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Lo straordinario fenomeno

The Beatles – Eight days a week (Ron Howard, USA 2016)

Ho visto l’altro giorno The Beatles – Eight days a week, il documentario dedicato da Ron Howard ai primi anni di vita del gruppo, anni in cui il successo montava in maniera enormemente crescente e in cui il grosso della vita dei Beatles si svolgeva sul palco: l’effetto combinato di essere “un fenomeno” e di un contratto discografico per il quale il grosso del loro guadagno veniva non dalla vendita dei dischi ma dai concerti dal vivo li ha portati, dal ’62 al ’66, a un ritmo di vita frenetico: concerti quasi tutti i giorni, spesso con lunghi viaggi di trasferimento, e poi interviste, servizi fotografici, comparsate alla radio e in TV, due film, e così via – una media, dice a un certo punto Ringo, di quattro o cinque impegni al giorno.

E in più continuare a entrare, appena possibile, in sala d’incisione: un nuovo disco ogni tre mesi, un nuovo album ogni sei.

Sono ritmi che puoi reggere quando sei molto giovane, e che ti consentono di continuare ad avere successo se sei molto bravo. E queste sono due delle cose che emergono con più forza dal film: i Beatles del ’62 sono davvero giovani, visti nei filmati, molti davvero bellissimi, e nelle foto d’archivio che il film distribuisce a piene mani. E sono freschi: spiritosi, arroganti come solo i giovani possono esserlo, brillanti, sprizzano energia creativa da tutti i pori e quella sorta di ingenuità che emerge quando stai vivendo una cosa davvero grande per la prima volta nella tua vita.

L’altro elemento che il film sottolinea è quanto fossero bravi: lo rende evidente anche per me, che sono di un’altra generazione e ho cominciato ad ascoltare musica quando degli anni ’60 rimaneva solo un’eco, ben presente ma ormai affievolita. Dei grandissimi uomini di spettacolo e dei grandissimi musicisti, con tanti saluti a gruppi considerati molto più musicalmente preparati (non voglio aprire qui guerre di religione…).

Il film segue questo gruppo di giovani geni moderatamente iconoclasti (a un certo punto qualcuno fa esplicitamente il paragone con Mozart) cercando – e fallendo – di rendere ragione della risonanza davvero globale che la loro vicenda ebbe. La misura straordinaria del successo è evidente per lo spettatore, molto meno le sue motivazioni; e sebbene vengano presentate una serie di interviste di persone ora famose che all’epoca erano fan adolescenti dei Beatles, la dimensione del perché piacessero – perché piacessero così tanto, quali meccanismi di identificazione fossero scattati – resta sostanzialmente inattingibile: qualcosa suggerisce forse Elvis Costello, un attimo di passaggio, molto meno tutti gli altri (con tra gli altri una Whoopy Goldberg impegnatissima a vendere soprattutto se stessa e a inventare mitologie).

Le interviste rafforzano però l’aspetto intimo del film, i lampi di introspezione che ci sono offerti, le storie di fatica, sofferenza, ambizione, affermazione, desiderio, frustrazione, talento, stima di sé di John, Paul, George e Ringo di cui è intriso il racconto sono straordinariamente rafforzati dalle storie autobiografiche dei loro fan di un tempo. E questa dimensione autobiografica sostiene in maniera efficace l’impianto narrativo del film, che è molto classico: c’è l’affermazione dell’eroe, le sue imprese straordinarie, il suo declino e la sua rinascita; la tesi del film è che i Beatles erano dei geni giovanissimi provvisti di un vitalismo straordinario che profondevano a piene mani in una sintonia misterica coi loro fan; che poi sono cresciuti e diventati maturi, e i loro fan con loro; ma che il tour continuo al quale si sono sottoposti per quattro anni alla fine è diventato un mostro che poteva divorarli – il tour, badate bene, non il successo, non i rivolgimenti della seconda parte degli anni ’60, non il conflitto sociale – e che essi hanno sconfitto trovando nuova libertà nella decisione di non esibirsi più, mai più, ma di lavorare solo in sala d’incisione (l’immagine dell’ultimo concerto, sul tetto degli studios, è bellissima e potentissima).

La tesi è posta con forza: pur non essendo un esperto dei Beatles ho in merito più di un dubbio, ma la forza con cui è posta, la ricchezza di informazioni, di immagini, di suoni, le domande che il film suscita rendono Eight days a week un film davvero prezioso.

E poi c’è un’altra cosa. La musica.

Diceva l’amico con cui sono andato al cinema, alla fine: «Saranno stati almeno vent’anni che non ascoltavo così tante canzoni dei Beatles tutte assieme».

Vale anche per me. E mi è dispiaciuto di aver fatto passare così tanto tempo.

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