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Quel che non sappiamo sulle stragi e non solo

Tempo fa ho salvato il riferimento a un articolo sull’Harvard Public Health Magazine, la rivista dell’Università di Harvard sui temi della salute pubblica. Mi ha colpito molto perché aveva un approccio particolarmente problematico al tema delle stragi compiute negli Stati Uniti con armi da fuoco. Visto che negli ultimi giorni sono avvenute nuove stragi, mi è sembrato utile tradurlo. Vi invito a leggerlo, credo lo troverete sorprendente (e, personalmente, purtroppo sono scettico sulla conclusione consolatoria, anche considerando che l’articolo è del 2016).

Solo due note di traduzione: si fa spesso uso del termine gun violence, che può indicare “violenza mediante le armi da fuoco” o, come ho preferito scrivere io, rendendo un po’ più esplicita l’espressione, “violenza causata dalle armi da fuoco”; per evitare appesantimenti, ogni tanto ho eliminato “da fuoco” quando veniva ripetuto troppe volte. E dove leggerete USA l’articolo originale diceva “America”.

Cos’è che non sappiamo riguardo alle cause della violenza prodotta dalle armi? Praticamente tutto

David Hemenway

Orlando. Newtown. San Bernardino. Charleston. Aurora. Colombine.

I nomi da soli evocano l’orrore e il sentimento di paralisi che riguardano la violenza causata dalle armi negli Stati Uniti. Ma per quanto strazianti, né i nomi né i titoli dei giornali né l’infinita ripetizione dei filmati trasmettono il vero onere imposto dalle armi da fuoco. Nessun’altra nazione ad alto reddito al mondo si avvicina al tasso di mortalità da armi da fuoco negli USA. Nel 2014, l’anno più recente per il quale sono disponibili statistiche pubbliche, 33 599 persone sono state uccise con queste armi.

Il tasso di omicidi con armi da fuoco negli Stati Uniti è venticinque volte superiore a quello degli altri paesi ricchi; per i giovani nella fascia dai quindici ai ventiquattro anni, il tasso è quarantanove volte superiore. Il tasso di suicidi commessi con armi da fuoco è di otto volte superiore. Questi tassi di mortalità sproporzionatamente più alti non riflettono il posizionamento globale degli USA per quanto riguarda gli omicidi nel complesso (centododicesimi nel mondo) o nei suicidi (cinquantesimi). Mentre i tassi complessivi di mortalità da armi da fuoco in altri paesi ricchi sono diminuiti negli ultimi anni, i tassi negli Stati Uniti sono rimasti invariati.

David Hemenway, docente di politiche sanitarie all’Harvard Chan [l’Harvard T.H. Chan School of Public Health, uno delle più prestigiose facoltà statunitensi di igiene e politiche per la salute, NdRufus] e direttore del Centro per la Ricerca sul Controllo della Violenza a Harvard, studia la violenza causata da armi da fuoco dall’inizio degli anni ’90. Nell’ultimo quarto di secolo, dice, poco è cambiato nella discussione pubblica sulla violenza armata. «Raramente abbiamo discussioni sulle armi da fuoco negli Stati Uniti», dice. «Abbiamo controversie». Ha parlato di recente con Madeline Drexler, redattrice della nostra rivista. Quelle che seguono sono alcune delle sue osservazioni.

«Quando i giornalisti mi chiamano per una qualche questione che riguarda le armi da fuoco, posso dire loro alcune cose. Ma quando insistono, non posso dir loro molto di più. Posso solo dire: «La mia opinione è questa, e sembra fondata, ma non ci sono buoni studi [in materia]». Cosa sappiamo per certo? Solo poche cose. Sappiamo che un’arma in casa aumenta il rischio di suicidio: le prove scientifiche sono schiaccianti. Sappiamo che un’arma in casa aumenta il rischio che qualcuno in casa venga colpito accidentalmente. E una serie di studi mostra in modo molto persuasivo che le armi aumentano il rischio che una donna in casa sia assassinata. Questo ha senso, perché le donne di solito vengono uccise in casa e spesso vengono uccise dall’arma del marito o del loro amante o del loro ex amante: è l’arma dell’uomo, praticamente sempre.

Credo che le recenti tragedie in prima pagina – le uccisioni di massa, le uccisioni da parte della polizia, le uccisioni di poliziotti – siano fortemente influenzate dalla disponibilità di armi da fuoco e da una debole legislazione in materia. Abbiamo condotto uno dei pochi studi riguardo ai poliziotti uccisi in servizio. Abbiamo scoperto che una percentuale maggiore di poliziotti viene uccisa in alcuni stati rispetto ad altri e che il fattore chiave non sono i livelli di criminalità, ma la disponibilità di armi da fuoco. Quando un agente viene ucciso, viene uccisa da un’arma da fuoco. Spesso vengono uccisi durante le chiamate per emergenze domestiche. Se la casa si trova in uno stato come il Massachusetts, dove poche persone possiedono armi da fuoco, ci sono urla e insulti e alcol, ma i poliziotti non sono particolarmente in pericolo di essere uccisi a colpi di arma da fuoco. Negli stati in cui la maggior parte delle famiglie possiede armi, i poliziotti sono a un rischio maggiore di essere uccisi.

