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Vermeer come scienziato

L’articolo che segue è stato pubblicato sul Times Literary Supplement. Dice cose su Vermeer forse non nuovissime ma comunque interessanti e poi Vermeer è un pittore che piace molto a Maria Bonaria e anche a me: quindi l’ho tradotto (la versione in lingua originale è del 6 gennaio). Laddove si citavano libri disponibili in italiano ho messo i riferimenti alle edizioni nella nostra lingua. La camera oscura di cui si parla non è quella per sviluppare le foto, ovviamente, ma quella che si chiamerebbe fotocamera stenopeica. Durante la discussione ha importanza l’espressione inglese eye of the beholder, che si traduce con “l’occhio di chi guarda”.

Comunque Maria Bonaria quando le ho chiesto della camera oscura mi ha guardato con commiserazione e mi ha detto: «È ovvio che lo sapevo».

Vermeer come scienziato

di Claudia Swan*

Un luogo comune relativo alla vita e alle opere del pittore olandese Johannes Vermeer che quel poco che sappiamo della vita è inversamente proporzionale a quanto intimamente ci relazioniamo alle sue opere. Si tratta solo di uno di molti contrasti che plasmano la nostra percezione dell’artista. Il suo pòiù giovane compatriota Rembrandt van Rijn (1609-69) può essere stato un corrispondente riluttante – solo sette lettere autografe sono sopravvissute – ma centinaia di quadri, disegni e incisioni esistenti e l’eredità di allievi e assistenti danno eloquente testimonianza ai percorsi e ai mezzi artistici di Rembrandt. Documenti d’archivio e un’ampia casistica di risposte a Rembrandt pubblicate, che risalgono all’indietro fino al 1629, quando era ventenne, mettono in grado gli studiosi di tracciare connessioni fra le sue varie composizioni in vari settori e gli eventi della sua vita. Quando affrontiamo con i capolavori che Rembrandt dipinse nell’ultimo decennio della sua vita, per esempio, la nostra empatia è stimolata dalla conoscenza della sua bancarotta del 1656, la sua vita personale complicata e la caduta in disgrazia subita. L’opera sopravvissuta di Johannes Vermeer, al contrario, consiste di tre dozzine di quadri ma non di un solo disegno, lettera o altra testimonianza autografa del processo di produzione di quelle che oggi sono ampiamente lodati come opere di gradimento eterno e universale.

Al tempo della sua riscoperta nel tardo diciannovesimo secolo Vermeer fu soprannominato la Sfinge di Delft. L’appellativo si è affermato nonostante ciò che è stato scoperto grazie a un continuo lavoro di archivio. Vermeer fu battezzato nella protestante Nieuwe Kerk di Delft nel 1632 e sepolto nella cattolica Oude Kerk di Delft nel dicembre 1675. Collegando questi e altri dati gli studiosi hanno ricostruito un impressionante ritratto del mondo di Vermeer – se non le relazioni fra i fatti della sua vita e i come e i perché dei sui lavori. Vermeer. L’artista, la famiglia, la città di J. Michael Montias (Einaudi 1997) ha cambiato la direzione degli studi su Vermeer introducendo un insieme di personaggi, compresa la sua suocera cattolica, e un mare di fatti che li riguardano. Sappiamo che gli antenati del pittore erano stati coinvolti in uno scandalo di contraffazioni, per esempio; e che lui, come suo padre prima di lui, era mercante d’arte. Sappiamo che al momento della morte di Vermeer dieci dei quindici figli che gli diede la moglie vivevano ancora in casa; uno era già andato via e quattro non erano sopravvissuti all’infanzia. Ma mentre i personaggi di molti dei lavori di Rembrandt sono cittadini di Amsterdam ben riconoscibili o amici, amanti e altre conoscenze, non siamo in grado di dire con certezza che Vermeer ritrasse anche se, grazie a Montias e altri, sappiamo chi faceva parte della sua vita familiare.

