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Giocando a fare Gesù

L’articolo che traduco qui di seguito, uscito su Wired nel 2011 col titolo «Chain World videogame was supposed to be a religion – not a holy war», cioè più o meno: «Il videogame Chain World doveva essere una religione, non una guerra santa», è così interessante e bizzarro che merita di essere riproposto anche dopo due anni, per non parlare del fatto che mi consente di raccontare (alla fine, dopo la traduzione) altre due cose importanti e in qualche modo collegate.

Rispetto ad altre traduzioni ho limitato le “note di Rufus” e nel caso di cose intraducibili o poco conosciute in Italia ho messo il link a pagine esplicative di Wikipedia o ai siti originali.

Al titolo originale sostituisco un proverbio italiano:

Gioca coi fanti ma lascia stare i santi

di Jason Fagone

Jason Rohrer è altrettanto noto per il suo eccentrico stile di vita che per i giochi brillanti e insoliti che progetta. Vive per lo più lontano dai riflettori, nella città di Las Cruces nel deserto del New Mexico. Non possiede un’automobile né crede nelle vaccinazioni. Ha 33 anni e lavora in casa, dove scrive codice seduto su una sedia aggiustata col nastro da pacchi. Accompagna suo figlio Mez alle lezioni di ginnastica o di teatro sulla sua bicicletta reclinata verde elettrico, e nei fine settimana dipinge con l’altro figlio, Azya (ha preso il nome Mez da una targa automobilistica, e quello di Azya mescolando le tessere dello Scrabble).

mf_chainworld_fLa mattina del 24 febbraio Rohrer si prese una pausa dallo scrivere codice e pedalò fino al locale Best Buy. Pagò 19,99 dollari per una chiavetta USB di plastica nera da 4 gigabyte. Il giorno dopo raschiò via il logo dalla chiavetta, dandogli un’aria di metallo sabbiato che gli ricordava qualcosa di Mad Max. Poi, usando i colori acrilici di suo figlio, dipinse uno schema unico su ciascun lato, una serie di punti che assomigliavano a un’opera d’arte aborigena che aveva visto.

La pennina avrebbe ben presto contenuto un gioco elettronico diverso da qualunque altro mai creato. Sarebbe esistito nella chiavetta e da nessuna altra parte. In base a una serie di regole stabilite da Rohrer solo una persona per volta al mondo avrebbe potuto giocare il gioco. Il giocatore avrebbe modificato l’ambiente di gioco man mano che ci si muoveva dentro. Poi, dopo che il giocatore fosse morto nel gioco, avrebbe passato la chiavetta a un successivo giocatore, che avrebbe giocato nell’ambiente digitale alterato dal suo predecessore – e così via per anni, decenni, generazioni, epoche. Secondo l’idea di Rohrer il suo gioco avrebbe condiviso molte caratteristiche con la religione – un’arca sacra, una serie di comandamenti, un senso di segretezza e mortalità e mistica anticipazione. Questa almeno era l’idea, in ogni caso, prima che le cose si facessero bizzarre. Prima che Chain World [“Mondo a catena”, NdRufus], come la religione stessa, mutasse fuori controllo.

Rohrer svelò Chain World alla Game Design Challenge del 2011, tenutasi il 4 marzo alla Game Developers Conference a San Francisco. La challenge è fondamentalmente una gara: tre autori di giochi competono nel costruire un videogame che faccia qualcosa di pazzescamente ambizioso che un videogame non dovrebbe essere capace di fare, come raccontare una storia d’amore o vincere il Nobel per la Pace. Gli autori hanno circa sei settimane per arrivare a un progetto o prototipo basato su un tema scelto dagli organizzatori, e hanno poi quindici minuti per “venderlo” a un pubblico in sala. Chi riceve più applausi è dichiarato il vincitore. La sfida è un modo per i migliori cervelli del campo per esibire i loro mezzi, e anche un segnale di quanto velocemente si sono evoluti i giochi. Quando l’autore di giochi Eric Zimmerman lanciò la prima sfida sette anni fa, un videogame era tipicamente prodotto da una squadra di artisti e programmatori in una grossa azienda come Electronic Arts; c’erano armi da fuoco e tette tridimensionali e lo giocavi su un PC o una console. Oggi ci sono numerosi festival di giochi indipendenti dove persone come Rohrer – personalità autoriali che lavorano da sole o in piccoli gruppi e i cui giochi possono essere concettualmente innovativi, individuali, o semplicemente bizzarri – discutono di come i videogame possono diventare la grande forma di espressione artistica del XXI secolo.

