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Agitato, non mescolato

Kingsman – Secret service (Matthew Vaughn, UK 2014)

Ho visto con vero piacere Kingsman: due ore di sano divertimento, una trama accattivante, bravi attori e alcuni momenti cinematografici notevoli. Alla fine però, ero perplesso: non tanto su questo film, quanto sugli altri.

Perché Kingsman non è per nulla originale: riprende e aggiorna il film spionistico alla James Bond classico (cancellando o relegando sullo sfondo buona parte di tutto quel che è seguito, da Mission: Impossible ai vari Bourne), verso il quale c’è più di una strizzata d’occhio e aggiungendo una buona quantità di tutto quel che l’immaginario pop associa a questo tipo di storie, gadgetteria elettronica, pistolone e fuciloni, scienziati pazzi, megamiliardari affetti da smanie di onnipotenza, guardaspalle temibili (qui una ragazza con protesi affettatutto) e così via. Gioca anche abilmente sul contrasto fra l’aplomb inglese così tremendamente tradizionale che è sempre stato un’altra delle caratteristiche del genere e dall’altra parte l’ipermodernismo della tecnologia utilizzata. E infine innesta su tutto questo un paio di robusti meccanismi narrativi: l’outsider in lotta per affermarsi in un ambiente che lo respinge, il rapporto fra un anziano agente e un giovane scavezzacollo, l’addestramento di una nuova squadra di potenziali agenti, molti dei quali non arriveranno fino in fondo (il giovane scavezzacollo? forse si, forse no). Manca la storia d’amore, ma c’è comunque la bellona come premio finale per l’agente. C’è tutto.

La sensazione è quella che si siano presi tutti gli elementi del genere, li si sia messi in un marchingegno, si sia agitato bene (pardon: «agitato, non mescolato», come il Martini di Bond), e poi, hop!, ne salta fuori un mix perfetto.

Il problema è: perché non funziona sempre? Perché, per esempio…

Il Settimo figlio (Sergej Vladimirovič Bodrov, USA/UK 2014)

Anche Il settimo figlio sembra uno scatolone in cui si siano messi tutti gli elementi caratteristici del genere: il rapporto fra giovane apprendista e anziano cavaliere (anche qui), una strega supercattiva, un gruppo di altri cattivoni al suo servizio, ciascuno con un suo superpotere, un giovane eroe riluttante, una maliarda in fondo dal cuore d’oro, un oggetto magico potentissimo, ottimi effetti speciali, oscure profezie, assassini ninja e antiche città incantate in cui ambientare il confronto decisivo.

Anche qui si è mescolato un po’ e hop!… ne è venuta fuori una roba mediocre, davvero mediocre.

Non è solo il problema che sia molto prevedibile: l’altra sera ho iniziato a raccontare la storia ai Fabbricastorie: ogni tanto mi fermavo e subito uno di loro, con precisione chirurgica, indovinava esattamente come proseguiva la trama. Tutto sommato Kingsman ha qualche ghirigoro in più nella trama ma non fa dell’originalità il suo punto di forza.

E non dipende neppure dal fatto che, sebbene entrambi i film siano sostanzialmente plot driven, la trama di Kingsman sia più robusta e meno sgangherata di quella di Il settimo figlio, che sembra assemblato un pochino con una tabella di incontri casuali del vecchio Dungeons & Dragons. Dire questo vuol dire solo spostare i dubbi su un altro piano: come mai uno emoziona e l’altro invece no?

Conta già di più, casomai, la differenza fra i due cast, o meglio, la differenza nel casting. È vero, infatti, che fra gli attori giovani Taron Egerton buca lo schermo più di Ben Barnes e che Colin Firth sprigiona più carisma di Jeff Bridges: e ragionandoci ci si rende conto che dipende dal fatto che la sceneggiatura aiuta molto di più i due di Kingsman rispetto alle loro controparti di Il settimo figlio; ma soprattutto la scelta di Samuel L. Jackson nei panni del cattivo è più divertente, e interessante, di Julianne Moore nel solito ruolo della grande attrice che si diverte a fare la strega cattiva. E andando alla definizione e al modo con cui sono stati scelti i comprimari non c’è più partita: si capisce che per Kingsman Vaughn ha un’idea di narrazione e di messa in scena che, semplicemente, Bodrov non ha.

Amanti del genere

Cosa intendo per idea di narrazione? Tutti e due i film sono molto pop, nel senso che attingono a piene mani a convenzioni, materiali narrativi  e cliché che fanno parte di una narrazione diffusa. Ma in un caso sembra una scelta autoimposta per la convinzione che altrimenti non si sarebbe trovato un mercato, e nell’altro caso sembra una scelta volontaria di stile. Così alla fin fine Il settimo figlio, superate le prime tre scene che sono piuttosto promettenti, scade in un compitino che, proprio per l’essere stato progettato proprio a modino, non decolla mai. Kingsman invece trasuda prima di tutto divertimento e sincero amore per il genere, e la differenza sta tutta là: è per quello che si può permettere di spingere sull’acceleratore, di essere irriverente perfino verso se stesso (e il povero Michael Caine) e alla fine di infilare là, un po’ senza parere, almeno due pezzi di gran cinema e un buon numero di personaggi destinati a diventare, a loro volta, icone popolari. Conterà, immagino, il fatto che Vaughn sia anche co-autore del fumetto da cui il suo film è tratto, ma in generale il tema è lievemente diverso: quando si fa narrazione di genere di solito essere amanti di quel genere di solito aiuta parecchio – e certamente non capirne del genere è uno svantaggio: non parlo di Bodrov, ma del produttore che ha avuto la malsana idea di pensare che il regista di un film come Mongol potesse andar bene per Il settimo figlio.

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