Sappiamo di gran lunga troppo poco di quasi ogni singola questione particolare riguardo alle armi da fuoco. Non sappiamo se il bando federale delle armi d’assalto – è durato solo dieci anni, dal 1994 al 2004 – abbia avuto alcun effetto sulle uccisioni di massa. Non conosciamo l’effetto della maggior parte delle singole leggi sulle armi, in parte perché l’effetto è probabilmente piccolo, dal momento che le leggi sono spesso così poco incisive o piene di scappatoie.

Per quanto riguarda gli omicidi, sappiamo che una pistola in casa fa male alle donne, ma fa male agli uomini? Ci sono pochi studi convincenti. Mentre le donne vengono solitamente uccise a casa, spesso con la pistola che è in casa, gli uomini vengono principalmente uccisi fuori casa, con la pistola di qualcun altro. Il che porta alla domanda: qual è l’effetto del portare una pistola nascosta o delle leggi che permettono il porto d’arma nascosto? Se vado in giro con una pistola nascosta, questo mi mette a rischio minore perché posso difendermi o a rischio maggiore perché mi metto in situazioni più pericolose? Non lo sappiamo.

Ci mancano buoni dati sulle sparatorie non fatali. Sappiamo molto poco sul furto di armi da fuoco o sull’addestramento all’uso delle armi, sui modi di conservare le armi o sui comportamenti dei negozianti di armi, sull’effetto delle armi da fuoco nei campus universitari o sulla presenza di armi al lavoro. La lista potrebbe continuare all’infinito.

C’è una carenza di ricerca perché c’è una carenza di fondi. I Center for Disease Control and Prevention [gli stessi CDC molto citati durante la pandemia, NdRufus] hanno in gran parte chiuso le linee di finanziamento per la ricerca sulle armi di piccolo calibro a partire dal 1996, quando la National Rifle Association ha convinto il Congresso a tagliare i finanziamenti dell’agenzia se l’agenzia avesse fatto qualcosa che la lobby delle armi avrebbe potuto interpretare come promozione del controllo delle armi. Il National Institute of Health [Istituto Nazionale di Sanità, NdRufus] ha finanziato poco la ricerca sulle armi. Il National Institute of Justice [si tratta dei due centri ricerca pubblici parte, rispettivamente, del Ministero della Salute e della Giustizia] ne sostiene solo una minima parte. Le fondazioni private non si sono fatte avanti. Nessuno vuole farsi carico della grana. Questa mancanza di fondi colpisce duramente gli istituti di ricerca che non hanno grandi risorse finanziarie proprie, come noi.

È ovvio che se non ci fossero problemi di salute mentale, se nessuno avesse problemi di gestione della rabbia o alcolismo, avremmo meno violenza. Se avessimo meno povertà e disuguaglianza, avremmo meno violenza. Se non avessimo tensioni razziali, avremmo meno violenza. Se avessimo migliore istruzione e migliore genitorialità, avremmo meno violenza. Ma il fatto è che abbiamo anche un problema con le armi da fuoco.

Basta guardare a un qualsiasi altro paese sviluppato. Ottengono risultati molto migliori dei nostri nel prevenire la violenza legata alle armi da fuoco. Non è che abbiano meno problemi di salute mentale o meno videogiochi violenti o meno decadenza morale. Non è che siano meno violenti o meno portati al crimine. È che con leggi sulle armi più severe – con controlli dei precedenti penali nei confronti di chiunque e periodi di attesa e talvolta anche notificando a un coniuge o ex coniuge che qualcuno sta progettando di ottenere una pistola – hanno reso molto più difficile per le persone sbagliate accedere alle armi.

Una volta era abituale che dopo una sparatoria di massa, ad esempio Columbine, io ricevessi telefonate dai giornalisti per due giorni. Poi non avrei avuto notizie di nessuno sino alla successiva sparatoria di massa. Ora i giornalisti mi chiamano e mi mandano mail continuamente: «Sto facendo questo articolo su questo aspetto del problema delle armi da fuoco. Cosa dice la scienza?». Per lo più dico loro: «Beh, c’è uno studio e non è esattamente sulla questione, ma almeno è qualcosina». È frustrante non avere i dati, ma sono incoraggiato dal fatto che la copertura mediatica tenga il ritmo. I giornalisti restano sul pezzo. La prevenzione della violenza causata dalle armi da fuoco non è un concetto nuovo, ma è finalmente considerata una novità».

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