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L’eversivo Oscar Wilde a Oggi parliamo di libri

La puntata di Oggi parliamo di libri dedicata a Oscar Wilde e al suo L’importanza di chiamarsi Ernesto si poneva in diretta continuità con quella su Eugène Scribe e la commedia ben fatta, a costo di fare un salto temporale di diverse decine d’anni, tralasciando molti altri autori e quasi abbandonando il XIX secolo.

Ma mi interessava, seguendo la linea di riflessione che mi ero data sul teatro dell’Ottocento come teatro borghese, far vedere la sovversione che Wilde compie dall’interno di quel modello (e dei valori della borghesia che vi sono contenuti), mettendo anche all’opera un’ironia e una cattiveria certo molto più corrosive di quelle di Scribe.

Rispetto a questi obiettivi l’andamento della puntata, come sentirete, non è molto soddisfacente anche se magari (non spetta a me dirlo) sono quindici minuti comunque piacevoli: ma, avendo riletto la commedia esattamente la mattina dello stesso giorno nel quale ho registrato la puntata, ero ancora sotto l’effetto ipnotico di Wilde e mi sono fatto trascinare dalla voglia di far capire quanto piacevole sia la lettura (o assistere allo spettacolo) e ho perso un sacco di tempo fra bamburismi e accenni alla trama.

L’importanza di chiamarsi Ernesto – Oscar Wilde

Alla fine quello che volevo fosse il centro della puntata è rimasto confinato agli ultimi due minuti e, come avrete sentito, nella fretta un po’ di cose sono saltate.

Ripensandoci, sarei dovuto partire come previsto da Scribe e da come Wilde ne irrida i meccanismi teatrali: avevo pensato di citare la scena di Amadeus nella quale Mozart di fronte a un inebetito Salieri prende un pezzo musicale di quest’ultimo e, ritoccando qui e là, lo trasforma in qualcosa che non è più solido mestiere ma genio purissimo

e così fa Wilde, mettendo a nudo tutti i raffinati meccanismi a orologeria di Scribe, rimontandoli in maniera molto più perfetta e facendoci vedere, però, che dietro a tutta questa perfezione alla fin fine non c’è nulla, una volta che i meccanismi sono rivelati. A cerchi concentrici questa irrisione eversiva, questo mettere a nudo spietato e geniale poteva allargarsi alla critica di costume così tipica della commedia (e anch’essa eminentemente fine a se stessa, secondo Wilde) per arrivare alla fine a spiegare quell’idea di «critica a 360°» che non perdona nessuno che ho menzionato nella puntata e alla quale, forse, si poteva aggiungere perfino l’autocritica di Wilde nei confronti di se stesso: ho letto da qualche parte che c’è chi sostiene che earnest era, in codice, un’espressione usata per indicarsi l’un altro fra omosessuali e che quindi dietro le convenzionali storie d’amore esse in scena c’era forse un ulteriore significato riposto, che vi faceva intuire altri tipi di rapporti amorosi: secondo questa interpretazione Wilde nella commedia sta, ovviamente in maniera imprudente e potenzialmente rovinosa, mettendo a nudo anche se stesso e giocando anche con l’inutilità e la vacuità dei propri codici.

Tutto questo l’ho molto riassunto in appena due minuti, però l’avevo in mente e, anche in riferimento al possibile significato in codice di earnest, è su queste basi che mi sono chiesto dove sarebbe andato a finire Wilde se non fosse stato fermato e rinchiuso nell’inferno del carcere di Reading: una lettura moralista sarebbe quella di pensare che in fondo la sua enorme capacità di rivelare la vacuità totale di tutto ciò che lo circondava – teatro, affetti, morale sociale, classe dirigente e anche abitudini del proprio gruppo di riferimento – celasse al suo interno i germi della propria dissoluzione e che quindi, dopo la vetta dell’Importanza del chiamarsi Ernesto, la rovina di Wilde fosse in qualche modo necessaria – narrativamente necessaria, come l’eroe delle saghe che dopo il trionfo deve necessariamente soccombere al drago o al tradimento: dopotutto il suo ruolo nella storia ormai è concluso; ma è una lettura che è, appunto, moralistica, e dalla quale prudentemente mi ritraggo, sebbene abbia qualche punto di appoggio nel Ritratto di Dorian Gray.

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