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Vivere in Arabia Saudita

Avrete visto che quando ho scritto la recensione de La bicicletta verde mi sono chiesto come si viva veramente in Arabia Saudita.

La risposta non la so, naturalmente, ma a quanto pare dovrebbe essere: male, se sei un lavoratore straniero, e soprattutto una lavoratrice.

Il caso di Rizana Nafeek

2013-01-11-rizana-nafeekIl 9 gennaio è stata decapitata (con la spada…) Rizana Nafeek, una giovane cingalese che come molte connazionali lavorava come baby-sitter presso una famiglia saudita. Era accusata di avere soffocato la bambina che le era stata affidata, dopo un litigio con la madre: a sua difesa dichiarava invece che la bambina era morta accidentalmente mentre la allattava col biberon.

La condanna è stata eseguita ora ma il fatto è avvenuto nel 2005: sul processo e sulla sentenza è lecito nutrire dubbi. La prova principale era una confessione (scritta in arabo, lingua che la Nafeek non conosceva) che sarebbe stata estorta con la forza; durante il procedimento la ragazza non ha avuto accesso a sufficiente assistenza (legali, interpreti) e oltretutto esistono fondati dubbi sull’età dell’imputata. Secondo la legge dello Sri Lanka infatti non possono essere assunti per il lavoro all’estero coloro che non sono maggiorenni, ma la famiglia di Nafeek dichiara che la figlia al momento di partire aveva 17 anni e che il passaporto era stato alterato per potere comunque emigrare, una pratica illegale ma a quanto pare piuttosto diffusa e tollerata dalle autorità. Poiché le convenzioni internazionali a cui anche l’Arabia Saudita aderisce vietano la condanna a morte di minorenni, se questo fosse vero la condanna sarebbe illegale anche nel caso (dubbio) di effettiva colpevolezza.

Allargando un po’ il campo

CatturaAl-Jazeera ha dedicato al caso un servizio che è disponibile su YouTube e che contiene molte informazioni: per chi non parla l’inglese provo a dare io alcune informazioni, prendendo anche da qualche altra fonte.

Secondo un rapporto di Human Rights Watch ci sono oggi in Arabia Saudita circa un milione e mezzo di lavoratrici domestiche (su un totale di circa ventisette milioni di abitanti, di cui una ventina cittadini sauditi) principalmente provenienti dall’Asia Sud-Orientale (Philippine, Sri Lanka, Indonesia). La loro situazione è controversa:

Migration offers both opportunity and risk. Perhaps nowhere is this more apparent than in the tremendous flows of contract labor between Asia and the Middle East. On the positive side, workers send home billions of dollars in remittances, which in the best cases help to pull their families out of poverty, fund the building of homes, finance education, and pay for medical care while contributing to the economy of their host country. In the worst cases, workers lose their lives, or are subject to forced labor and trafficking. Most migrants’ experiences fall somewhere in between.

Approximately 1.5 million women domestic workers, primarily from Indonesia, Sri Lanka, and the Philippines, work in Saudi Arabia. These workers, viewed at home as “modern-day heroes” for the foreign exchange they earn, receive less protection in Saudi Arabia than other categories of workers, exposing them to egregious abuses with little or no hope of redress. Domestic workers comprise less than a quarter of the eight million foreign workers in Saudi Arabia, but embassies from the labor-sending countries report that abuses against domestic workers account for the vast majority of the complaints they receive.

While many domestic workers enjoy decent work conditions, others endure a range of abuses including non-payment of salaries, forced confinement, food deprivation, excessive workload, and instances of severe psychological, physical, and sexual abuse. Human Rights Watch documented dozens of cases where the combination of these conditions amounted to forced labor, trafficking, or slavery-like conditions.