La sfida è il solo posto dove esponenti dei due estremi dell’industria possono incontrarsi ogni anno come eguali. Il vincitore della sfida inaugurale, nel 2004, è stato Will Wright, noto per SimCiry/Sims: il suo gioco dell’amoretrasformava un normale sparatutto della II Guerra Mondiale in un “baciatutto in prima persona”. L’anno scorso il campione è stato espresso dal mondo indie: Jenova Chen, autore di giochi sorprendenti e molto zen come flOw e Flower, ha vinto il premio per un’idea che ha chiamato Heavenville, una specie di borsa che misura la valuta sociale di persone decedute.

Zimmerman, l’organizzatore della sfida, decise che il tema di quest’anno sarebbe stato Più grande di Gesù: giochi come religione («Il mio primo pensiero fu: oh mio Dio, non potrebbe esserci un tema per me più inadatto da affrontare», dice Rohrer. «Sono ateo»). Giungeva a proposito, poiché molti dei territori più vivaci nel mondo del gioco oggi riguardano i modi con i quali i giochi possono influenzare il nostro comportamento quotidiano. Giochi collettivi di grande popolarità come Farmville e i suoi cloni permeano la vita quotidiana in un modo che è tanto sottotraccia quanto ubiquo. L’idea complessiva che le meccaniche di gioco dovrebbero permeare la vita è conosciuta come gamificazione. Ci sono usi commerciali della gamificazione (indurre i consumatori a aderire più strettamente a un marchio o un servizio) e politici e filantropici (indurre le persone a usare meno combustibili fossili, per esempio), ma in ogni caso i sostenitori della gamificazione cercano di sovraimporre al mondo un invisibile sistema di ricompense. Molti giocatori trovano questo stile paternalista, come se i giochi fossero semplicemente scatole di Skinner [uno strumento usato per addestrare cavie, NdRufus] per manipolare le persone che così acquistano hamburger o fanno offerte per il Darfur. E se i detrattori della teoria hanno un campione, questi è Jason Rohrer. Più di qualunque altro autore di giochi Rohrer incarna l’idea che i giochi possono avere fine in se stessi, espressioni dell’ineffabile. Il suo titolo più famoso, Passage – “Passaggio”, simula una vita intera in cinque minuti. Inside a star filled sky – “Dentro un cielo pieno di stelle” è uno sparatutto che esplora l’idea di infinito. «Tutte le sue idee si combinano pragmaticamente in un modo che sembra essere spirituale solo per una felice coincidenza, ma in realtà dipende dal fatto che è un progettista molto intelligente», dice Leigh Alexander, un giornalista che ha seguito la sfida di quest’anno per il sito di informazioni sull’industria del gioco Gamasutra.

Rohrer si rivelò il solo dei tre concorrenti ad affrontare davvero direttamente il tema. Il campione in carica Jenova Chen, rivolgendosi a una stanza strapiena di un migliaio di giocatori che twittavano o bloggavano in diretta come pazzi, pronunciò un vago, tortuoso monologo sul consumismo e la psicologia positiva, prima di proporre una specie di congegno alimentato dal feedback degli utenti per il sito del TED. La sua relazione fu accolta dal silenzio, seguito da un educato, confuso applauso. John Romero fu più energico e se la cavò meglio. Il cocreatore di Doom e Quake condusse il pubblico attraverso un gioco che si snodava in tempo reale, una simulazione della prima cristianità basata su un profiloTwitter che aveva appena creato. Romero proclamò che i primi dodici follower di @messiah6502 sarebbero stati “apostoli”, alla ricerca di seguaci nel pubblico e operanti “miracoli”.

