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Ho letto da poco l’ultimo numero di Medea, cioè

Medea è la rivista internazionale di studi interculturali peer-reviewed e open access del Laboratorio “Xenoi: pratiche, immagini, parole” dell’Università di Cagliari e del Laboratorio “Valdrada” dell’Università di Perugia,

una rivista che è interessante non solo per i contenuti (con una costante riflessione sul tema dell’altro del quale di questi tempi c’è molto bisogno) ma anche per il metodo: distribuita in Creative Commons, in forma digitale ma indicizzata e peer reviewed, per esempio.

Quest’ultimo numero mi ha molto intrigato perché, rispetto al solito, esplorava pezzi di narrazioni popolari che mi sono ben noti: due articoli su L’Eternauta (cioè: uno su L’Eternauta e uno di Bepi Vigna sulla figura dell’alieno nella storia del fumetto, dove però del lavoro di Oesterheld e Solano López si parla ampiamente), un testo su Clifford D. Simak, uno su Battlestar Galactica, uno su La svastica sul sole di P.K. Dick e uno su Corto Maltese.

Sono in realtà contributi di diverso valore, come ho scoperto quando, esasperato, mi sono chiesto ad alta voce: «Ma a Bepi Vigna non gliele rivede mai nessuno, le bozze?», e mi sono accorto che tre degli articoli citati erano inseriti nella sezione soggetta a peer review e gli altri (fra cui, appunto, quello di Vigna) erano invece contributi dal taglio più libero.

È stata comunque una lettura piuttosto interessante e però, al contempo, un filo disorientante. Molti dei contributi, infatti, esibiscono contemporaneamente una discreta erudizione sul soggetto che affrontano ma, insieme, segnano una distanza che fa pensare a una conoscenza settoriale dell’argomento (oppure quasi come se, per capirci, avessero letto libri sui fumetti e romanzi ma non direttamente le opere). Non sembra, cioè, che siano cose scritte da appassionati del genere: per dire, quando parlando di Battlestar Galactica si dice che è ritenuta la migliore serie fantascientifica di sempre non sembra che l’autore stia facendo appello anche (anche, non solo) a un proprio gusto personale che convalida l’affermazione, o a una sua conoscenza diretta dei possibili concorrenti per il titolo o insomma a una passione per la fantascienza. Intendiamoci: non sto facendo il fan che strepita perché non viene citata Firefly, ma registro nell’affermazione gettata là in maniera un po’ incongrua una specie di campanello d’allarme che fa sospettare – ovviamente non so come stanno davvero le cose – che in fondo all’autore, nell’analisi di Battlestar Galactica, manchi un zinzino in più di comprensione del contesto, che forse avrebbe reso l’analisi migliore.

È in realtà una sensazione che si ripete: l’analisi de La svastica sul sole/L’uomo nell’alto castello, che è peraltro rigorosissima e perfino avvincente, però appare curiosamente incapace di aprirsi al collegamento col resto della produzione di Dick. È chiaro che si tratta di un articolo dal taglio specifico che non può parlare di tutto, ma c’è più di un punto nel quale il lettore si aspetta che l’autore faccia il collegamento con altri romanzi o racconti, per sottolineare ovvie somiglianze o differenze, e invece, curiosamente, si ferma giusto un attimo prima e si astiene.

Oppure l’analisi del Corto Maltese e delle sue suggestioni esotiche – che pure è ricca di dati biografici della vita di Hugo Pratt – sembra sottovalutare quanto egli si ponga consapevolmente dentro il filone dell’Avventura (con la A maiuscola come direbbero alla Sergio Bonelli Editore) e quanto avesse presenti gli autori classici del genere. Per esempio, dire di Anna della Giungla

Il racconto, che si svolge temporalmente tra il 1913 e il 1914 nei suggestivi scenari dell’Africa orientale britannica, pur essendo sostanzialmente una rivisitazione di un ampio e diffuso insieme di stereotipi narrativi, è da considerare uno dei primi tentativi di messa in discussione degli schemi narrativi di matrice coloniale in uso fino ad allora

non regge se invece si sa quanto forte fosse l’influenza di Kipling e Conrad nelle redazioni dei fumetti dell’epoca – per la Ballata andrebbero citati anche Stevenson e Melville – e quanto la scrittura di Pratt si ponga in continuità e non in contrasto con quegli autori e con altri minori come Fenimore Cooper e Zane Grey, per non parlare dei risultati di tutto l’incrocio fra fumetto popolare americano e rivistine pulp, che in Argentina – lavorando fra l’altro con autori di sinistra certamente anticoloniali come Oesterheld e Breccia – Pratt aveva dimostrato di padroneggiare completamente. Cioè, esattamente di quali schemi narrativi di matrice coloniale stiamo parlando?

Sono solo un paio di esempi fra diversi possibili; non sono critiche, in realtà, nel senso che a parte quello di Vigna sono tutti contributi acuti che comunque spingono a rimettere mano ai testi per cercare conferme e smentite o aprono a nuove letture. Casomai segnalano un certo deficit di osservazione partecipata, e anche una certa distanza fra il mondo dei fruitori “forti” interessati a consumi ampi di queste narrazioni popolari e il mondo accademico, più attento al carotaggio specifico solo di quello che è funzionale alla ricerca (ci aggiungerei la critica, come terzo mondo a sua volta distante dagli altri due).

Alla fine della lettura del fascicolo mi sono chiesto, e come presidente dei Fabbricastorie non potevo non chiedermelo, come si potrebbe ridurre questo tipo di distanza: sui giochi la presenza di studiosi in posizione di osservatori partecipanti è stata per molto tempo assai significativa, ma mi chiedo se negli ultimi tempi la distanza non sia di nuovo aumentata e se associazioni come la nostra non dovrebbero battere un colpo.

È una bella domanda: qual è il luogo, fisico o virtuale, dove questi saperi – quello dell’appassionato, del critico, dello studioso – possono incrociarsi?

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