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Quel che succede quando ti capita di sposarti

Oggi è il nostro anniversario di matrimonio (sono tredici anni, di già).

A casa della sposa!
A casa della sposa!

E così l’altro giorno mi sono tornate in mente, all’improvviso, un po’ di cose capitate all’epoca del matrimonio. Ci avevo perfino elaborato sopra una teoria, ai tempi, detta degli sposi come fornitori di servizi. Mi sembra l’occasione buona per raccontarla.

Ma andiamo con ordine.

Io e Bonaria avevamo deciso per tempo per il matrimonio un programmino niente male. Fra cose che ci sembravano opportune e cose che non ci sembravano necessarie, era uscito fuori questo elenco indubitabilmente cattocomunista:

  • tutto un lavoro con don Fabio Trudu, liturgista di fiducia, per organizzare la parte della celebrazione del rito;
  • niente abito bianco per Bonaria;
  • niente bouquet di fiori per la sposa;
  • niente invitati; o meglio: abbiamo mandato tutti gli inviti necessari, ma l’idea era: viene chi vuole; e soprattutto, l’invito è unico: per la celebrazione e il rinfresco;
  • niente regali di nozze: indicazione di un riferimento bancario del Consorzio Etimos, che ai tempi faceva microcredito per Banca Etica, e devoluzione dei doni ai cafetaleros del Nicaragua;
  • niente ricevimento – o meglio, sobrio ricevimento, con un po’ di cose portate da noi e un po’ di contributi di alcuni parenti e amici;
  • niente torta multistrato;
  • confetti (fantastici! i più buoni che abbia mai mangiato) del Commercio Equo.

Devo dire che il programma venne accolto complessivamente abbastanza bene dai parenti più stretti e dagli amici; meno bene, con più di qualche sconcerto, fra i meno intimi.

Dimenticavo:

  • viaggio di nozze al paese-albergo di Riace, uno dei primi finanziamenti di Banca Etica.

Non poteva mancare, è chiaro.

Dicevo, comunque, che complessivamente i più entusiasti furono i ragazzi del gruppo it.arti.fantasy. Ci scrivevamo quotidianamente da un sacco di tempo, mi sembravano degli amici anche loro (anzi: lo erano e lo sono), e quindi scrissi sul gruppo: mi sposo… se volete venire, Chiesa di San Lucifero…

E quelli, entusiasti: wow!! una chiesa satanista!!

Ehm, no… poi comunque facciamo la festa all’Ex Mattatoio…

figo!!! una festa horror!!

Ecco, altre reazioni sono state un po’ più contenute, diciamo.

Matrimonio001Un po’ dipende dal fatto che nell’occasione ho imparato che non riesci mai a fare esattamente come volevi: per dirne una poco dopo aver fissato la data del matrimonio scoprimmo che l’agognato concorso per la stabilizzazione (quando ci siamo sposati eravamo entrambi precari) sarebbe stato poco dopo: siamo rimasti a Cagliari il tempo per sostenere le prove e siamo partiti per Riace solo dopo. Per dire.

Un po’ perché l’immaginazione ha sempre profili più alti. Io mi immaginavo il ricevimento come una specie di gioioso casino tipo coja de Damus comunitaria: è stato senz’altro gioioso e piuttosto comunitario, ma non casinista come credevo (forse dovevamo davvero giocarci la carta horror).

Anche perché qualche volta le difficoltà arrivano da posti inaspettati. Il parroco faceva una guardia arcigna alla liturgia, con pretese anche sorprendenti: non più di un prete sul presbiterio. Noi avevamo (abbiamo) diversi amici preti, ci aspettavamo che concelebrassero. Ci sembrava espressivo della comunità radunata per il sacramento, diciamo: sono preti, concelebrano da preti, gli sposi fanno i ministri del sacramento, eccetera.

Mai! Verboten.

Se no gli altri, quelli che non hanno amici preti, pensano che voi siete privilegiati.

