganda militarista beceramente travestita da festa di popolo. Ma sarà il caso di opporsi per i motivi giusti, non perché torna comodo al momento.

Mi è spiaciuto mettere in questo articolo Michela, che stimo, ma quando è troppo è troppo. Lo stesso potrei dire di Franciscu Sedda, che cito solo perché il suo intervento dimostra che invece di esorcizzare le responsabilità del popolo sardo scaricandole all’esterno è possibile fare ricorso anche a ovattate dinamiche consolatorie:

Franciscu Sedda incendi

E qui il cerchio si chiude: non c’è niente di cui preoccuparsi. Siamo un popolo di eroi. E di tizi congelati, di inventori di balle, di costruttori di piazze e di politici fedifraghi. È tutto a posto. Possono venire gli incendi o qualunque altra cosa ma ci sono i nostri eroi. Non preoccupiamoci.

Come dice il capitano di De Gregori sul Titanic

Signor mozzo io non vedo niente
c’è solo un po’ di nebbia che annuncia il  sole
andiamo avanti tranquillamente

Un congedo

Mentre scrivevo questo articolo avevo in mente Io dico addio, di Guccini, soprattutto i due versi

io dico addio a tutte le vostre cazzate infinite,
[…]
alle urla scomposte di politicanti professionisti,
a quelle vostre glorie vuote da coglioni…  

Detto in altro modo, se essere sardi è essere così, scusate, non ce la faccio. Mi dimetto. Non voglio essere sardo come voi. Trovatemi un altro nome.

Poi ho pensato: ma perché? Di poche cose sono sicuro, ma di una si: certamente sono sardo. Magari non so bene cosa significa, ma sono sardo. Non sono io che devo cambiare nome. Siete voi. Anzi, già che ci siete: fuori dai coglioni.

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39 pensieri riguardo “Io non sono sardo (o meglio: io si, voi non so)

  • questo vuol dire riprendersi gli spazi….
    🙂

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    • Forse con un po’ di gomitate, che non è pratica particolarmente nonviolenta. Però non ne posso più. 😉

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  • Alberto Pintus

    No, Roberto non mi hai dato nessun dolore anzi condivido quello che scrivi e lo sottoscrivo … per quanto riguarda la citazione su Franciscu però devo dirti che non è da un twitter che puoi dare un giudizio, e infatti credo che hai faticato per trovare quello che ti serviva :-). Le cose che dice e che scrive Franciscu, come tutti i Novadores, vanno esattamente nella tua direzione che è quella di prenderso ognuno le proprie responsabilità senza delegare a nessun altro nella gestione della propria terra in tutti i campi, politico, culturale, sociale e sulla cura del territorio.
    Robè ci stiamo provando con fatica ma anche con un grande entusiasmo …. ci son voluti sessant’anni per farci dire queste cose …. si avrà il diritto-dovere di provarci?

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    • Uh, veramente non ho cercato niente: mi sono limitato a citare quel che, senza mio sforzo, mi è arrivato nel feed.
      Sul prendersi le responsabilità, mi pare che si tratta di intendersi su cosa voglia dire: quando ci sarà la Repubblica magicamente non ci saranno più incendi? Perché il tuo articolo sui Novadores sembrava andare un po’ in quella direzione. E se non è così magari si possono dire le cose già da adesso…

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      • Alberto Pintus

        gli incendi ci saranno ma spero meno, perchè spero che l’amore per la nostra terra aumenti sempre di più capendo che è nostra. Ci saranno ma sicuramente non avremmo l’alibi di di prendercela se non con noi stessi, è questa l’assunzione di responsabilità di cui parlavo e va aldilà degli incendi ma di tutti i nostri problemi e le nostre necessità.

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  • grazie Roberto…tutto quello che avrei voluto scrivere io, se avessi avuto le idee altrettanto chiare!

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  • andrea battinelli

    Mitico Roberto! Hai dato il massimo in questa maratona, e sei arrivato davvero in alto. Hai tutta la mia ammirazione. Hai centrato il punto: “l’nvenzione dell’etnia” è l’ingrediente fondamentale per giustificare il “noi dentro e tutti gli altri fuori”. Noi a campare facendo guerre e disastri lontano, loro ad affogare nei barconi. Questa è l’Europa bellezza! (Non solo il veneto leghista cioè). C’è un PERÒ mio caro. Che mandare a quel paese gli F-35 non sia sufficiente lo dimostri ed è più che giusto. Che sia assolutamente necessario che i sardi – politici e non solo – si prendano le loro responsabilità degli incendi lo sostieni e hai perfettamente ragione. Che qualcuno di loro tiri fuori gli F-35 ORA solo per depistare, d’accordo. Ma rischi di oscurare il fatto che il no agli F-35 se non è sufficiente è comunque necessario (i due predicati si sa non coincidono per nulla). E da uno come te che se non sbaglio sostiene un governo che gli F-35 li vuole e li paga (a spese nostre) non so quanto sia innocente. O mi sbaglio? In altre parole: dopo aver attaccato tutta questa gente che ammettiamo pure tira fuori gli F-35 a sproposito, lo vuoi dire o no che questo governo sta commettendo un’infamia a tenerli?

