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Due o tre cose che so sull’obiezione di coscienza

Il post dell’altro giorno su Montecitorio e l’obiezione di coscienza è legato al fatto che a fine dicembre è stata esposta a Cagliari la Madonna di Nagasaki: in quell’occasione la Caritas ha organizzato un convegno per ricordare il trentennale della legge istitutiva del servizio civile.

ll convegno è stato un po’ un bagno nei ricordi: avevo davvero dimenticato una serie di cose che ai tempi mi parvero importantissime e che gli interventi dei vari relatori mi hanno fatto tornare in mente. Altre cose, invece, le avevo ben fresche. Le une e le altre avrei voluto dirle nel dibattito, ma non c’è stato il tempo: ve le racconto qui sotto.

Perdonate le divagazioni alla nonno Libero: per compensare metto qualche foto “inaspettata” del sottoscritto, così non ci prendiamo tutti troppo sul serio.

189095_1008070813927_9322_nI puri fatti

Ho deciso di voler essere obiettore a un campo scuola nazionale dell’Azione Cattolica, a Pescara. Avevo appena finito la terza superiore e avevo diciassette anni.

Al campo c’erano due ragazzi della diocesi di Albenga che stavano in quel momento facendo il servizio civile: si chiamavano, ricordo ancora, Marino e Angelo. Erano parecchio toghi e mi piacquero tanto. Ci pensai seriamente (all’epoca ero serissimo) e decisi che avevano ragione: non ammazzare. Diventai nonviolento (o meglio: decisi di provare. Dio sa che si può essere violenti in molti modi).

L’anno dopo feci la visita di leva. All’ultimo giorno mi fecero compilare un foglio dove potevi mettere l’arma o la specialità di preferenza: carrista, paracadutista. Io non misi niente. Il capitano che faceva il colloquio finale me ne chiese il motivo, e io dissi di voler fare l’obiettore. «Quindi lei se le danno uno schiaffo porge l’altra guancia?». Arrossii, imbarazzato.

Comunque il problema non si pose subito. Quelli della mia generazione ricorderanno che esisteva l’istituto del rinvio: finché studiavi e davi esami ti davano la proroga di un anno, fino ai ventisei al massimo; io a quell’età non ero ancora laureato, e preferii rinunciare al rinvio con un anno di anticipo. Era il principio della storia.

La porta stretta

189139_1008071213937_8233_nUna delle cose che avevo completamente dimenticato era l’esistenza della temuta commissione di valutazione: eppure per un anno e mezzo ha occupato parecchi dei miei pensieri.

La storia era questa: l’idea di fondo era che gli obiettori erano, in realtà, degli imboscati. O al massimo: c’erano pochi obiettori seri e veramente motivati, gli altri erano tutti imboscati. Pertanto il sistema era organizzato per scoraggiare gli ipotetici furbi (il servizio civile sostitutivo durava sei mesi in più, poi scesi a tre) e soprattutto non bastava dichiararsi obiettori: occorreva dimostrarlo. Come si dimostrava una cosa sentita in coscienza? Ovviamente era impossibile, quindi esisteva una complessa e bizzarra procedura a cui tutti fingevano di credere e che causava più di una notte insonne agli obiettori.

Occorreva indirizzare a un’apposita commissione una domanda in cui ci si dichiarava obiettori. La risposta arrivava dopo mesi (credo anche più di un anno) durante i quali la commissione faceva non so bene che cosa: certamente leggeva le affermazioni contenute nella domanda, mentre affidava alle forze dell’ordine il compito di indagare (superficialmente) sul potenziale obiettore; se uno aveva il porto d’armi, o aveva precedenti, veniva cassato immediatamente, ma si contavano casi di domande respinte per i motivi più strani. Anche a casa mia vennero due poliziotti, che dovetti ricevere sul pianerottolo perché in casa il cane (il temuto Cico) dava in escandescenze. Gli dissi che le mie motivazioni erano religiose, loro mi chiesero il nome del mio parroco e se ne andarono: ignoro se abbiano preso poi davvero informazioni su di me a Bonaria.

31703_1384424102524_7181469_nNel caso in cui la domanda fosse stata respinta c’erano due alternative: arrendersi e fare il servizio militare oppure, appena entrato in servizio, dichiararsi obiettore e trascorrere la leva in un carcere militare. Quindi la cosa, diciamo, veniva presa sul serio.

Fare la domanda insomma sembrava una cosa ponderosa. Gli obiettori della Caritas mi passarono un volumetto, mi pare edito dal gruppo Abele, Guida all’obiezione di coscienza, in cui c’era un esempio di domanda da copiare: tutti gli obiettori che conoscevo l’avevano mandata uguale, aderendo a quella sorta di manifesto. Ricordo che dopo una serie di argomentazioni diceva: e quindi io, quale obiettore di coscienza solidarista nonviolento… però il gruppo della LOC di Cagliari, in cui anche quelli della Caritas si riconoscevano, aggiungeva per migliore specificazione “antimilitarista”. Gli obiettori Caritas, come loro segno distintivo, mettevano anche “cristiano”, e io quindi doverosamente scrissi, che Dio mi perdoni: «Io, quale obiettore di coscienza cristiano antimilitarista solidarista nonviolento…», mettendo cristiano all’inizio e non alla fine perché dopotutto venivo dall’Azione Cattolica e a certe cose ci tenevo.