Jason_RohrerRetrospettivamente la cosa notevole dell’intervento di Rohrer è quanto fu diretto. Sulla base dei suoi giochi te lo immagineresti malinconico e severo, ma di persona è del tutto spumeggiante. Alto più di due metri e magro come un chiodo con una bella faccia emaciata, Rohmer salì sul podio con addosso dei jeans larghi e una felpa e in tredici minuti catturò l’immaginazione del pubblico, non col descrivere qualche estatica visione ma semplicemente spiegando passo passo il processo con cui aveva risolto un problema difficile.

Come si progetta un videogame che, in un certo senso, sia una religione, specialmente se sei ateo? Rohrer cominciò spiegando il genere di pratica spirituale che lo interessa, che ha a che fare con i misteri fisici della esperienza umana di ogni giorno. Rohrer raccontò di suo nonno, un uomo pittoresco che ricoprì il ruolo di sindaco in una piccola città dell’Ohio e che lasciò dietro di sé un’eredità che ben presto si volse in leggenda – la casa che aveva costruito e l’autostrada il cui percorso aveva deviato, obbligandola a girare attorno alla sua città («È il tornante di mio nonno», disse Rohrer, proiettando la diapositiva di una deviazione nella I-77). Nella famiglia di Rohrer questi luoghi fisici erano stati trasformati in una specie di altari. «Noi siamo dei per coloro che vengono dopo di noi», disse Rohrer alla folla.

Voleva che il suo gioco spingesse i giocatori a contemplare i monumenti di questi dei, il che significava che aveva bisogno di un ambiente dove si potessero costruire cose che i giocatori successivi potessero scoprire per caso e meditare. Proiettò una diapositiva di Minecraft, che è una specie di incrocio fra un gioco d’avventura e un’inesauribile scorta di mattoncini Lego virtuali. Minecraft permette di vagare attraverso pianure, montagne e deserti, deponendo cubi colorati per costruire ripari o praticamente ogni cosa che tu possa immaginare. YouTube è pieno di filmati nei quali compaiono ambienti di Minecraft costruiti dai giocatori: panorami cittadini con grandi pixel squadrati, famosi punti di riferimento come il monte Rushmore, pietre di paragone per smanettoni come l’Enterprise di Star Trek. Chain World, spiegò Rohrer, era un mod, una versione personalizzata di Minecraft con un insieme di programmi che stabilivano come si potesse giocare. Ed ecco la parte brillante: stava tutto su una singola chiavetta USB.

Rohrer poi cavò fuori dalla tasca dei jeans la pennina dipinta a mano. «Questa è l’unica al mondo», disse. «E queste sono le regole, la legge canonica di Chain World». Spiegò i suoi comandamenti. Non erigere segnali – le tue creazioni devono parlare per se stesse. Gioca finché muori esattamente una volta – niente riprese o nuovi inizi (zombie e ragni talvolta si materializzano per tormentare i giocatori durante le esplorazioni). Non parlare mai di ciò che hai visto o fatto. E poi passa la pennina a qualcuno che “esprime interesse”. Rohrer disse di essere stato il giocatore uno, il primo a lasciare un segno su Chain Word. «Ho avuto una delle morti più strazianti e emozionanti, e piuttosto troppo presto, che ho mai sperimentato in un videogame», disse. «E mio figlio, che mi sedeva accanto, era in lacrime, e voleva strappare questa chiavetta dal retro del mio computer e calpestarla. “Non abbiamo fatto niente per loro! Non abbiamo lasciato niente per loro da scoprire!”». Sospirò. «Così, qualcuno del pubblico sarà il giocatore numero… due», disse Rohrer, tenendo alta la pennina davanti a sé. Il pubblico esplose in un’ovazione, e Rohrer vide numerose persone che conosceva nelle prime file che allungavano la mano. «Non posso darla a un amico», rise.

