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Contro lo storytelling, per la narrazione

Un tempo per narrare MantegazzaSto pensando di scrivere un’attività formativa per adolescenti sull’uso dei social e per trovare materiale utile mi sono andato a sfogliare un libro acquistato tanto tempo fa su consiglio di Beniamino Sidoti, Un tempo per narrare (di Raffaele Mantegazza, EMI 1999, sottotitolo: Esperienze di narrazione a scuola e fuori).

Sfogliando sfogliando mi sono riletto tutto il libro. Se la prima volta che l’ho letto mi ero concentrato sulla parte in cui vengono riportate una serie di attività esemplificative (come un repertorio di materiali e tecniche di animazione immediatamente utilizzabili dall’educatore) questa volta mi ha colpito molto di più il breve saggio introduttivo.

L’introduzione serve a Mantegazza per dare un senso all’ordine con cui nella seconda parte vengono presentati i vari materiali: un percorso che parte dall’identità personale, si allarga all’incontro con l’altro, si apre alle metamorfosi più radicali dell’identità, come la morte, e da lì mette in fila successivamente altri elementi di complicazione: il fare memoria, gli spazi educativi fuori della scuola, il racconto della Shoah, e i temi più propri dell’età adulta (il libro, si suppone, è rivolto a educatori che lavorano con adolescenti e preadolescenti); serve anche per esporre una serie di notazioni metodologiche (come le cinque regole della narrazione come strategia educativa: contaminazione, rispetto del pudore, ascolto, avalutatività, copresenza dell’insegnante regolare e dell’esperto di narrazione).

Ma il valore di queste prime pagine non sta tanto nel fornire un ordine e un criterio di lettura quanto, in realtà, nella filosofia della narrazione che viene esposta, talvolta quasi en passant, come quando si enuncia con salutare umiltà

Intendiamoci: non è che la narrazione provveda sempre momenti di alta emotività e intensità; a volte ricade nella routine, nella noia, nel già visto e nel già sentito;

e subito dopo si apre a una riflessione sul rigurgito pop che ho trovato davvero molto precisa:

spesso narrare e far narrare significa rievocare tormentoni televisivi e cinematografici che si sostituiscono con una soluzione di comodo alla fantasia e all’inventiva richieste al buon narratore o alla buona narratrice; la narrazione ha senso se abita anche le terre della noia e della banalità […] Narrare a scuola e fuori significa allora non aver paura del banale; anzi, significa essere convinti non solo che nella banalità siano nascoste delle ricchezze (spesso non è affatto vero, e il banale è banale e basta!), ma che raccontando il banale o in modo banale si possano cogliere le strutture e le dinamiche di quella banalità mass-mediologica che ci viene propinata e rispetto alla quale ci sentiamo spesso impotenti.

È un brano ambivalente che rischia di cadere in una distinzione che non può reggere fino in fondo fra “buona” e “cattiva” narrazione (e come si fa a decidere cosa è “buono” e “cattivo”?) o in una critica della (banale) comunicazione dominante salvo augurarsi di assumerne le stesse caratteristiche facendosi contaminazione, ma questa idea del narrare per smascherare – i codici comunicativi, gli stereotipi, le manipolazioni – è molto interessante e certamente di rottura rispetto al modo, per esempio, con cui tanti bellamente si propongono di usare lo storytelling (che in italiano sarebbe, appunto, “raccontare storie”, cioè narrare) come strumento di propaganda, cioè non per smascherare ma esattamente per il contrario (del resto “contar storie” in italiano vale anche per “contar balle”, ma detto in inglese, lo ammetterete, suona meglio). L’impostazione di Mantegazza è molto più libera, più onesta e leggendo l’introduzione mi sono chiesto, con un po’ di disappunto, quando è stato che chi lavora con le parole proponendosi di educare con la narrazione (all’identità, alla memoria, a esplicitare ciò che non può essere detto, a smascherare, appunto) è stato soppiantato da chi lavora con le parole per vendere qualcosa (sia una merce che un uomo politico).

Il saggio introduttivo è breve  ma grazie a questi pensieri l’ho molto rivalutato e lo trovo la dimostrazione che Mantegazza manovra il tema da padrone. A distanza di tempo ho trovato invece più eterogeneo di quanto mi ricordassi il repertorio di attività già pronte. Si tratta per a maggior parte di attività effettivamente svolte, a scuola o fuori, ed è chiaramente molto difficile dar conto a  chi non c’era di come è stata preparata e come si è svolta un’attività educativa; anche ammesso questo il problema qui però mi è parso piuttosto l’eterogeneità dei materiali (che vanno da brevissime attività di presentazione a unità formative lunghe e molto strutturate), il fatto che non sempre è chiaro dove nell’attività esattamente si collochi il livello della narrazione (cioè cosa distingua, in qualche caso, ciò che viene proposto da una tecnica di animazione classica) e una certa costante mancanza di istruzioni dettagliate, cioè alla fine delle proposte un po’ poco user friendly, che fanno consigliare il libro a educatori complessivamente già esperti, e più come una mappa di percorsi da intraprendere che come una cassetta degli attrezzi da cui pescare soluzioni già pronte alle proprie esigenze formative.

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