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Il Muto non parla granché

Sono andato l’altra sera a vedere Il Muto di Gallura, opera prima di Matteo Fresi dal romanzo di Enrico Costa. ll film mi ha lasciato una serie di perplessità sulla sceneggiatura e così nell’ultimo paio di giorni mi sono letto anche il romanzo originale, traendone non poche sorprese e contemporaneamente ulteriori perplessità, che ora vi racconto.

Più che un romanzo, un pezzo giornalistico

Dico subito, sapendo di attirarmi qualche fastidio familiare dato che Enrico Costa è un quasi antenato, che il romanzo è orrendo, sebbene di lettura scorrevole.

Cioè, orrendo. È datatissimo e privo di qualunque valore contemporaneo se non come testimonianza d’epoca. Quello che colpisce, leggendo, è che è mediocre anche rispetto alla sua epoca: si pone consapevolmente come epigono di Walter Scott – c’è anche un tentativo consapevole di costruzione di un’epica nazionale sarda, o quanto meno di alimentare un corpus narrativo nazionale – ma questa storia di un bandito viene settant’anni dopo Rob Roy. Nel frattempo il mondo è andato avanti e apparentemente Costa non si è accorto che sotto i ponti della letteratura è passata un sacco di altra roba: Il Muto è praticamente contemporaneo de Il ragazzo rapito di Stevenson e de I Malavoglia, e non è in grado di misurarsi in nessun modo con questi due, non solo sul piano direttamente letterario ma neanche sul versante dell’indagine storica o su quello dell’analisi sociale contemporanea o quasi-contemporanea. Di più: nello stesso anno Salgari pubblica La tigre della Malesia, e sebbene stile di scrittura e un certo gusto documentaristico – e per l’esotico, anche se reperibile dietro casa – siano simili, Salgari ha una capacità di scrivere avventura e di appassionare che Costa, semplicemente, non ha.

Soprattutto, anche facendo la tara alla forma del romanzo ottocentesco, che non sempre è quella che noi consideriamo canonica, si fa fatica considerare Il Muto di Gallura propriamente un romanzo storico: è piuttosto un esercizio semi-giornalistico, una cronaca in cui il narratore si concede ogni tanto il vezzo di provare a interpretare i sentimenti e i moti dell’animo dei protagonisti ma è in realtà più interessato a mettere in fila gli avvenimenti e le interpretazioni e ciò che questi avvenimenti e le opinioni di coloro che glieli hanno raccontati rivelano del carattere degli abitanti di Aggius e dei galluresi in generale, con uno sguardo che è sempre esterno, quello dell’uomo borghese e civilizzato che osserva quel Sud primitivo, istintivo e violento che allora si andava inventando – come ho raccontato parlando di Grazia Deledda.

Riflettevo, in un momento in cui ero un po’ più stufo della lettura, che il fatto che Il Muto abbia avuto tanto successo ricorda quanto fosse provinciale e di vedute limitate il grande pubblico dei lettori italiani nelle sue varie declinazioni regionali, e contemporaneamente quanto stratificato fosse: c’era chi leggeva Zola in traduzione, chi seguiva l’ultima tendenza verista, chi amava il sensazionalismo di Verne e Salgari e un buon numero di presunti eruditi che leggeva Costa: saranno gli stessi, o i loro figli, che decreteranno a Sem Benelli un successo maggiore di quello di Pirandello.

Il materiale narrativo

Riassumo, perché ci servirà fra un attimo, i blocchi narrativi messi in fila da Costa nel libro: una prima parte presenta i vari personaggi e l’infanzia del Muto; la seconda racconta il fidanzamento andato a male fra Pietro Vasa e Mariangela Mamia, la conseguente inimicizia fra la famiglia Vasa e i Mamia-Pileri, la faida e la sua conclusione; la terza parte riporta in scena il Muto – cancellando sostanzialmente tutti gli altri personaggi – e ne presenta la tormentata relazione con la giovane Gavina, fino alla conclusione tragica; la quarta parte tira le fila del destino dei personaggi: la cosa interessante è che Costa, sinora così prodigo di informazioni, a questo punto non dice nulla di esplicito né sul destino di Pietro Vasa che su quello del Muto; dice e non dice, suggerisce, costruisce scene suggestive che sembrano puntare il dito in certe direzioni e che probabilmente dovevano risultare chiarissime per quelli fra i suoi lettori che sapevano – o credevano di sapere – cosa fosse realmente successo ma che restano piuttosto misteriose per il lettore normale.

Un film impegnativo

La prima cosa che colpisce della versione cinematografica è l’impegno produttivo, che mi sembra molto maggiore di altri film recenti ambientati in Sardegna: è un lavoro che apparentemente punta a confrontarsi con un mercato ampio, forse addirittura globale, e che vuole attestarsi su standard di qualità di buon livello anche in termini di spettacolarità.