Poi il relatore che interpretava Dio guardò in basso e vide uno storpio, in piedi davanti a lui. Era basso e aveva occhiali senza montatura. Con una mano teneva una stampella di metallo, e con l’altra si protese verso Chain World.

«Non posso credere che succeda così», pensò Rohrer. Pose la chiavetta nel palmo della mano dell’uomo. Quel che disse subito dopo fu male interpretato come «Sii guarito» da diverse persone, ma fu in realtà più un verso di sorpresa: «Hunn-yaaaaaayy!». Rohrer tornò sul palco, e l’uomo con la stampella mormorò: «Grazie», e chinò il capo verso la folla.

Rohrer vinse facilmente il voto per applauso, e la notizia di Chain World ben presto si propagò fuori della sala. Un commentatore per l’appassionato sito IGN traboccava entusiasmo: «Venerdì 4 marzo ho assistito a qualcosa di incredibile». Un commentatore per il sito britannico dedicato al gioco, Sasso, carta, fucile a pompa, pubblicò: «Mi sento disperatamente triste per il fatto che quasi certamente non vedrò mai Chain World, ma sopraffato dalla gioia che sia lì fuori, da qualche parte, a evolvere in segreto».

Jia Ji, l’uomo a cui Rohrer consegnò Chain World, non è in realtà handicappato. Ciò che è, dice, è «un po’ imbranato». Il giorno della sfida aveva una stampella perché, la notte prima, si era fatto male ballando alla festa per gli operatori dell’ambiente offerta da Electronic Arts.

A quanto dice Ji, nel momento in cui si alzò in piedi nella prima fila e si appoggò alla stampella per afferrare la chiavetta, tutto quel che aveva in mente era: «Bel gioco. Voglio giocarlo». A ventisette anni si era barcamenato per anni ai confini dell’industria del gioco, progrettando programmi per il fitness destinati ad anziani (pensate a una versione da terza età di Dance Dance Revolution) e programmando algoritmi floreali per un gioco multigiocatore online chiamato A tale in the desert– “Un racconto nel deserto”. Nel 2008, dopo che un terremoto devastò la provincia cinese del Sichuan, in cui Ji è nato, spostò il suo interesse verso la beneficenza, lanciando la startup Couchange.org per aiutare organizzazioni senza fine di lucro a raccogliere fondi tramite l’accettazione di donazioni di “potenzialità abbandonate”, come sconti per programmi di fedeltà di viaggiatorio vecchie carte omaggio.

Venti minuti dopo la sfida a Ji capitò di incontrare una donna con i capelli come Riccioli d’Oro, di nome Jane McGonigal, che scendeva le scale mobili al centro congressi. McGonigal è la principale divulgatrice della gamificazione: ha scritto il best seller La realtà è fallita riguardo alla capacità dei giochi di cambiare il mondo e l’ha presentato al Colbert Report. Una vaga idea cominciò a formarsi nella testa di Ji, un nuovo scopo per Chain World. Chiese a McGonigal se avrebbe voluto giocarlo in un qualche momento futuro, per una buona causa. Lei prontamente accettò. Ormai in “modalità raccolta fondi” Ji racconta di avere ottenuto una promessa simile da Will Wright. Nella visione di Chain World di Ji un “dilettante” avrebbe fatto un’offerta per la possibilità di essere il prossimo ad avere la chiavetta, per poi passarla a una celebrità che modificasse il mondo, per poi passarla al successivo amatore che facesse la puntata più alta. In questo modo dilettanti e professionisti avrebbero giocato nello stesso campo, «più o meno come i tornei di golf per beneficenza», spiega Ji.