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      • E aggiungo: neanche quello Monti. Su queste grandi intese mi viene in mente il solito Brecht:

        Le madri atterrite
        scrutano nel cielo
        le scoperte dei sapienti.

        Io sono una madre atterrita.

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        • andrea battinelli

          bene bene mi sbagliavo! certi errori fanno piacere…

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  • Pingback: R. Sedda che s’incazza e Bolognesi che svolazza | Bolognesu: in sardu

  • Perfetta analisi, ma purtroppo macchiata da una generalizzazione dell’indipendentismo che non rende onore all’intelligenza di questo e altri pezzi scritti recentemente e divulgati in rete. Non tutti gli indipendetisti sono “naturalmente nazionalisti”, come si da ad intendere, e più di tutti Voi che lo riconoscete anche tra le righe, dovreste aiutare la società sarda ad isolarlo e combatterlo senza il pregiudizio che, mi pare, abbiate verso gli indipendentisti.

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    • Non mi pare che ci siano generalizzazioni sull’indipendentismo.

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  • Alessandro Mongili

    L’articolo è molto intelligente, però a mio parere non considera la cultura politica in Sardegna come un insieme, cioè non considera la cultura politica non indipendentista, con i suoi mutismi e i suoi limiti, né si pone il problema del perché nelle culture politiche sarde vengano mobilitati certi argomenti e certi ragionamenti. Infine, è duro con gli indipendentisti e con la “cultura della lamentela” ma muto al riguardo delle ragioni tutto sommato esistenti, e che riguardano la critica, credo doverosa, alle insufficienze dello Stato. Questa critica può portare anche lontano, sino a chiedersi se questo Stato per caso non si muova come uno Stato colonialista. A me sembra un’ipotesi interessante e forse fondata. E il suo articolo mi sembra una forma di esorcismo utile unicamente per scartare questa ipotesi.
    Per quanto riguarda la sua critica del nazionalismo, io non solo la condivido, ma ne sono entusiasta. Però le ricordo che in questi ultimi anni in Sardegna il nazionalismo “grande-italiano”, le giustificazioni all’occupazione militare, e anche le offese al buon gusto medio (vedi le gaggissime celebrazioni del 150° dell’unita d’Italia) sono scatenati e rovinano la gran parte delle menti, come mostra un crescente razzismo verso le diversità, che certo non si può imputare ai nostri indipendentisti, mentre è facilmente ascrivibile, se si è onesti, al pericoloso e fascist-grounded nazionalismo italiano.

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    • Gentile professore, la ringrazio dell’attenzione.
      Sulle sue osservazioni specifiche, però, vorrei tenere il punto.
      Intanto mi pare che le sfugga che non sto parlando, se non marginalmente, della classe politica indipendentista: né Pili né Piras possono essere messi nella categoria, e del resto vediamo Cappellacci tutti i giorni fare l’indipedentista a sfroso. Com’è possibile che se lo possa permettere? Perché il nazionalismo è una comoda foglia di fico. Casomai toccherebbe agli indipendentisti sostanziare una proposta comunicativa alternativa: prendo atto che nel caso in specie sono stati al massimo dei maldestri imitatori.
      Più che di colonialismo preferirei parlare di rapporti fra territori forti e deboli e fra centro e periferia (ne ho scritto ai primordi del blog sulla Val di Susa, che certo non può essere considerata territorio coloniale), ma colgo l’ipotesi e ammetto che è interessante. Solo che nel caso non c’entra nulla: la questione degli incendi ricade tutta o quasi tutta nella nostra comunità locale, o almeno questa è la mia visione. Provare a riportarla a evanescenti sistemi complessi e a tematiche coloniali mi pare, quello si, un esorcismo, e ho provato a dire che di questi esorcismi sono stufo.
      Infine, sul nazionalismo grande-italiano devo sottrarmi al suo veltroniano “ma anche”. Non ho nessun entusiasmo per nessun nazionalismo, ma adesso, in questo momento, su questo blog sto parlando di un altro nazionalismo, e non si può fare di ogni erba un… fascio (il gioco di parole non era voluto ma mi piace). Appurata una condanna – senza ma, però, o simili, parlerò volentieri di quell’altro.
      Del resto i nazionalisti sono uguali dappertutto, e quindi trovo sorprendente la sua idea che, sicuramente il “crescente razzismo” – di cui peraltro io non ho parlato – non è imputabile a fenomeni culturali locali ma a fenomeni “italiani”: non mi starà mica dicendo che ci sono nazionalisti buoni, solo perché sardi?

