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Quel che ho raccontato a Bologna

Mi è arrivata avantieri una mail che mi ha fatto molto piacere e che, nel ringraziare tanti che hanno collaborato a Terra Equa, tra l’altro dice:

Grazie a tutti quelli che hanno partecipato alla tavola rotonda di sabato 25 […]…

a Roberto Sedda (Sardegna) per aver ricordato che le reti non si costruiscono dall’alto e per aver sottolineato la propensione di alcuni “a far entrare gli ALTRI nella MIA rete” …

È vero: l’ho detto. E visto che ci sono mi scrivo qua sul blog l’intervento che ho fatto in questa occasione, così mi ricordo.

Sapevo che la tavola rotonda aveva per titolo: «Solidali e sostenibili: reti e progetti di economia solidale». A voce gli amici di Banca Etica di Bologna mi avevano detto che interessava un punto di vista diverso proveniente da un altro territorio sulla costruzione di reti di economia solidale, e quanto fatto da Banca Etica in Sardegna con il progetto Nuove Officine poteva rappresentare appunto un’esperienza con cui confrontarsi.

In realtà nell’Emilia-Romagna è in fase di svolgimento un percorso, molto interessante, di costruzione di una legge regionale di sostegno all’economia solidale (gruppi di acquisto solidale, finanza etica…), un percorso molto partecipato che prevede un confronto continuo fra consiglieri regionali e tavoli di rappresentanza delle varie reti di economia alternativa, e questo era in realtà il vero argomento del dibattito: e così mi sono sentito un attimo spaesato, spaesamento aumentato dal fatto che pensavo di intervenire fra gli ultimi (alle tavole rotonde in Sardegna di solito a Banca Etica capita così) e invece mi hanno chiamato a parlare per secondo, subito dopo un consigliere regionale che aveva raccontato la genesi della legge, e oltretutto Pietro Raitano di Altreconomia che moderava il dibattito mi ha chiesto di presentare in generale Banca Etica.

SAMSUNGIo mi ero preparato altro, appunto l’esperienza di Nuove Officine, e lì mi sono tirato il paro e lo sparo, come direbbe Camilleri: mantenere l’intervento che pensavo di fare oppure passare a una presentazione standard di Banca Etica. Ho scelto la prima possibilità e mi sembra (non toccherebbe a me dirlo) che sia andata bene, perché alla fine le varie voci – compresa la mia – si sono combinate in un quadro interessante e quindi l’intervento mi è sembrato utile: l’unica cosa è che forse ho spiazzato Francesco Fantuzzi che doveva intervenire successivamente per la MAG6: perché io ho parlato di coprogettazione e radicamento locale, che sono temi a cui dovrebbe sentirsi più vocata una MAG, e a lui è rimasto di parlare di predominio della speculazione e storture profonde del sistema finanziario, cose che ultimamente sono per Banca Etica una specie di leit motiv.

Dette tutte queste (lunghe) cose come premessa, la mia relazione è stata più o meno questa (vado a memoria, ma non credo di allontanarmi molto):

Reti e progetti di economia solidale a partire dall’esperienza della Sardegna

 Vorrei prima di tutto ringraziare dell’invito, sia dal punto di vista della Banca Popolare Etica che rappresento sia personalmente, e soprattutto confidare un certo imbarazzo: perché, come capirete anche dal mio accento, io non vivo qui, vengo da Cagliari, e in Sardegna si pensa normalmente all’Emilia-Romagna come al luogo per eccellenza di sviluppo e attività delle reti sociali e solidali. Non lo dico per captatio benevolentiae (magari un po’ si), ma proprio perché trovo un po’ strano e imbarazzante venire io da fuori a parlare di questi temi in questo ambiente, un po’ come chi pretendesse di predicare il Vangelo in Vaticano.

Credo che il motivo per cui sono stato invitato risieda nel fatto che alcuni anni fa ho collaborato a un progetto Equal (cioè un progetto finanziato dal Fondo Sociale Europeo) che aveva per obiettivo la costruzione di reti di economia sociale in Sardegna e che ha rappresentato l’occasione per Banca Etica di iniziare le sue attività nella nostra regione: e penso che raccontarvi quell’esperienza sia un modo interessante anche per presentare Banca Etica, facendola vedere in un certo senso “in azione”, e per dire come si rapporta la Banca rispetto alle reti di economia sociale, e perciò dare un contributo complementare a quello degli altri ospiti di questa tavola rotonda.