Ma chi era Ji per alterare l’idea originale di Rohrer? Beh, ma non è questo il punto centrale del gioco? In quanto giocatore «tu sei il dio di Chain World», dice Ji. «Puoi fissare i comandamenti».

Dalla Game Developers Conference Ji si recò direttamente alle Hawaii. Avrebbe passato i successivi tre mesi percorrendo i sentieri della Grande Isola, dormendo da ospiti improvvisati e per un periodo coabitando con una comunità di hippie a cui prestava il suo aiuto per raccogliere denaro. Per proteggere la chiavetta di Chain world dall’umidità Ji la trasportava dentro la sua sacca di medicine d’emergenza, che conteneva anche gel anestetico, un lettore di carte di credito per iPhone, e assorbenti («per, tipo, ferite sanguinanti») [in inglese c’è un riferimento al videogame Warcraft, perché la ferita è riferita come gushing wound, “una ferita che fiotta sangue”, che è anche il nome di un noto incantesimo di attacco in quel gioco. e se non capisco male, vuol dire che l’immaginario di Ji è dipendente dai videogame, NdRufus].

Una settimana dopo la sfida, Ji mise un annuncio su eBay per la chiavetta. «Questa asta di beneficenza è per la posizione di terzo giocatore di Chain World«, scrisse, precisando che il vincitore dell’asta doveva acconsentire ad inviare il gioco a McGonigal dopo averlo finito. Mise il collegamento a un sito senza troppi fronzoli, chainworld.org, dove elencava le posizioni dei gocatori futuri; Will Wright era indicato come il numero sei. I guadagni avrebbero sostenuto Gamers Give Back – “I giocatori restituiscono” – che fornisce videogame gratis a bambini malati. Il giorno seguente la migliore offerta era solo di 25 dollari. Ji suppose che l’asta fosse un fallimento.

Darius Kazemi, un autore di giochi di Boston, era alla Game Developers Conference ma si perse la Game Design Challenge. Tuttavia vide le persone uscire dal seminario «con lo sguardo sognante, e dicevano quanto fosse straordinario il gioco fatto da Jason» e quando vide la pagina dell’asta di beneficenza, insieme con la dettagliata lista delle posizioni future su chainworld.org, prese a «schiumare di rabbia». Il fatto che un affascinante oggetto artistico fosse stato immediatamente mercificato e chiuso dietro un cancello a pagamento era troppo da sopportare: «Era come un omicidio estetico», dice.

Kazemi decise di fare lui stesso una puntata per la chiavetta, non solo per giocare Chain World ma anche per poter «riportare il gioco alla libertà». Scrisse anche un commento al vetriolo su chainworld.org, che ripubblico sul suo blog personale, facendo di fatto scattare l’allarme nell’ambiente artistico del gioco. Ben presto Ji e McGonigal vennero travolti da mail e tweet negativi. Un commento espresse il desiderio che il recente tsunami «avesse ucciso Ji e trascinato sui flutti la chiavetta fino a qualcuno che seguisse le regole» (McGonigal si difese contro un critico su Twitter: «Davvero ti fa adirare che si raccolgano soldi per bambini malati? Santo cielo»; Wright dichiara a Wired che non ricorda che gli sia stato chiesto di giocvare). Perfino il creatore fece un’apparizione: «So’ ner vostro tempio a rovescia’ li tavoli» twittò >Rohrer [ho usato il romanesco perché nell’originale Rohrer scrive in un misto di sgramamticato e colloquiale, NdRufus], invocando la furia di Gesù contro i cambiavalute, aggiungendo specificamente: «Chi vince l’asta di Chain World non dovrebbe spedirle (a Mc Gonigal) la chiavetta».

