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I loop di Ai Weiwei

Durante la recente trasferta natalizia toscana (uno degli eventi più umidi della mia vita) sono andato con Maria Bonaria e l’Inossidabile a vedere la mostra Libero a Palazzo Strozzi, una personale piuttosto ampia dedicata a Ai Weiwei, un artista contemporaneo cinese del quale non sapevo praticamente nulla – salvo che una rapida ricerca sul web lo definiva uno dei più importanti artisti contemporanei.

E quindi caspita, ci andiamo. Palazzo Strozzi ci appare così:

a incorniciare le finestre rinascimentali i canotti di salvataggio che vogliono ricordare i migranti del Mediterraneo, una ripresa di una installazione simile di Berlino (e secondo me più bella), dove aveva usato giubbotti di salvataggio attorno alle colonne:

E già è una partenza niente male.

Della mostra non dirò nulla, se non che ha conquistato interamente me e Maria Bonaria che ne consigliamo largamente la visione, se appena possibile (resta fino al 27 gennaio, mi pare). Sorprende di Weiwei la straordinaria varietà di mezzi espressivi e, non so che altra parola usare, il genio puro e debordante, la visione che si apre a focalizzare cose che altri non riescono a concepire. D’altra parte mi mancano i mezzi, mi rendo conto, per una analisi appena solo un po’ più critica, quindi mi fermo: sono conquistato ma muto.

L’Inossidabile è stata solo un pelo meno conquistata, perché Ai Weiwei, quel mascalzone, fa cose così (nel 1995):

L’urna che si frantuma al suolo, chiariamolo, è un’urna del periodo Han, cioè di 2000 anni fa. E l’Inossidabile ha fatto un balzo e questo sfascio lei, che è ligia al dovere e alle gerarchie, non la può proprio accettare.

D’altra parte già al momento in cui ho visto le foto mi sono chiesto come faceva, Weiwei, a possedere un’urna Han, e due didascalie prima avevo letto qualcosa sull’enorme disponibilità in Cina di pezzi di antiquariato anche molto pregiati, dopo la dissoluzione di molto del patrimonio artistico durante la Rivoluzione Culturale. «Se non frega a voi», mi pare voglia dire, «perché dovrebbe fregare a me?».

Ho scoperto però dall’ottimo sito della Royal Academy of Arts (una buona presentazione di Weiwei in italiano invece sul sito del Manifesto) che le cose possono non essere così lineari (ammesso che già lo siano) ma che si aprano a circonvoluzioni più complesse:

Stava sacrificando un’urna per un bene più grande, evidenziando ciò che avviene quotidianamente al patrimonio culturale cinese? O ci stava domandando a cosa diamo valore? «Voi credete a ciò che vedete perché vi dice che è un’urna della Dinastia Han – ma vi dice anche che i falsi sul mercato sono tanto buoni che non si può essere in grado di distinguere», fa notare un curatore. «Le tecniche per produrre una falsa urna Han sono probabilmente identiche a quelle originali, quindi fa veramente la differenza?». Fake [falso, Ndrufus], incidentalmente, è il nome che ha scelto per il suo studio di architettura e design.

Con un tocco malizioso, i lavori di Ai Weiwei sono spesso mischiati a verità inafferrabili.

In realtà una volta che l’arte comincia a cortocircuitare la realtà, non si finisce più. Leggo che nel 2014 Weiwei ha esposto a Miami una sua opera (c’era anche a Palazzo Strozzi) nella quale un certo numero di “urne Han” era stato immerso in vernice da carrozziere:

Un artista locale, per protestare contro il museo, ha preso una di queste urne e l’ha spaccata. Come Ai Weiwei?

Secondo me no, però vedo che ci sono celebrati critici (sia in Italia su Art Tribune che all’estero sul Guardian – sul New Yorker un punto di vista diverso e interessante) che partono per la tangente, quindi la cosa che trovo notevole è la capacità dell’arte contemporanea di mandare in corto il pubblico in questo modo, ripetutamente.

Un po’ come la storia di quelli che al museo hanno trovato un paio d’occhiali per terra e hanno creduto che fosse un’opera d’arte. No, era uno scherzo e non un’opera d’arte. Quindi era uno sberleffo situazionista e quindi, cortocircuito!, era davvero un’opera d’arte. Fossero invece stati solo dimenticati lì non era un’opera d’arte, ma lavorare su queste distinzioni fa dimenticare la cosa più importante: perché diamine lo fotografavano? Che senso ha, esporre in un museo Merda d’artista, che era prodotto proprio per deridere le esposizioni? E venderlo all’asta, quando era un atto di protesta contro la mercificazione del valore dell’arte?

È la società dello spettacolo. Da venirti il mal di testa. Il modo geniale e assolutamente, profondamente, razionalissimamente studiato di Weiwei di gestire questi loop non è, credo, l’aspetto più significativo della sua arte, ma certo quello che mi ha colpito di più.

In un altro di questi cortocircuiti, piuttosto simile alla citata scatoletta di Manzoni, mi sono imbattuto quasi alla fine: fra le altre cose Weiwei è l’autore di una collezione di foto nelle quali fa il gesto noto in inglese come flip the bird e in cagliaritano stretto come fare il ghigno davanti a celebri monumenti:

Una cosa che va, a secondo dello sfondo, dallo sberleffo al grido di protesta vero e proprio.

Come sanno tutti è roba abbastanza simile a ciò che oggi all’epoca di Instagram si vede comunemente, talvolta anche con risultati interessanti come il Murad Osmann di Follow me, solo che magari il pubblico non conosce la fonte di ispirazione, precedente di una decina d’anni:

Follow me

Orbene, in occasione della mostra di Palazzo Strozzi Weiwei ha aggiunto alla serie una nuova immagine nella quale fa il ghigno anche a Palazzo Strozzi. E i curatori della mostra, doverosamente, lo facevano notare nel ricco corredo didascalico che accompagna le opere.

Come fosse un grande onore.

Gli ha fatto il ghigno.

Ah, beh, allora…

Se non fosse che, con tutta evidenza, se Weiwei sbeffeggia (o insulta) Palazzo Strozzi, allora sbeffeggia (o insulta) un museo che, guarda caso, ospita le sue opere, e quindi sbeffeggia (o insulta) anche se stesso.

Da venirti il mal di testa. L’ho già detto. Ma un mal di testa geniale e assolutamente, profondamente, razionalissimamente studiato.

Poi tutto il resto è semplicemente bellissimo.

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