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Ma a scuola che ci facevi? Lettera aperta a Gianluca Medas (e a alcuni altri)

Caro Gianluca

è un po’ che non ci vediamo, ma ti seguo spesso su Facebook. Infatti ieri ho letto che hai raccontato una storia che ti è capitata a scuola.

Gianluca a scuolaOra, non so se in realtà, come talvolta capita, questa non sia una storia proprio proprio vera ma un tuo esperimento di narrazione, un abbozzo di un racconto da proporre in futuro dal palcoscenico. Se fosse così magari avresti potuto dirlo: ventisei condivisioni sono già la costruzione di una leggenda urbana. Ma dal mio punto di vista e delle cose che vorrei scriverti tutto sommato non fa differenza: se anche fosse un racconto fittizio, infatti, da come lo racconti vuol dire che lo ritieni verosimile, e quindi sostanzialmente fa lo stesso.

Intanto, vorrei dirti che avresti dovuto dire che tu, lì, non facevi politica. Non solo perché non la facevi davvero, ma anche perché la ragazza sbagliava parola. L’espressione che usa più spesso è credere. La politica è il campo del confronto delle visioni del mondo e degli strumenti con cui realizzarle e il luogo in cui si dibattono le idee. Il campo delle credenze assolute che non possono essere messe in discussione – nel modo con cui lo intende la ragazza – si chiama religione e forse avresti potuto farglielo notare. Quanto meno, stimolata in questo modo, avrebbe potuto dirti da chi aveva avuto la sua rivelazione: sarebbe stato anche un buon modo per inquadrare il suo modo di porsi di fronte all’argomento, posto che il campo dei negazionisti, come altre cose di questi tempi, più che altro assomiglia a una setta.

In secondo luogo: perdonami ma la soluzione di farli uscire per andare avanti con gli altri semplicemente non esiste. Viviamo in una società (ben?) regolata, non nelle tribù dove ognuno si fa giustizia da solo, e seguiamo di solito uno stile di democrazia rappresentativa: se riteneva che stavi facendo “politica” poteva chiedere che l’insegnate mettesse per iscritto un’osservazione sul registro, dichiarare che si riservava di rivolgersi al Preside o ai rappresentanti degli studenti, lei o i suoi genitori. Preso atto si andava avanti e poi si sarebbe visto e casomai provveduto: mi pare che questo processo sarebbe stato in ogni caso un’esperienza formativa. Con quel che racconti, invece, si è testimoniato che nel vivere sociale ognuno fa più o meno come meglio gli pare. Non volevano restare? Disturbavano? Anche un bel sette in condotta è un’esperienza formativa: almeno insegna che per le proprie idee (scusa, fede!) può essere necessario pagare di persona. Del resto una ragazza che prende e si alza in piedi interpellando direttamente un insegnante si propone come un’adulta e come tale merita di essere trattata, non come un’adolescente capricciosa.

Soprattutto, mi pare che hai sbagliato a non rinunciare alla narrazione e a entrare nel vivo della questione: cosa ne sapeva? Perché pensava che quel che dicevi fosse falso? C’era lì tutta una lezione di storia – interpretazione delle fonti, differenti approcci storiografici, gestione della memoria collettiva, uso della storia come strumento di propaganda… – una lezione di storia già stesa, nel contesto di attenzione massima che si potesse ottenere. Si poteva fare senza permettere a lei di spaccare il capello in quattro – già me la vedo, entrare nei particolari minuti di camere a gas demolite e ricostruite, dimenticando opportunamente di guardare al quadro complessivo – e senza litigare. Si – poteva – fare. Anzi: si doveva fare.

Mi dirai: non è mio compito. Forse non ho neppure la preparazione sufficiente.

C’era anche l’insegnante, lì, ma non è questo il punto.

Il punto è che ci si deve aspettare che a settant’anni dai fatti, queste cose succedano. Succederanno sempre di più. Peraltro succedevano anche prima: quando ero a scuola io al Dettori c’era un gruppo che si chiamava Fratellanza ariana, figurati. E quindi se vai là a scuola e poi non gestisci queste cose, ma che ci vai a fare? A raccontare una storia buonista?

Siamo più o meno della stessa età: ricorderai quanti temi ci hanno fatto fare a scuola ogni anno sull’unità europea. Fogli protocollo su fogli protocollo di buoni sentimenti, l’Europa una buona cosa perché si deve pensarla così. Banalità politicamente corrette.

Non mi pare che con tutto quell’inchiostro versato l’Europa sia venuta fuori meglio, alla fine, o che sia per quello ce ne freghi di più (casomai di meno). Non vorrei che finisca così per l’Olocausto: mi sembrerebbe il modo migliore per costruire generazioni che – anche senza essere negazionisti come quei cinque – si abituino a pensare che sono tutte fregnacce di circostanza, robe da vecchi, retorica vuota. Non credo che tu vada nelle scuole per fare narrazioni tanto per fare: ti ho visto in altre circostanze metterci molto cuore. Però se nelle scuole ci vai devi essere disposto a prendere in mano le cose, altrimenti non può funzionare e fa più male che bene.

E converrai con me che non sarebbe bello. Non solo per tutti quelli di varia identità che nei campi ci hanno lasciato la pelle. Ma anche perché mi piacerebbe lasciare questa terra, fra qualche decina d’anni, senza aver visto tornare in Europa cose del genere. E visto che ti assumi lo sforzo educativo, bisogna che tu – e gli insegnanti, ovviamente – lo faccia fino in fondo.

Con immutata stima

Roberto

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Un pensiero su “Ma a scuola che ci facevi? Lettera aperta a Gianluca Medas (e a alcuni altri)

  • Ricordo ancora uno dei primi laboratori “solisti” di educazione alla cittadinanza mondiale, tema migrazioni.
    Milano, terza liceo scientifico, con me una giovanissima collega pronta ad imparare.
    Cominciai con un icebreaker: Pane e Coraggio.
    La presi larga cercando di lasciare che la decostruzione dei pregiudizi venisse dai ragazzi. Ma mi trovavo in una delle pochissime classi liceali interamente italiane di Milano.
    E tutto precipitò in un attimo. Il capo della curva a interrompere ogni 2 minuti qualsiasi tentativo di contestualizzare la questione migranti. La classe pressoché compatta al seguito.
    La collega allibita da tanta violenza verbale.

    Più tardi parlandone con il mio collega e responsabile in sede mi chiese “Ma tu ti sei contrapposto?”…abbassai lo sguardo. Sì mi ero contrapposto. Mi ero fatto prendere dalla battaglia come un adolescente. Non avevo fatto il mio dovere di formatore, ovvero far ragionare quei ragazzi su altri punti di vista oltre al loro, provare con loro altre interpretazioni dell’esistente e lasciare che quel semino germogliasse magari in uno di quei 16 studenti, forse fra dieci anni o forse mai. No.
    Io volevo solo dimostrargli che io ero nel giusto e loro sbagliavano. Che io non avevo pregiudizi ed ero nel giusto e loro, maledetti razzisti, dovevano vergognarsi. False entrambe le cose.
    E alla fine mi sono vergognato io.
    Non sono stato un buon formatore per i ragazzi e un buon “maestro” per la mia giovane collega.

    Una sconfitta bruciante.

    Che però mi sono tatuato nella mente, per ricordarmi chi sono e quale compito abbia una volta varcata la porta di una classe: fornire ai ragazzi degli strumenti per osservare, smontare e ricostruire alcune parti della realtà.
    Una realtà che non potrà mai essere la mia. Sarà sempre e comunque la loro.

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