Man mano che la temperatura retorica saliva, altrettanto faceva il prezzo della chiavetta. Disperato, Kazemi chiese aiuto agli amici per tenere dietro alle offerte, ottenendo alla fine 875 dollari da quindici persone, ma non fu lontanamente sufficiente. Il vincitore fu un anonimo che si faceva chiamare Positional super Ko, un riferimento a una regola del gioco di scacchiera Go. Per il diritto di giocare esattamente una volta un gioco elettronico usato, Positonal super ko acconsentì a pagare 3.300 dollari.

Man mano che lo scisma di Chain World cresceva, originando centinaia di tweet, è stato possibile identificare diversi fatti che la semplice creazione di Rohrer ha rivelato riguardo ai giochi, alla religione, e al comportamento umano:

  1. Rohrer e Ji il giorno della sfida
    Rohrer e Ji il giorno della sfida

    Niente. «È performance art. Rohrer e Ji sono complici, e interpretano ruoli predefiniti. «Macché», scrive Rohrer per mail, aggiungendo: «Il signor Ji è una forza della natura, un fenomeno, e non lo intendo in senso positivo».

  2. La religione è stupida. «La cosa che preferisco al riguardo», ha scritto in un gruppo di discussione Franz Lantz, direttore creativo della sezione di New York di Zynga, «è che rivela il profondo malessere focalizzato sulla morte che è la religione, una mescolanza letale di solipsismo maniacale, schizofrenia paranoide, idealismo platonico, banale marketing pramidale, autentico collettivismo di base e buon vecchio risentimento».
  3. Una religione è più del suo testo sacro. «Non si tratta di qualcosa che io avrei voluto che accadesse», disse Rohrer. «D’altra parte è interessante che [Ji] possa aver preso qualcosa che io ho fatto e lo abbia usato per irritarmi». Se la religione è qualcosa che riguarda abitudini e rituali, non testi sacri, allora Ji è stato un dono per Chain World, che lo ha arricchito oltre le possibilità del suo creatore.
  4. Rohrer e altri artisti-autori di giochi si prendono troppo sul serio. Ji ha fatto un favore al mondo del gioco sgonfuiando la presunzione di una comunità chiusa.
  5. Rohrer è un genio. Le regole che Rohrer ha iscritto in Chain World sono così astute che «anche qualcosa che sembra essere una perversione dell’idea dell’autore serve solo a rinforzare la metafora», dice Alexander di Gamasutra. Detto in altro modo: Rohrer ha fatto un gioco sul come la religione sia in fondo delle storie che tu racconti sul passato. Ora le persone non stanno solo creando storie imprevedibili nel gioco, ma costruendo miti riguardo al gioco. «Ha quasi preso una sua forma autonoma», dice il teorico dei videogame Ian Bogost. «È sia spaventoso che bello».
  6. Rohrer è “dio”. Alcune delle opere narrative preferite da Rohrer – il romanzo Fuoco pallido di Vladimir Nabokov, il film Memento di Christopher Nolan – mettono in scena narratori inaffidabili. È difficile sfuggire alla sensazione, per quanto assurda, che con Chain World l’artista abbia evocato il suo proprio narratore inaffidabile, che Ji sia, in un certo senso, una cratura del gioco.

Nella tarda primavera, con il conto in banca di Rohrer prosciugato e la sua famiglia in difficoltà nel tirare avanti con le vendite dei suoi giochi sulla morte e la consaspevolezza e l’infinito, prese in considerazione l’idea di fare una versione online di Chain World e far pagare qualcosa alle persone per giocare. Una reddtizia Riforma di Chain World. «Avevo tipo dollari nelle pupille», dice, con l’aggiunta: «come ogni fondatore di religione che si rispetti».