Allora, potremmo cominciare così: «Correva l’anno 2005…» e Banca Etica in Sardegna non c’era: o meglio, c’erano dei gruppi di soci ma la Banca non aveva nessuna operatività in Sardegna. Non solo: la Banca sembrava anche lontana – voi sapete che la Sardegna è “oltre il mare” e in questo senso ogni cosa che non sia direttamente sul territorio è sempre psicologicamente lontana, e a noi la Banca sembrava lontanissima, là, a Padova, fra le brume padane.

Il nostro imbarazzo era aumentato da un altro fatto. Da una parte la Sardegna è una terra che presenta, e presentava anche allora, una grande vivacità dal punto di vista dell’economia sociale: ha una grande quantità di terreni dedicati all’agricoltura biologica, per esempio, produce spesso esperienze locali innovative dal punto di vista dell’economia sociale, mantiene un interesse per la cosa pubblica, per la politica, per il governo del territorio maggiore di quello che mi dicono ci sia in altre parti d’Italia, ha delle reti culturali ed economiche significative per qualità, riflessione, impegno…

Contemporaneamente ci sono, e c’erano, anche delle grosse criticità: le esperienza anche se innovative sono spesso strutturalmente deboli, le cooperative poco capitalizzate, le reti fragili e divise, la situazione economica geneale del territorio è quella che è, c’è spesso un problema di “padri fondatori” che hanno messo su un progetto, magari molto bello, ma poi non sono capaci di aprirsi alla collaborazione con altri perché temono che nuovi ingressi possano pervertire l’ideale originale che sta dietro la fondazione e tante altre situazioni complicate.

Noi soci di Banca Etica vivevamo perciò dentro un dualismo: da una parte la sensazione che ci fosse per la Banca un territorio che presentava grosse opportunità e una forte richiesta di una finanza alternativa, dall’altro il rischio di impelagarsi in situazioni in cui emergevano tutti i limiti delle reti esistenti: c’erano quelli che si offendevano se lavoravi con l’altro, quelli che ti tiravano per la giacchetta, che ti dicevano: «Se mi dai l’esclusiva, se mi rendi in qualche modo l’agente di riferimento di Banca Etica in Sardegna, ti porto cinquanta, cento clienti» (di solito per Banca Etica quando uno viene e ti propone di portarti i suoi contatti non è un buon segnale).

La verità è che Banca Etica è in sé trasversale, noi siamo noi stessi una rete, o meglio una rete di reti, e se le nostre reti interne e quelle di riferimento soffrono anche noi ci troviamo in difficoltà. E quindi ci venne l’idea di provare a lavorare non sul lato commerciale, trovare un promotore finanziario, cose così, ma invece lavorare sulla costruzione di reti, in modo che l’insediamento della Banca sul territorio si inserisse armonicamente in una crescita del tessuto dei suoi clienti naturali, dei suoi finanziatori (soci) e in generale del territorio in cui ci saremmo trovati a operare.

Il progetto, per il quale come detto trovammo un finanziamento del Fondo Sociale Europeo che ci desse l’autonomia necessaria, si chiamava “Nuove Officine”, anzi per la precisione “Nuove Officine – la comunità di pratica per l’economia sociale, sostenibile e solidale”. Ci mettemmo tutti e tre gli aggettivi perché sappiamo benissimo che il nostro mondo qualche volta ama oltre ogni misura le etichette: e quindi ci sono quelli che si vogliono definire “sostenibili”, quelli che tengono alla solidarietà, quelli che si riconoscono nell’economia sociale… e si offendono se il loro aggettivo preferito non ce lo metti: a noi interessava lavorare con tutti e perciò elencammo doverosamente tutti e tre i riferimenti.

Il progetto prevedeva, naturalmente, un po’ tutte quelle misure, consulenza imprenditoriale, sviluppo di start up e così via che sempre si mettono nei progetti di sviluppo dell’economia sociale (e sostenibile e solidale, ovviamente). Ma il cuore del progetto era la costituzione della comunità di pratica, cioè di un ambiente di scambio di esperienze, competenze, caratterizzato da pratiche di mutuo aiuto, di collaborazione. Nel progetto per spiegarci mettemmo il riferimento alle botteghe artigiane del XV secolo, con diversi maestri che operavano insieme, ma io in realtà faccio riferimento a quando ero ragazzino, che andavamo tutti in bicicletta e poi ci ritrovavamo in un sottoscala a ripararci le biciclette: e uno ti insegnava come togliere gli anelli in più alla catena, uno ti passava un pezzo di camera d’aria o una pezzetta, anche se poi ognuno aveva la sua bicicletta, che però smontava e rimontava insieme con quelle degli altri: ecco, per me in quel sottoscala facevamo già la comunità di pratica.

