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Conversazioni vaganti e vampiri a L’Aquila

Dampyr 155, Il sigillo di Lazzaro

cover dampyr155.inddStoria ambientata a L’Aquila della serie Bonelli sui cacciatori di vampiri (lo so che dire “cacciatori di vampiri” è semplificare…), Il sigillo di Lazzaro mette un po’ di folklore abruzzese al servizio di un albo di passaggio, che prosegue l’introduzione nella trama complessiva di due antagonisti presentati per la prima volta nella storia milanese del 2012 e, forse, di un terzo comprimario nuovo di zecca nonché, certamente, di un McGuffin che tornerà in futuro, appunto il “sigillo di Lazzaro”.

Appesantita da tutto questo po’ po’ di roba da mettere al fuoco la trama arranca: un terzo di ambientazione e premesse, poi largamente disattese, un terzo di indagini in cui i protagonisti sono condotti per mano dal narratore verso l’inevitabile disvelamento e un terzo di combattimento conclusivo, che rivela tutta la complicazione di introdurre demoni in un fumetto in cui il centro narrativo è un cacciatore di vampiri: Harlan Draka ha l’arma definitiva (è l’arma definitiva) contro i Maestri della Notte ma contro altri avversari sovrannaturali è impotente, e lo sceneggiatore deve sempre cavarlo dai guai ricorrendo a acrobazie macchinose. Oltretutto la marcia a passo di carica a cui è costretta la storia spreca un personaggio (per chi ha letto l’albo: l’alchimista) che avrebbe meritato maggiore sviluppo; e gli snodi della trama, nel complesso, ripercorrono pari pari quelli della doppia storia della Corona di Ferro: il che crea magari le premesse per una Grande Spiegazione Che Verrà, la quale piacerà moltissimo al lettore futuro ma fa sentire il lettore attuale un po’ defraudato.

facebook_l_aquila_foto_massimo_alesiIl fatto che nonostante tutte queste difficoltà l’albo sia abbastanza piacevole – anche se un po’ inconsistente – rivela che ho sempre avuto ragione a pensare che Cajelli è molto bravo: sul suo blog c’è anche un’interessante spiegazione della lavorazione dell’albo che merita di essere letta.

Scopro anche che come me è un appassionato di conversazioni raccolte sulla metropolitana: il che gli vale un giudizio migliore sulla sceneggiatura; poi rileggo il racconto della meticolosa preparazione dell’albo e resto perplesso.

Allora: riconosco e apprezzo la precisione grafica – per dire quando Harlan e Kurjak entrano in un bar ho riconosciuto davvero il torronificio dei Fratelli Nurzia in cui sono stato anch’io, e avevo ragione: nella pagina precedente si vede l’insegna. Però la precisione e la mole di documentazione non incide allo stesso modo sulla narrazione, perché gli elementi fantastici locali, i Templari, la pianta della Nuova Gersualemme, il paese di Tornimparte, sembrano puri pretesti – cioè enunciati, non sviluppati – e del resto lo ammette lo stesso Cajelli nel suo blog: la storia avrebbe richiesto forse uno sviluppo su due albi. E quindi sommando il tutto la metropolitana scompare e il giudizio resta abbastanza risicato.

Parentesi teologica

Lo so che sono fissato con la storia della coerenza narrativa interna, ma il Lazzaro del sigillo è quel Lazzaro, e infatti il sigillo riporta dalla morte, almeno in parte. Il che vorrebbe dire, penso, che nel mondo narrativo di Dampyr Gesù è esistito veramente e che quindi vale la teologia cristiana. Come questo possa accordarsi con la cosmogonia della saga, i mondi paralleli, la guerra fra gli Amesha e l’Altra Parte, i demoni, il Duca Nergal e tutto quanto comporta degli abissi di speculazione teologica che danno i brividi e in cui quindi preferisco non addentrarmi.