Nel frattempo, la storia di Chain World stava per conoscere un’altra strana svolta. Su Twitter l’anonimo vincitore dell’asta su eBay aveva preso a scrivere criptici kōan riferiti al Go riguardo all’evitare «stalli poco interessanti». Positional super Ko, in una chat con Wired, ha svelato solo di essere una donna che vive in una grande città degli Stati Uniti, e che il suo obiettivo è quello di «restituire un senso di mistero all’intera faccenda». Non ha voluto dire se ha intenzione di spedire la chiavetta a Jane McGonigal dopo aver finito di giocare.

Super Ko sembra accogliere la visione del gioco originale di Roher e rifiutare quella di Ji – e, sorprendentemente, anche Ji sembra voler restaurare un senso di mistero a Chain World. «È letteralmente un fardello avere questo oggetto, cosa che credo sia vera di un mucchio di manufatti sacri», ha dichiarato ai primi di aprile. «Voglio liberarmene».

Promise di usare 1.000 dei dollari dell’assegno di super Ko per finanziare Gamers Gve Back e di riservare gli altri all’aiuto per lo tsunami e altre cause hawaiane. E in maggio scrisse per mail: «Il vincitore dell’asta ora ha la chiavetta originale». Ma fornì anche il colelgamento a tre filmati. Nel primo si inerpica su per un imponente banano nel Rifugio fatato di Pele ‘Aina, una comunità hippie nella giungla. Ji ha un aspetto sano e sciolto e indossa una collana di roccia lavica con un ciondolo a forma di chiavetta. Nel secondo spezzone consegna la pennina a un uomo silenzioso a torso nudo che impugna un bastone di legno: Ji si rivolge a lui come al “Guardiano del Tempio”. Il terzo mostra Ji su un punto d’osservazione in cima al vulcano Kilauea, con fessure laviche dietro di lui che sfiatano fumo. «Questo oggetto mi ha causato molta sofferenza», dice, mostrando alla videocamera una pennina. Questa aveva un colore di metallo sabbiato ed era dipinta con una catena di puntini. «Sono abbastanza sicuro di poterla far arrivare nella lava», fa Ji. Sorridendo conta fino a tre e sembra lanciarla in un lungo arco oltre il bordo.

Roher ha visto il fimato, e crede che Ji abbia solo fatto finta di lanciare la pennina. «Penso che ciascuno di questi video sia solo una messa in scena per mascherare dove in realtà si trovi Chain World». Il suo è un tono di divertita, distante curiosità, non preoccupazione. In definitiva ha deciso di non costruire una versione online del gioco: il tempo è limitato e ci sono altri mondi, più nuovi, da creare. «Guardare questi video mi ricorda perché non vivo in una comune. Ma le Hawaii sembrano un posto piuttosto bello».

Come prosegue la storia

L’articolo è uscito nel 2011. Come detto all’inizio ho un paio di integrazioni da aggiungere, ma prima riporto per esteso le regole scritte da Rohrer, che nell’articolo originale erano in un box laterale (non sono comunque niente di che). I video di cui parla l’articolo, invece, sono disponibili suWired all’indirizzo che ho linkato all’inizio di questo post. Io li ho guardati e la descrizione non è molto precisa (e il “guardiano” del tempio fa veramente ridere) comuque ognuno può farsi la sua opinione.

I nove comandamenti di Chain World

  1. Fai girare Chain World attraverso uno dei programmi di lancio run_chainworld inclusi.
  2. Inizia una partita per un solo giocatore e scegli Chain World.
  3. Gioca finché muori esattamente una volta. 3a. Innalzare segnali con testo è proibito – le tue opere devono parlare per se stesse. 3b. Il suicidio è consentito.
  4. Immediatamente dopo essere morti e ricomparsi, esci al menù.
  5. Aspetta che il mond si salvi.
  6. Esci dal gioco e aspetta che il programma di lancio automaticamente copi di nuovo Chain World sulla chiavetta di memoria.
  7. Passa la pennina USB a qualcun altro che esprime interesse.
  8. Non discutere mai ciò che hai fatto o visto in Chain World con nessuno.
  9. Non giocare mai più.