Il progetto è stato molto impegnativo, ha prodotto dei risultati, al termine Banca Etica ha cominciato a operare in Sardegna e da allora è comunque un’altra storia, nel senso che certe condizioni per noi sono cambiate: le reti che abbiamo esso su in parte ci sono ancora, ma certo per noi e per loro oggi i problemi si pongono in maniera un po’ diversa. però come contributo al dibattito mi sembra più utile dirvi quattro cose che ho imparato sulle reti durante il progetto.

Non si fanno reti dall’alto

Ricordo che nel periodo iniziale del progetto andavamo in giro a dire ai nostri contatti che stavamo pensando a questa cosa e una signora di una associazione, una signora continentale venuta in Sardegna a cercare un modo di vita più sostenibile (la Sardegna è piena di queste persone venute in Sardegna a vivere vite diverse, la maggior parte delle volte è un bene, nel senso che sono spesso figure di riferimento delle reti sociali, offrono delle visioni che la realtà locale non ha, raramente sono bucanieri venuti a sfruttare gli indigeni, ma non era il caso di questa signora), a questa signora ricordo dissi: «Vogliamo fare una rete dell’economia sociale» (e sostenibile e solidale, ovviamente), e lei mi rispose: «Le reti non si fanno, non si possono fare reti dall’alto: le reti si incontrano». Era un giudizio un po’ sommario, un po’ tranchant, e ci rimasi male: anche perché alla fine nel progetto non ci volle entrare. Però alla fine del progetto in qualche modo sono d’accordo: non si possono costruire le reti per legge, come credo che stia sperimentando il percorso che state facendo a livello regionale, e non si può arrivare nei territori con l’aria da Cassa per lo Sviluppo del Mezzogiorno, che arriva su un territorio, prende e ci mette i soldi a mucchi e nascono le reti: anche in Banca Etica – a prescindere dal fatto che non abbiamo i pacchi di soldi da Cassa per il Mezzogiorno – ci rendiamo conto che se si vogliono fare progetti, se si vuole fare un lavoro che non è semplicemente quello commerciale più elementare di aprire conti correnti, rilasciare carte di credito… per fare progetti occorre mettersi insieme con gli altri su un piano di collaborazione, di parità, di apertura alle esigenze reciproche. È per questo che io in Banca sono fra quelli che premono sul tema della coprogettazione, che credo possa essere per la Banca un punto di forza e una via verso il successo di tante cose.

Non si fanno le reti per reagire alla crisi

O meglio: è chiaro che le reti offrono ai partecipanti molti vantaggi che permettono anche di reagire con più forza alle situazioni di crisi. Ma se si fa la rete solo perché si è in difficoltà, solo per risolvere i miei problemi, non si va molto avanti: perché fare rete vuol dire aprirsi agli altri, fare delle rinunce, anche pagare dei prezzi: e per far questo ci vuole una motivazione che va oltre il fatto di dover reagire a delle situazioni problematiche, come se fossimo costretti. Un po’ è questo spesso il problema: che si vuol fare rete non perché si crede nella rete, ma perché si vogliono risolvere i propri problemi, non quelli di tutti. Spesso capita che si dica: «Facciamo rete», ma si intende: «Voi dovete entrare nella mia rete» e la rete di cui si parla non è quella di tutti, ma la mia, e i problemi non quelli di tutti, ma i miei, perché poi dall’assessore a parlare ci voglio andare io, i progetti da fare insieme sono i miei… e comunque le regole devono essere le mie, come la signora di prima, che siccome la rete che facevamo non rispettava la sua visione ideologica, non c’è voluta entrare.

La rete lasciata a se stessa… decade

La terza cosa è che le reti vanno mantenute, o manitenute? spero non fare troppa violenza all’italiano, comunque intendo dire che è evidente che le reti non si mantengono da sole: occorre che ci sia chi investe in loro e lavori per farle funzionare – anche la funzione di imprenditore della rete è una funzione importante nell’economia sociale (e sostenibile e solidale) ed è una competenza altrettanto importante che quella di dirigere la propria impresa sociale, far lavorare il proprio gruppo, saper progettare… Questo l’abbiamo visto anche noi nella nostra esperienza: terminato il progetto, avviata l’attività una serie dei nostri contatti sono stati mantenuti, una serie di collaborazioni sono andate avanti, comunque le relazioni sono cresciute, ma indubitabilmente poi diverse reti che erano state messe assieme sono andate avanti un po’ di nuovo per conto loro e noi stessi, avviata l’attività della Banca in maniera regolare un po’ ci siamo distratti. Un po’ è naturale, un po’ è, non dico una sconfitta, ma almeno un elemento che deve far riflettere. La dimensione di rete, anche per le cose che ho provato a dire prima, non può mai essere data per scontata, occorre sempre ricordare che va fatto in materia uno sforzo specifico.