Alla Caritas

Il servizio civile lo feci alla Caritas e non altrove perché era la scelta naturale per uno dell’Azione Cattolica. E poi la Caritas era quella di don Di Liegro – a Roma, purtroppo: a Cagliari era ancora una roba in stile Pontificia Opera di Assistenza col nome cambiato, il vento della riforma non era ancora arrivato.

Non tutti potevano fare il servizio civile alla Caritas: non era mica come alla Provincia, dove gli obiettori, si vociferava scandalizzati, passavano il tempo a fare fotocopie e a studiare per l’Università. Alla Caritas si faceva davvero servizio, e quindi occorreva essere di sani principi e cristiani impegnati. A me fece una lettera di presentazione l’Assistente diocesano dei giovani di AC, il quale, volendo evidentemente impressionare il Direttore della Caritas, citò anche una mia vecchia esperienza di volontariato con un ragazzino disabile: e così mentre io volevo andare al carcere minorile finii all’OAMI, con i disabili adulti – un’esperienza che poi mi piacque molto.

58712_1492556645770_3530873_nUn’altra parte del servizio la feci all’ufficio obiettori della Caritas – provenire dall’Azione Cattolica rendeva affidabili anche da quel punto di vista – a tenere i rapporti col Distretto Militare e a conoscere intimamente tutti i retrobottega della Caritas. Anche lì imparai tanto, ma devo dire che mi piacque molto meno. Però alla fine è quello che mi sono portato via con più forza da quei mesi: la consapevolezza dello scarto che c’è sempre fra l’immagine (la Caritas a fianco dei più poveri in tutti i contesti) e la realtà delle chiese locali, in cui spesso ciò che è annunciato non è proprio proprio quel che viene vissuto. Potevo rimanere scandalizzato, sono diventato semplicemente adulto: diciamo che durante il servizio civile ho imparato a venire a patti con la dimensione del limite, nella comunità ecclesiale e non solo (e ho anche imparato a diffidare della propaganda): cose che mi sono portato dietro quando ho cominciato a occuparmi di Terzo Settore.

E poi ho imparato a stare in un ufficio e ad avere responsabilità. Il mio predecessore all’ufficio obiettori, Tullio (un gran tipo, in gambissima), dopo avermi passato le consegne mi disse: «E poi, naturalmente, a don Alfio non sempre devi dire tutto». Io annuii, facendo la faccia saggia: «Naturalmente».

Il che poi mi obbligava, quotidianamente, a decidere in solitudine cosa poteva essere gestito dall’autoregolamentazione del gruppo degli obiettori e cosa doveva essere concordato per via gerarchica, cosa andava comunicato al Distretto come voce della Caritas dimenticandomi di concordarla col Direttore, e così via.

Lunghi mesi

216095_1809410406916_4397529_nDella estrema serietà degli obiettori Caritas ho già detto. Una delle conseguenze è che si chiedeva al futuro obiettore di cominciare a prestare servizio, da volontario, già dal momento della domanda: il che vuol dire, considerato che passavano mesi e mesi prima della risposta della commissione, che il periodo di servizio diventava quasi il doppio.

E poi c’era la questione della maggior durata rispetto ai militari normali, una misura del tutto punitiva che suscitava resistenze (e che stava dietro all’episodio in Caritas nazionale che ho raccontato l’altro giorno). C’era un processo in corso contro un obiettore che si era rifiutato di prolungare il suo servizio oltre il periodo “normale”, in cui era stata sollevata eccezione di incostituzionalità, ma la cosa andava per le lunghe.

Tutti però avevamo la sensazione che la cosa stava per arrivare in fondo, che non si poteva più aspettare. Quando io, Mauro Scano e un altro arrivammo al compimento dell’anno di servizio, decidemmo di presentarci al carcere militare per dichiarare che non avremmo servito un giorno di più e per farci arrestare.

Così, senza dire niente a casa, in maniera naturale: dai, si va in carcere, non c’è altro da fare.

Quando penso alla lucidità e alla determinazione di quel giovane Roberto Sedda un po’ son contento, un po’ mi viene in mente Guccini

A vent’anni si è stupidi davvero
quante balle si ha in testa a quell’età

però più sono contento.

Insomma, era un Grande Gesto Dimostrativo: credo ci immaginassimo la LOC che ci accompagnava e faceva un presidio davanti a San Bartolomeo, giornalisti, cose così: in realtà non so se sarebbero venute almeno le nostre fidanzate, chissà. Per fortuna, comunque, decidemmo di aspettare un altro ragazzo, che finiva il suo anno di servizio due o tre settimane dopo, in modo da consegnarci tutti assieme e non separatamente, e avere maggiore impatto. Mentre lo aspettavamo arrivò finalmente la sentenza della Corte Costituzionale, e venimmo immediatamente congedati – senza passare prima dal carcere.

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