Ragazza orecchino perlaA parte la pubblicazione di documenti di archivio e di altre fonti, altri misteri continuare ad avvolgere la carriera artistica di Vermeer. Chi fu il suo maestro? Ebbe degli allievi? Che cosa provocò la sua morte, all’età di quarantatré anni, lasciando dietro di sé dipinti propri e altri che può darsi dovesse vendere, nessun disegno, una casa piena di bambini e pesanti debiti? Si affidava a una camera oscura o a altri innovativi strumenti ottici,  per comporre i suoi quadri? Queste domande senza risposta non impediscono tuttavia una meditabonda ammirazione per il suo lavoro. Mentre la sua casa, la Mauritshuis a L’Aia, era recentemente in fase di restauro, la Ragazza con l’orecchino di perla girava il mondo. In mostra in Giappone nel 2013 ha attirato oltre un milione di visitatori. La Monna Lisa del Nord è tanto largamente conosciuta, e spesso ammirata, tanto quanto è reticente riguardo alle condizioni della sua creazione o alla sua raison d’être. Una volta uno studente ha descritto il suo incontro con la Ragazza con l’orecchino di perla come equivalente a imbattersi nell’amore della sua vita e dimenticarsi di chiederle il nome. Ella è altrettanto coinvolta nel nostro guardarla quanto ne è assolutamente ignara e in questo senso è un appropriato simbolo dell’intero lavoro di Vermeer:  ciò che sappiamo, e ciò che pensiamo ci sia familiare, è per sempre minato dal suo rimanere inconoscibile e inaccessibile.

Discussa già nel tardo diciannovesimo secolo, la domanda se o in che misura Vermeer si affidasse a strumenti ottici come una camera oscura presente nel suo studio è stata recentemente al centro di una intensa indagine. Le sue molte donne in piena luce, colte nell’atto di fare nulla di particolarmente drammatico – indossare una collana di perle, versare il latte, scrivere, leggere o sonnecchiare sul tavolo – sono altrettanti ritratti di momenti nel tempo. I suoi quadri sono caratterizzati da uno spesso silenzio, acuta attenzione alle qualità della luce e fenomeni ottici che sono sintomatici dell’uso di lenti da vista. A dire il vero l’assenza di un qualunque flusso narrativo in tanti dei suoi dipinti ci spinge a studiarli come rese interpretative di condizioni di luce e configurazione spaziale – prendendoli per se stessi, per quello che erano, alla ricerca di indizi di come sono stati fatti invece che, per esempio, perché. C’è così poco materiale documentario su cui basarsi che i quadri stessi servono come (muta) testimonianza delle ipotesi su di loro.

Camera oscura – tramite Wikimedia Commons

La camera oscura, disponibile nel diciassettesimo secolo sia in formato portabile che della dimensioni di una stanza, è una struttura simile a una scatola costruita per bloccare tutta la luce tranne ciò che entra attraverso una piccola apertura su un lato. Questa apertura può essere fornita di una lente, per concentrare l’immagine proiettata all’interno della scatola. Quell’immagine è capovolta, e può essere raddrizzata da uno specchio all’interno della camera oscura oppure, come l’ingegnere Tim Jenison ha ipotizzato di recente, su un piccolo supporto tenuto sopra il quadro mentre si dipinge. Come il telescopio, inventato nella prima decade del diciassettesimo secolo in Olanda, e il microscopio, la camera oscura è una fra molti strumenti con i quali gli osservatori della prima età moderna appuntavano i loro sguardi verso nuovi orizzonti. Sebbene non sia rimasta alcuna prova che Vermeer possedesse un simile macchinario o che l’usasse, la teoria che lo facesse offre una spiegazione tecnica attraente di come facesse ciò che faceva così meravigliosamente.

Snyder Eye of the beholderMolte cose possono dipendere, come accade in Eye of the Beholder di Laura Snyder, sul presunto uso della camera oscura da parte di Vermeer. Caratterizzare i metodi di lavoro del pittore come sperimentali – scientifici, addirittura – ci permette di identificarlo come una controparte artistica dei suoi contemporanei impegnati impegnati nello studio empirico del mondo naturale, primo fra loro un altro abitante di Delft e padre della microbiologia come Anthony van Leeuwenhoek (1632–1723), principalmente conosciuto oggigiorno per i suoi progressi nella microscopia, che notoriamente si forgiò da solo le sue lenti e scoperse l’esistenza dei batteri e degli spermatozoi. Van Leeuwenhoek (egli adottò il prefisso “van” all’atto della sua elezione nella Royal Society di Londra nel 1673) e Vermeer non erano semplicemente cittadini notevoli di Delft; furono battezzati nella stessa chiesa a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e, dopo la morte del pittore, van Leeuwenhoek agì come suo esecutore testamentario. Numerosi autori hanno fatto notare risonanze reciproche fra le loro rispettive opere – maestro osservatore della natura e maestro cronista del mondo naturale, entrambi all’esplorazione di ciò che consisteva, come scrisse Robert Hooke, «nuovi mondi visibili appena apertisi alla comprensione».