Provaci ancora, Jason

Tutta questa roba ha un sacco di spunti e di letture possibili, ma preferisco dire la mia opinione nei commenti, se a qualcuno verrà la voglia di discuterne. Noto solo che un commento che ho letto (forse su Wired) più o meno diceva: «Wow, nella lava come l’Unico Anello», confermando come questa storia trasudi spunti e rimandi simbolici da ogni poro.

Segnalo poi il sito di Rohrer (piuttosto – molto – spartano), ma l’aggiornamento più importante riguarda la Game Design Challenge, che nel 2013, arrivata alla decima edizione, è stata chiusa. Il tema del 2013 era “L’ultimo gioco dell’umanità” e ha vinto nuovamente Rohrer (c’è un lungo articolo su Rock, Paper, Shotgun che spiega tutta la sfida, a cui hanno partecipato, credo, tutti i vincitori delle precedenti edizioni). Rohrer ha interpretato il tema creando un insieme di regole per un gioco da tavolo, facendole testare da ua intelligenza artificale programamta per questo scopo, in modo che il gioco non fosse mai provato da alcun umano, nemmeno da lui, costruendolo poi fisicamente in titanio, in modo che fosse praticamente eterno, e infine seppellendolo in un luogo sconosciuto del deserto del Nevada. Sconosciuto? Non proprio: ha diviso il deserto in un milione di coordinate GPS diverse, ne ha scelto una a caso e ha seppellito lì il gioco. Poi al pubblico della sfida ha distribuito, in busta chiusa, 900 di queste coordinate: una sola di queste, in una sola busta, è quella giusta. Quest’uomo è un genio (e se vi capita di passare nel deserto del Nevada, date un’occhiata: non si sa mai).

Nel frattempo a Cagliari…

Una qualche eco dell’idea di Rohrer si ritrova in un progetto molto interessante che è in svolgimento a Cagliari proprio in questi giorni. Si tratta di un esperimento di scrittura collettiva “itinerante” pensato da un’associazione culturale di giovani creativi, WhatAboutSardinia. In pratica in tre luoghi della città (io l’ho visto da Corso Piazza Repubblica Libri) sono state “liberate” tre pennine USB che contengono l’incipit di un romanzo (di Francesco Abate). Chi ritira la pennina ha 72 ore per aggiungere un pezzo di storia e poi restituire la chiavetta dove l’ha presa, in modo che qualcun altro possa proseguire la narrazione. Il tutto finirà il 1° luglio, quindi chi vuole incidere sulla storia si affretti!

Facebook Comments

7 pensieri riguardo “Giocando a fare Gesù

      • NON HO LETTO NEANCHE UNA PAROLA
        MA SICURAMENTE È INTERESSANTE
        ADORO L’INFORMATICA 🙂 🙂 🙂 🙂 🙂

        Rispondi
  • Pingback: Giochi che dicono qualcosa

  • Pingback: Come bruciare quattrocentomila dollari in un giorno solo | La casa di Roberto

  • Sarei davvero curioso di provare Chain World ^ ^ mi chiedo se appartenga a qualche genere classico o se invece dentro la chiavetta ci sia… nulla e chi l’ha usata tenga solo il gioco a Rohrer.

    La storia offre anche degli spunti di riflessione interessante sul fatto che valga di più l’esigenza di provare una soddisfazione estetica (giocare il gioco secondo le modalità originali) o quella di usare il gioco per sostenere cause di beneficenza.
    È un peccato, che poi non abbia tirato su la versione online: avrebbe potuto essere un ibrido originale tra il concetto di MMO e quello di coin op da vecchia sala giochi – magari vendendo un carnet di partite a un paio (alla sarda) di dollari, tanto per non spendere più in commissioni che in beni 😛

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    • Se non sbaglio Chain World è almeno parzialmente un clone di MineCraft.

      L’idea della versione online è… stuzzicante.

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