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Divagazioni sul Presidente della Repubblica – 1

Stavo ieri per pubblicare alcuni elementi di perplessità sulla candidatura di Milena Gabanelli al Quirinale, poi un po’ di telefonate di lungo corso e l’esigenza di preparare la cena mi hanno allontanato dalla tastiera: visto che le ho pensate le scrivo comunque, anche se nel frattempo c’è stata la rinuncia alla candidatura (espressa in termini molto nobili, peraltro) .

In realtà non sono tanto perplessità sulla persona della Gabanelli, che stimo, quanto una certa insofferenza su Report e sul modo di fare giornalismo che la trasmissione rappresenta.

Sono cose che vanno oltre la Gabanelli stessa, dato che immagino che Report sia frutto dello sforzo collettivo di una redazione allargata e di una serie di altre figure professionali (autori, produttori…): ma sono rilevanti sulla candidatura personale della Gabanelli perché lo stile di giornalismo di Report è esattamente quello che l’opinione pubblica percepisce e che l’ha portata a vincere le Quirinarie del Movimento 5 Stelle.

E in realtà sono osservazioni che in parte vanno anche oltre lo stile giornalistico effettivo di Report stesso, in quanto hanno a che fare appunto con la percezione del pubblico piuttosto che con la qualità del servizio offerto, che mi pare buono, per quanto ne posso capire. Oddio: scivoloni come quello sulle case di Di Pietro sollevano qualche dubbio, perché non si sa se catalogarli fra gli attacchi alle spalle volontari o nella semplice sciatteria giornalistica; e dubbi ulteriori sono suscitati negli esperti-esperti quando la trasmissione affronta argomenti sui quali il giornalista che fa il servizio è un non-così-esperto: sono citati casi simili a proposito della rete e dei servizi a sfondo scientifico: però, come dice Matteo Bordone a proposito del servizio sui “pericoli del web, il problema non è parlare di una qualità assoluta ma di valutare Report in rapporto alla concorrenza e alle condizioni produttive, e allora non c’è partita:

Certo, Report, come tutte le cose del mondo reale, non è perfetto. Capita che certi servizi funzionino meno di altri, ci mancherebbe altro. Nessuno di noi è sempre allo stesso livello, e pochissimi raggiungeranno mai la qualità e la rilevanza del suo programma, men che meno passando per la coriacea difesa della propria identità sulla groppa di un mastodonte infingardo come la RAI.

No, i miei dubbi non sono di questo tipo, ma proprio sulla colonizzazione dell’immaginario che lo stile di Report comporta.

Altri mondi possibili e il colonialismo della mente

La prima cosa che ha cominciato a darmi fastidio di Report sono state le goodnews, quel servizio conclusivo dedicato a storie positive ed esemplari. Raramente si tratta di storie individuali (stile: trova portafogli con un milione di euro e lo restituisce), normalmente sono prassi sociali collettive: dai GAS al guerrilla gardening, dalle varie banche etiche in giro per il mondo al commercio equo, dalle cooperative sui beni sequestrati alla mafia al microcredito, dal negozio biologico esemplare all’esemplare pratica di salvataggio dei cani abbandonati.

Esemplare: già. Ma esemplare di che? Ho l’impressione che in realtà l’assunto su cui sono costruite le goodnews (che secondo una logica, peraltro meritoria, dovrebbero controbilanciare tutto il marciume che il resto della puntata porta alla luce) è che si tratta di “fari nella notte”: di esempi di comportamenti virtuosi che dimostrano che un altro mondo è possibile.

Otro mondo es posible, come dicono ai Forum sociali. Ma un altro mondo è possibile nella misura in cui ci sono chiamate all’azione e movimenti collettivi che si organizzano, non nella misura in cui si affidano a realizzazioni mitologiche (leggendarie) palingenesi che saranno realizzate… da altri – ed è questo il messaggio che passa via Report. Il tema delle good news è: il mondo è (ontologicamente) tutto uno schifo, per fortuna ci sono questi qui (che stanno sempre lontani da me, oltre lo schermo) che fanno cose esemplari e così ci scaricano la coscienza. Ma se il mondo è ontologicamente uno schifo resterà così sempre e per sempre, e le good news rimarranno soltanto delle leggende che parlano di terre promesse che non vedremo mai, belle storie che vale la pena di raccontarsi attorno al fuoco (fari nella notte, appunto) prima di riprendere un viaggio nell’oscurità.

Dice Latouche che chi ha la testa a forma di martello vede tutti i problemi come chiodi: chi ha la testa a forma di mondo che è uno schifo vedrà il mondo come uno schifo tranne pochi casi incredibili ed esemplari che comunque riguardano altri. L’immaginario dello spettatore è colonizzato in questo modo.

Mi direte: non è un problema del giornalista che racconta la storia, o di Report, se il pubblico confida in questa maniera miracolistica in storie esemplari (un discorso analogo si potrebbe fare per l’impegno sociale via clic, per le petizioni online sostitutive dell’impegno politico e sociale): è un problema del pubblico.

A me pare che sia un problema del pubblico e anche di Report, del ricevente del messaggio ma anche del mittente. Perché il problema, a ben vedere, non riguarda solo le good news, ma tutto il programma, con la sua struttura tutta volta alla “inchiesta”, cioè a far saltare fuori, appunto, il marciume annidato nel mondo che è tutto uno schifo.

Non mi va bene neanche questo, non riconosco meriti nel giornalismo d’inchiesta, sono proprio incontentabile? Un po’ sì, e anche, temo, insopportabilmente sentenzioso.

Per molto tempo anche io ho pensato a Report come a un crociato della verità in lotta contro gli orchetti del malcostume.

Però da un po’ di tempo non mi basta più: e penso che ci sarebbe bisogno di un altro tipo di giornalismo, che non si dimensioni esclusivamente in rapporto ad altro (il malcostume, la casta, la cattiva politica, le banche, le multinazionali…) ma che, questa volta sì, in positivo, dia una linea culturale di alternativa, faccia una informazione che aiuti ad aggregare ed ad agire. Perché se oggi riusciamo a renderci conto che per tanti anni l’antiberlusconismo è stato un comodo alibi per tante figure mediocri e in definitiva ha aiutato Berlusconi stesso, incanalandosi esattamente dentro lo stesso schema culturale senza proporne uno diverso, allo stesso modo penso oggi che Report o Il fatto quotidiano siano strutturalmente dentro lo stesso discorso culturale che combattono, in un rapporto di codipendenza: può esserci Report, dopotutto, solo se c’è corruzione; se non ci fosse la casta, Travaglio di che scriverebbe?

È per questo che trovo insufficiente il meccanismo di candidatura della Gabanelli. Certo che rispetto agli altri partiti è stato un miracolo di trasparenza e di partecipazione, ma è ancora dentro lo schema dell’antipolitica, non del cambiamento della politica (o più esattamente, delle istituzioni): la ricerca di un castigamatti inappuntabile che metta a posto tutti; ma è una soluzione di ripiego, posto che l’obiettivo non dovrebbe essere avere un Presidente della Repubblica che «gli faccia vedere», ma una classe politica all’altezza delle necessità del Paese.

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