Studi recenti hanno scoperto una rete di soggetti attivi a Delft nel diciassettesimo secolo che costruivano e procuravano lenti e strumenti come la camera oscura. Huib Zuidervaart eMarlise Rijks hanno suggerito che un certo Johan van der Wyck, che fabbricava lenti, telescopi e microscopi, si sia stabilito a Delft a metà del secolo e, presumibilmente, giochi un ruolo centrale in una ragnatela di relazioni che può spiegare come Vermeer potrebbe essere venuto in possesso dello strumento. I nomi e le coordinate che sono stati scoperti sono scintillanti, sebbene naturalmente essi si fermino prima di fornirci la spiegazione di come o perché Vermeer produsse le immagini che fece.

Di Van Leeuwenhoek, diversamente da Vermeer, sappiamo parecchio. Fu addestrato come impiegato di una ditta di mercanti di tessuti e fu un microscopista autodidatta che ottenne più tardi una tale fama che a volte faceva finta di non essere in casa quando i visitatori venivano a cercarlo. Si sposò due volte e fu sepolto all’età di novant’anni nella stesa chiesa nella quale era stato battezzato; il suo epitaffio lo identifica per nome e direttamente come membro della Royal Society di Londra. Scrisse lunghe lettere che riportavano i risultati delle sue osservazioni sotto ingrandimento di un vasto campo di campioni – fra cui scaglie di pelle umana, la placca di denti suoi e altrui, la lingua di un bue, il pelo di un alce, il cervello di una mosca, acqua da una varietà di fonti, acari e pulci e organi di pulci, e sperma, anche. Nel corso del suo lavoro Van Leeuwenhoek sottopose il mondo a portata di mano al suo sguardo attento e concentrato, uno sguardo spalleggiato da lenti straordinariamente ben preparate. Più guardava, più vedeva.

Vermeer astronomo
L’astronomo

Sebbene ammetta che «non c’è alcuna pistola fumante che provi definitivamente che essi erano amici o perlomeno conoscenti» Snyder ha impostato il suo studio su un insistito parallelo fra Van Leeuwenhoek e Vermeer. Secondo lei Van Leeuwenhoek introdusse un un nuovo modo di vedere il mondo e Vermee lo tradusse in pittura. «I dipinti di Vermeer erano in non poca misura esperimenti di ottica – come lo erano le prodezze nella microscopia del suo vicino di casa Leeuwenhoek». Decenni fa Arthur Wheelock ipotizzò che la figura rappresentata nel quadro di Vermeer L’astronomoIl geografo sia Van Leeuwenhoek, e suggerì addirittura che lo scienziato avesse commissionato i dipinti come ritratti; e quasi altrettanto tempo fa Montias costruì una convincente confutazione. Progettato per un pubblico poco avvezzo al terreno accademico, Eye of the beholder miscela informazioni piacevoli tratte dalla storia dell’arte dell’Età dell’Oro olandese, dei primordi della moderna scienza ottica europea e dalla storia e corrispondenza della Royal Society insieme con un quadro storico superficiale, senza inserire né una ricerca originale né materiali di studio non pubblicati in lingua inglese. Al contrario delle silenziose meditazioni di Vermeer sullo spazio e il tempo il libro procede ciarlando, fermandosi più o meno dove era iniziato – nel postulare una relazione che non può essere provata (tracciare connessioni fra Van Leeuwenhoek – che usò strumenti ben documentati per scandagliare le profondità dei campioni a portata di mano – e Galileo – che puntò il suo telescopio su viste lontane e pubblicò le sue osservazioni – avrebbe potuto essere più efficace). Laura Snyder dichiara che «sia Vermeer che van Leeuwenhoek usavano strumenti ottici come “occhi artificiali” per rafforzare gli organi naturali della vista» e che perciò «videro oltre ciò che era immediatamente apparente – per vedere di più di ciò che l’occhio coglie». Insistere su un parallelismo non lo rende tale, perlomeno non all’occhio di questo osservatore.

Claudia Swan è una studiosa di storia dell’arte olandese dell’Età dell’Oro e l’autrice di diverse pubblicazioni sulla prima arte e scienza moderne. È docente di Storia dell’Arte alla Northwestern University.

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