La messa in scena raggiunge così risultati notevoli: sono ottimi i costumi; buona e molto curata la scenografia – che curiosamente si avvale giusto il necessario degli straordinari paesaggi a disposizione; buonissima la fotografia; per niente banale, per quanto alla moda, la scelta della recitazione in gallurese.

La lettura del romanzo mi ha permesso di rendermi conto retrospettivamente che Il film è molto lavorato anche in aspetti che saltano meno all’occhio: per esempio ho visto che la sceneggiatura ha consapevolmente preso il materiale narrativo di Costa e l’ha tradito, non tanto nell’eliminazione della prima parte riguardante l’infanzia del Muto, quanto nella costruzione di un finale tutto interno al rapporto fra lui e Pietro Vasa e nella ideazione di un meccanismo narrativo – non dico quale per non rovinare sorprese – da tragedia greca e da destino cinico e baro che gioca con gli uomini per rovinarli, correggendo così la piattezza del racconto dell’epilogo da parte di Costa. È una scelta valida perché lega meglio la prima parte – la faida – con la seconda – il Muto e Gavina – e dà continuità al personaggio di Pietro Vasa dandogli un ruolo lungo tutto l’arco narrativo del film. Va in questo senso anche la scelta di anticipare alcuni degli eventi riguardanti la relazione amorosa a momenti precedenti, quando la faida è ancora in corso.

Non è che, pur così costruito, il film non scricchioli. Intanto la colonna sonora è un po’ strana, non tanto perché mischia sonorità moderne e tradizionali, quanto perché non riesce a unificare le scelte musicali dando così più struttura al racconto, e un po’ risulta dispersiva e un po’ rafforza la sensazione della presenza di fessure nascoste. Una contraddizione simile sta nella recitazione: è inutile scegliere di far recitare gli attori in gallurese, se poi alcuni di loro declamano le battute in maniera teatrale e assolutamente antinaturalistica – certe volte l’effetto sembra quello di certe versioni di Shakespeare, con gente moderna che parla in rime seicentesche. In questa oscillazione fra verismo e maniera anche la costruzione di qualche scena – in una regia in cui invece la camera si muove con molto sicurezza – è un po’ spiazzante, e sembra portarci talvolta fra i famosi highlander galluresi per poi precipitarci fra i desperados della Sierra di Trinità d’Agultu.

Non sono peccati gravi. Più gravi, invece, sono i difetti di sceneggiatura.

Ora, lo dico a scanso di equivoci: mi ha fatto piacere vedere Il Muto di Gallura e sono contento che sia stato fatto un film in costume con questi toni avventurosi, per la Sardegna e per il cinema italiano. Ho però l’impressione che rimanga un’opera tutto sommato un po’ incompleta e, in realtà, non indimenticabile.

Intanto, il film non passa il criterio Veneruzzo, ed è già un cattivo indizio, ma soprattutto non mi pare che abbia, alla fin fine, sufficiente tensione drammatica. I personaggi non sono particolarmente approfonditi, anzi sono complessivamente monodimensionali con l’eccezione della madre di Gavina, che comuque rientra nello stereotipo della matrigna intrigante; la strage prolungata non fa impressione, in molti casi quando muore uno non sai neppure esattamente chi sia. Anche qui si è proceduto a integrare e sostituire Costa, che alla faida dedica in tutto una quarantina di pagine, meno di un terzo del libro, mentre nel film l’impressione è che questi avvenimenti occupino due terzi del totale, anche se alcuni fatti della storia fra il Muto e Gavina vengono anticipati rispetto al romanzo: uno sforzo importante, che però non corrisponde né a una resa spettacolare né a quel crescendo di tensione che i fatti giustificherebbero; in realtà, il risultato finisce per dare ragione a Costa, che vedeva la faida come semplice sfondo storico per raccontare quello che gli interessava, cioè il triangolo sentimentale: anche nel film questa è la parte più interessante, almeno da quando la madre comincia a tessere i suoi intrighi, ma è una parte alla fin fine piuttosto breve.

Di fatto la vicenda vive di due nuclei narrativi: la faida – che dà colore locale e ambientazione – e la storia d’amore sfortunata, che dà l’interesse drammatico. Costa correttamente individua questa seconda parte come quella principale, ma si dimentica di dargli un finale o un senso, e la trasforma in semplice fatto di cronaca nera. La sceneggiatura, giustamente, valuta che il trattamento di Costa non aveva né arte né parte e decide di strutturare i due nuclei come un tutto unitario, ma enfatizzando la faida finisce per affogare il film nel colore locale dimenticandosi il dramma.

Andando via, un po’ perplesso, mi chiedevo: «Ma quale sarà il senso di questo film? Cosa avrà voluto dirci il regista? Cioè, perché ha voluto farlo?». Non sono riuscito a darmi una risposta. Come il suo protagonista, alla fine il film è rimasto muto.

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