Nel far rete è difficile far poesia (e non è la cosa più importante)

SAMSUNGSpesso siamo abituati a far coincidere i nostri sforzi per un’economia solidale con alcuni progetti che obiettivamente sono molto belli, innovativi: per esempio come risultato di Nuove Officine venne fuori un progetto molto bello di un paese, Loceri, in cui fra cittadini, amministrazione comunale e imprenditori delle energie rinnovabili si fece un patto e venne costituito un gruppo d’acquisto per il fotovoltaico che riguardava l’intero paese (del resto, in Sardegna il sole è una grande risorsa e quello era un momento di grazia per le energie rinnovabili). Un progetto appunto molto bello, molto innovativo, che venne ripreso dalla stampa, ebbe molta risonanza… Però io sono convinto che era molto più importante, sotto certi aspetti, un progetto che facemmo di microcredito ai soci delle cooperative sociali di una zona della Sardegna per capitalizzare così le loro cooperative: perché c’erano cooperative che avevano capitali sociali bassissimi, non dico cinquecento euro, ma anche cinquanta, e con un capitale del genere non potevano partecipare a molti bandi, arrivavano le cooperative esterne, magari emiliane, e li eliminavano dal mercato. Non è molto “poetica”, come cosa, non è un impegno sulla frontiera sociale, ma è molto importante, perché è il tipo di progetto di rete che permette poi ai nodi di mantenersi e sopravvivere. È questa una riflessione che faccio anche pensando ai temi specifici della vostra tavola rotonda: come le condizioni “ambientali” possano influenzare moltissimo la vita delle singole realtà e come sia importante che le reti lavorino per migliorare questo tipo di condizioni strutturali. Sotto questo punto di vista mi permetto di fare un’obiezione a quanto ha detto Leonardo (Becchetti, NdR) riguardo al “voto col portafoglio”: si tratta di un concetto sicuramente importante, ma mi sembra che esprima una fiducia eccessiva in una specie di “mano invisibile” del mercato etico: se i cittadini sono disposti a votare col portafoglio per comprare beni del commercio equo ci saranno botteghe che lo venderanno. Non è proprio così, nel senso che, qualunque cosa siano disposti a fare i consumatori, poi dall’altra parte ci vuole qualcuno che fondi le botteghe, ci faccia volontariato, faccia le centrali di importazione, metta insieme i produttori nel Sud del mondo… e tutte queste cose sono cose che non succedono automaticamente, ma richiedono un grande sforzo, sforzo che può essere vanificato se cambiano le condizioni strutturali. Mi spiego con un esempio: presentandomi il moderatore ha detto che Banca Etica è un’esperienza estremamente di successo. È vero. Ora prendiamo in considerazione un elemento: voi sapete che una banca non può prestare più di un certo multiplo del proprio capitale sociale, diciamo che per un euro di capitale sociale noi possiamo finanziare circa venti euro di progetti sociali. Ma in realtà quel che prestiamo non sempre viene calcolato per intero: ci sono delle regole, di Banca d’Italia e a livello europeo, per le quali certi prestiti, che sono considerati meno rischiosi, non vengono calcolati per intero, qundi in pratica se facessi solo prestiti di quel tipo potresti prestare molto di più. Le cooperative, che sono il nostro gruppo di clienti più numeroso, sono considerate rischiose e vengono contate per intero: paradossalmente la Parmalat invece potrebbe essere “pesata” molto meno, sebbene finanziando cooperative noi abbiamo un tasso di sofferenze molto inferiore a quello delle banche che invece finanziano imprese che sono state coinvolte in scandali, in crac…; capite che tutto dipende da tratti di penna decisi all’esterno, e che possono radicalmente influenzare la nostra esistenza e renderci una realtà maggiormente di successo o crearci problemi: è questo un versante sul quale l’impegno delle reti, per facilitare l’esistenza delle realtà sociali, sostenibili e solidali è molto importante e rende secondo me molto singificativo il cammino che state facendo: una buona legge regionale per l’economia solidale potrà aiutare a rendere meno svantaggiose le condizioni in cui le nostre reti si trovano a operare.

Grazie dell’attenzione e ancora grazie per avermi invitato. Grazie anche per la pazienza: scusate la lunghezza.

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