163494_1732369998540_1517235172_1716565_4381029_nL’Aquila e il terremoto

Sono stato a L’Aquila solo due volte in vita mia, entrambe dopo il terremoto. Conosco un paio di aquilani abbastanza bene, altri li ho conosciuti superficialmente, e con tutti ho parlato del terremoto e soprattutto del dopo. Raccontano e spiegano cose che si fanno ricordare – e indignare. Ho anche girato per L’Aquila: una sera mi hanno portato a cena ai margini della zona rossa, un pasto spettrale e commovente in una piazza circondata di macerie a ridosso dei reticolati e con un blindato dell’esercito praticamente a fianco del nostro tavolo, mentre il ristoratore spiegava come anche cose banali quali portare il bombolone del gas in cucina, attraverso percorsi di guerra, fossero diventate delle imprese.

Quando penso all’Aquila – una città di cui fino a due anni fa non sapevo nulla – mi emoziono, quindi giudico l’albo anche per come tratta l’argomento; del resto è una chiave di lettura legittima, visto che ne parla lo stesso Cajelli, che il tema è annunciato con evidenza in copertina con quel grande cartello “zona rossa” e che la narrazione è fatta apposta perché si arrivi a quattro pagine in cui si affronta l’argomento.

chiavi l'aquilaAllora: sono perplesso. È vero che nelle mani di uno sceneggiatore poco accorto la cosa poteva diventare scivolosa (o retorica), ma Dampyr ha trattato molti temi attuali spinosi senza ritrarsi dal dare un proprio giudizio. Qui Cajelli sceglie, forse per pudore, una chiave minore: Harlan e Kurjak arrivano in città, vedono le macerie e parlano del terremoto mentre girano per le strade, come farebbero due stranieri casuali, uno dei quali legge i giornali e può spiegare all’altro, più ignorante, cos’è successo e come mai a distanza di tre anni è ancora tutto per aria.

Funziona? Così così: intanto perché essendo quattro pagine di passaggio avulse dalla trama tutto è affidato ai dialoghi e il rischio della retorica è comunque sfiorato e forse superato quando si lodano gli abitanti dell’Aquila che resistono – lodi meritate, ovviamente, ma non è questo il punto – e poi perché, esattamente come in una discussione da bar, Harlan spiega a Kurjak l’ovvio e il banale, e si trincera dietro una serie di luoghi comuni: una storia italiana, la burocrazia, quando ci sono tanti soldi in giro qualcuno se li intasca… il che può andar bene in un reportage realistico di una conversazione sulla metropolitana, va meno bene in una storia di finzione in cui il lettore è autorizzato ad attendersi dal narratore, che si è preso tutta questa briga per dire una parola su L’Aquila, il terremoto e la ricostruzione, che questa parola sia pesante.

aquila-1Chiedendo una parola

È troppo? È vero che si applica anche al fumetto quel che dice Guccini delle canzoni

però non ho mai detto che a canzoni
si fan rivoluzioni
si possa far poesia

però il riferimento non è preciso. Illustra meglio il punto Montale

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

[…]

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Se non possiamo chiedere a Cajelli e a Harlan Draka una parola di giudizio a lettere di fuoco, possiamo almeno chiedere, visto che si sono presi il disturbo di andare fino all’Aquila, di dirci ciò che sono e non sono, ciò che vogliono e non vogliono, in una parola da che parte stanno. Ma questo avrebbe richiesto che la gente dell’Aquila e la città stessa fossero i protagonisti della storia, e non un mero fondale, o un pretesto; detto in altro modo se proprio proprio la redazione aveva bisogno di una storia in cui ripresentare il Maestro Rakoczy-Saint Germain contro il barone Vassago, far andare avanti la loro inimicizia, presentare un Nuovo e Potentissimo Artifatto e creare uno spin off della sottotrama dei Lupi Azzurri poteva ambientare la storia a Phuentsholing: almeno sarebbero stati sicuri che là non c’è nessuno che sia conosciuto dai lettori o di cui ai lettori importi qualcosa – e parlare dell’Aquila quando potevano farlo fino in fondo.

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