Non troppo tempo sul presbiterio, mi raccomando! Se no poi sembrate privilegiati...
Non troppo tempo sul presbiterio, mi raccomando! Se no poi sembrate privilegiati…

Che è un’esigenza pastorale anche comprensibile, ma certo non corrispondeva a quell’immagine di chiesa ministeriale, radunata con i propri ordini e ruoli eccetera eccetera che avremmo voluto mostrare.

Per dire.

E comunque quando don Fabio che presiedeva ha citato Il piccolo principe tutte le mie colleghe si sono commosse. E tanti, devo dire soprattutto fra gli amici non credenti, si ricordano la liturgia del nostro matrimonio.

Alti e bassi, insomma.

Ma la lotta più dura, naturalmente, è coi fornitori. I quali, appena sentono menzionare la parola “matrimonio”, subito ti accarezzano con lo sguardo come il leone guata simpaticamente la gazzella.

Oh, disponibili, per carità: ricordo che Maria Bonaria, dopo aver sfogliato il catalogo delle torte nuziali di una nota pasticceria, chiese: «Ne avete anche con bassorilievi di scene di caccia?», e voleva essere ironica. E quelli, inappuntabili: «Ci deve solo fornire un bozzetto, signora». Nel frattempo, ovviamente, gli occhi assumevano la forma del dollaro come Zio Paperone.

E quindi devi rispondere colpo su colpo. Il primo punto è, naturalmente, non dire mai, assolutamente mai, che ti devi sposare. «Mi serve un abito per un’occasione elegante», «devo regalare dei fiori», sono espressioni un po’ vigliacche, forse, ma che ti permettono di sopravvivere all’ordalia e, tra l’altro, di avere un servizio migliore: l’abito che Maria Bonaria scelse alla fine, che era davvero come lo voleva, non sarebbe mai saltato fuori se la commessa fosse rimasta focalizzata sulla parola “matrimonio” (con gli annessi “bianco”, “meringa”, “strascico”, eccetera).

Ma coi fornitori, tutto sommato, ci hai a che fare molto poco. Molto di più con parenti e amici.

Che bella sposa!
Che bella sposa!

La storia della rinuncia ai regali fu la cosa accolta meglio, tutto sommato. Qualcuno si preoccupò di sapere se noi avremmo visto la distinta delle donazioni, e perciò quanto ciascuno aveva versato. Una zia insistette per regalarci comunque un elettrodomestico. Sono cose che ci stanno, complessivamente.

Quello che invece creò molti più problemi fu il resto dell’opera di disinfestazione degli aspetti più esteriori del matrimonio che avevamo intrapreso: «Come, niente torta nuziale?», «Niente abito bianco?», «Niente auto con i fiocchi e i pizzi?».

Era un dispiacere vero che mi sconcertava. Avevo sempre pensato che il matrimonio fosse la nostra festa, e che nell’occasione tutti dovessero fare a gara per fare piacere a noi. Invece eravamo noi che dovevamo fare piacere a loro: se no li stavi tradendo, gli toglievi qualcosa di importante – se tu non hai l’abito bianco e non entri in chiesa in processione, come faccio io a commuovermi?

In questo senso mi ricordo che all’epoca mi sono convinto che quando ti sposi non sono gli altri a farti la festa – o forse sì, ma in altro senso, si potrebbe dire – ma sei tu che fornisci alle persone una specie di servizio.

Il che, ripensandoci, in un certo senso è anche giusto, entro certi limiti: se vuoi farli partecipi della tua festa contano anche le loro esigenze, in qualche modo, altrimenti non inviteresti nessuno nessuno nessuno e ti potresti far la festa a tua esatta misura. L’importante è ricordare che alla fine è il tuo matrimonio, e devi avere te l’ultima parola.

Tranne il parroco. Anzi, tranne la sacrestana. A lei non avevamo pensato: e dopo tante aspirazioni di sobrietà lei ci preparò come sedie due specie di troni monumentali tutti infiocchettati di bianco.

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