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I rei non fanno il miracolo

Sono andato l’altra sera, nella cornice del Cagliari FIlm Festival ospitato dalla Fondazione Siotto a vedere Il miracolo dei rei, documentario di Alessandra Usai sulla fondazione della colonia penale di Castiadas.

C’era, nella volontà di vedere il documentario, un piccolo motivo di famiglia: il bisnonno di Maria Bonaria era una guardia carceraria di Gottasecca, in Piemonte, che venne in Sardegna proprio per la fondazione della colonia, un fatto più e più volte ripetuto nelle narrazioni familiari; forse, sotto sotto, speravamo che a un certo punto comparisse una foto d’epoca di una guardia con due enormi baffi a manubrio – magari, addirittura, una pagina di diario, una citazione nel diario del Direttore, chissà che: invece, purtroppo, niente di niente.

Il miracolo dei rei ha il suo pezzo migliore nel racconto, compatto, della fondazione della colonia: l’area di Castiadas è del tutto incolta e disabitata, frequentata a malapena da pochi pastori del Gerrei, paludosa e pericolosissima per la malaria. L’approccio avverrà, addirittura, per nave, sbarcando niente meno che l’Ispettore Generale della Carceri in persona, con un drappello di guardie e poche decine di galeotti; e il racconto un po’ alla Fitzcarraldo di questi pugno di disperati che vagano per tre giorni nella boscaglia, facendosi largo a malapena, finché finalmente trovano il posto adatto a fondare la colonia e allora mandano indietro messaggeri a Cala Sinzias per far sbarcare il resto di guardie e carcerati e tutto il materiale di scorta è obiettivamente molto forte e reso anche abilmente dalla costumista, col look garibaldino del Cavalier Cicognani, che per l’impresa sul campo sveste la marsina da funzionario ministeriale in favore di giubba e fazzoletto.

Sarebbe stato interessante fermarsi a dettagliare quel momento eroico e assolutamente sorprendente, ma forse non c’era abbastanza materiale documentario; il film, invece, si spinge avanti e indietro nei più di ottant’anni di vita della colonia, faticando peraltro a trovare un centro narrativo – è la storia di alcune grandi figure, Cicognani, il medico della colonia che diverrà per forza di cose uno dei maggiori esperti di malaria d’Italia? O è la storia dei poveri cristi, guardie e galeotti, spediti in casa del diavolo a fare la colonia o a morire, o probabilmente a fare la colonia e a morire, di stenti o di malaria? Sono storie di pena o di redenzione? Parliamo di uno Stato patrigno o benevolo? – e smarrendo questo filo fatica anche a trovare un centro tematico: qualche volta sembra che la colonia sia un colossale esperimento sociale di reinserimento sociale, altre volte l’ingranaggio di un altrettanto colossale sistema repressivo; ha avuto successo ed è diventata un’industria agricola modello, o è stato un tentativo velleitario di bonifica di qualcosa che non si poteva bonificare e che è costata centinaia di vite per la malaria? È un luogo del cuore per chi da giovane si è aggirato per le rovine, per chi immagina che quei resti possano far intuire una storia importante dietro di loro, ma esattamente perché questa storia dovrebbe essere importante per chi vive lì adesso, che legame abbiamo con essa, non è così definito: vorremo che ritornasse in piedi con quel carico di dolore? Non credo. Rendiamo omaggio a quella storia? Esattamente a quale? A quella di Cicognani, a quella del dottore, a quella del bisnonno di Bonaria, a quella dei carcerati? Sono storie molto diverse fra loro. Negli stessi anni in cui lo Stato italiano mandava i suoi reietti a Castiadas, l’Inghilterra li spediva in Australia e la Francia alla Guyana: Castiadas era meglio o peggio o semplicemente, non avendo colonie oltremare, il massimo che l’Italia poteva permettersi? Sono tutte domande cui il film dà, man mano, risposte ambivalenti. Poi, naturalmente, l’ambivalenza è anche stimolante nella misura in cui suscita la necessità di sciogliere il dubbio con risposte personali, come dirò fra poco, però certo non aiuta a dare una sensazione di compattezza al film (non aiutano neanche, devo dire, i fastidiosi inserti meditativi di una specie di sacerdotessa celtica in trasferta che si aggira per la macchia mediterranea – che sia coga, jana o spirito della terra non è chiaro – a cui toccano le battute più magniloquenti della sceneggiatura.

Anche con queste indecisioni, comunque, rimane l’esposizione di una storia notevole e un benemerito tentativo di portare alla coscienza collettiva un pezzo importante di storia della Sardegna che, come dicevo, suggerisce domande e spunti di approfondimento. Mi sono reso conto, per esempio, di essere abbastanza ignorante riguardo al dibattito culturale in Italia nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento sul senso della pena, sui motivi del crimine, e anche sul controllo della devianza; su questa linea mi sono anche chiesto, per esempio, chi fossero esattamente i detenuti politici che sono menzionati quasi alla fine, e come mai fra i cognomi dei galeotti che scorrono verso i titoli di coda ce ne siano tanti palesemente stranieri: erano zingari? O sloveni o comunque di territori sottratti all’Austria? Sono curiosità che mi piacerebbe soddisfare.

L’altro tema interessante è quello della fine della colonia, che viene smantellata nell’ambito delle operazioni di riforma agraria prima del fascismo e poi della Repubblica negli anni ’50, con la cessione dei terreni prima alle Bonifiche Ferraresi e poi, mi pare, all’ETFAS. È un passaggio interessante, un braccio di forza fra due diverse operazioni di riforma sociale che si contendono la stessa risorsa: da una parte la gestione della devianza e una qualche forma di reinserimento sociale, dall’altra la concessione della terra ai contadini poveri – o, se preferiamo, da una parte lo Stato imprenditore che sfrutta il lavoro a basso costo dei carcerati, dall’altro lo Stato che preferisce sacrificare introiti pe manipolare il consenso.

Il miracolo dei rei viene ripresentato a Cagliari nella programmazione all’aperto del Cinema Odissea alla Manifattura Tabacchi, il 25 luglio alle 21,30.

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