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    • Rileggendo trovo un attimino brusca la mia risposta. Naturalmente ringrazio anche dei complimenti…

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      • Massimiliano Federici

        Uno legge cinque pagine dotte e documentate e poi si trova con “un attimino brusca”. Nanni Moretti avrebbe detto “Ma come parla? Le parole hanno un peso!”. Un attimino sorprendente, e non proprio per il meglio.
        Comunque, sono contento di leggere cosa pensa.

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        • Mi cospargo il capo di cenere. Ero di fretta. Va bene se al posto di Moretti mi schiaffeggio da solo? 😉

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          • Massimiliano Federici

            Così non vale. Chi ammette i propri errori, senza insultare e senza fare raggiri, toglie ogni arma all’interlocutore. No, non sembra di essere in Italia. Niente schiaffi, per oggi amnistia 🙂

  • Tenisi arrexioni. Ma tui po mei asi istudiau Antoixeddu su de Ales.

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  • Si, rileggendo devo darle ragione che non c’è nessuna generalizzazione esplicita e, magari sono solo io che ritenendomi un buon indipendentista, la leggo tra le righe. La cultura della lamentela come dice il sig. Mongili e da lei messa a nudo egregiamente, è forse quello che mi fa pensare che il destinatario finale del pezzo sia l’indipendentismo in tutte le sue espressioni.
    Se lo vorrà leggere, incollo qui un link dove si parla di incendi e nazionalismo, dove l’estensore arriva alle stesse sue conclusioni pur essendo attivo in un partito indipendentista.

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  • Roberto, come al solito hai saputo centrare gli argomenti su cui ci si era confrontati. Mi preme però evidenziare che hai usato troppe parole ed un atteggiamento nel redigere il testo troppo fintamente giovanilistico (insomma da facebook). Per il resto concordo su tutto. Sarebbe facile dimostrare che il nazionalismo porta dritto-dritto al fascismo autarchico, mentre evidenziare la propria identità culturale “io sono sardo” che pure io tante volte uso, può serenamente prescindere e fare a meno del nazionalismo.

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    • Ciao Giuse. Sulla lunghezza me l’hanno detto anche altri, lo so, ma non ho saputo fare altrimenti. Cosa sarebbe l’atteggiamento “fintamente giovanilistico”, esattamente?! Cioè: dove?

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  • Adoro quest’analisi! Riuscire a mettersi “fuori dal nuraghe” e valutare cosa succede. Purtroppo, chi vive ancora dentro al Nuraghe nn riuscirà neanche a leggere la metà di questa “invettiva”, nè tantomeno a capirla. Conosco troppi Sardi che si professano tali con orgoglio, lamentandosi di tutto e portando avanti solo mare e nuraghi, che rifiutano l’esperienza perchè sono SARDI…e ora ho capito che i veri Sardi siamo noi..non loro. LORO SONO MUFLONI E RESTERANNO TALI!!!!!!

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  • Non è raro, a seguito di piccole provocazioni lanciate su Facebook, trovarsi ricoperti di insulti anche da “amici” che su questi argomenti non tollerano nessun tipo di voce fuori dal coro, ma questo, più banalmente, anche se critichi la birra Ichnusa (grande assente nel tuo post).

    P.s.: provo ogni giorno a mettermi in discussione, soprattutto quando persone che stimo a loro volta stimano persone che a me non vanno giù, ma la Murgia no, non ce la faccio, più leggo le sue “esternazioni” e più mi viene uno sfogo cutaneo che non riesco nemmeno a classificare tra le dermatiti conosciute.

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  • Un articolo molto bello su tutti i nazionalismi e localismi e sul feedback razzista che spesso li anima.
    La lunghezza dello scritto, l’articolazione dell’argomentazione, il coraggio e l’onestà intellettuale sono sicuramente prova certa che l’autore è un sardo al 100%

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