Saudi labor and social affairs officials interviewed by Human Rights Watch acknowledged the problem of domestic worker abuse, but emphasized that the majority of domestic workers in the country are treated well. No data exists to calculate accurately the number of women migrant domestic workers who confront violations of labor rights and other human rights. However, gaps in the labor code and restrictive immigration practices heighten domestic workers’ risk of abuse. Overall practices of strict sex segregation and discrimination against women in Saudi Arabia also contribute to domestic workers’ isolation. Those who experience abuse have little hope of full redress.

Riassumendo: se va bene le lavoratrici straniere contribuiscono vigorosamente al benessere delle famiglie e dei paesi di origine. Se va male sono soggette a violenze, abusi e maltrattamenti di tipo economico, fisico, psicologico e sessuale, che nei casi più gravi arrivano fino alla riduzione in schiavitù. Probabilmente va male: e questo tipo di abusi è infinitamente più diffuso fra le lavoratrici domestiche che fra gli altri sei-sette milioni di lavoratori stranieri presenti in Arabia Saudita. La situazione è peggiorata dall’azione combinata della normativa, che pone i lavoratori stranieri in posizione di inferiorità rispetto ai datori di lavoro, tanto più in ambienti chiusi in se stessi come le famiglie, e dalle varie discriminazioni a carico delle donne. Le lavoratrici soggette ad abusi hanno così scarsa speranza di ottenere giustizia. D’altra parte, mentre le autorità, pur ammettendo il problema, si difendono dicendo che la maggior parte delle famiglie tratta bene le proprie dipendenti, non esistono numeri e statistiche attendibili che misurino la diffusione del fenomeno. Non una bella situazione.

Numeri incredibili, Ruyati binti Sapubi e complici insospettabili

Ruyati binti SapubiRuyati binti Sapubi… e le altre

Il caso di Rizana Nafeek ricorda quello di Ruyati binti Sapubi, una domestica indonesiana decapitata nel 2011 (noto, en passant, che l’Arabia Saudita è il terzo paese al mondo per numero di esecuzioni, dopo la Cina e l’Iran) per l’omicidio della sua padrona di casa che l’aveva assoggettata a ripetuti abusi. Ma non sono casi isolati: il Corriere riporta che sarebbero 45 le collaboratrici domestiche già condannate a morte e in attesa di esecuzione. Trovo conferma parziale sul sito di Amnesty , che indica che su 79 condannati uccisi nel 2012 (Wikipedia riporta 82 esecuzioni) 27 erano stranieri.

Ma il caso di Ruyati binti Sapubi, come quello di Rizana Nafeek, chiama in causa anche i paesi di origine. Dopo la sua esecuzione l’Indonesia ha “ritirato” tutte le sue collaboratrici domestiche dall’Arabia Saudita, rifiutandosi di concedere nuovi permessi di espatrio. Sembra che lo Sri Lanka stia adesso prendendo in considerazione misure simili.

indonesian_maid Ruyati binti SapubiIl quadro però è un po’ più complicato: si tratta di misure che soddisfano l’opinione pubblica e esercitano pressioni sulla controparte – in una controversia simile con la Malesia l’Indonesia ha ottenuto discreti risultati – ma che non possono essere sostenute all’infinito e che, paradossalmente, possono rafforzare la debolezza del lavoratore straniero nei confronti del datore di lavoro, oppure rafforzare le pratiche illegali di immigrazione clandestina.

Complicità

Sono misure, soprattutto, che mettono tra parentesi il “sistema” che, anche in patria, contribuisce all’oppressione delle lavoratrici domestiche. La Caritas libanese fa un gran lavoro a favore delle donne migranti in tutta l’area del Medio Oriente; sul loro sito trovo questa testimonianza di una domestica dello Sri Lanka “deportata” in Giordania:

I came to Jordan when I was 14. An agency sent me. They said I was 20 years old. The employment agent where I lived in Sri Lanka was very strict. After they made a passport for me, I changed my mind about going abroad, and my brothers said: «No, you can’t go». But the agency made me go. The employment agent said, «If you don’t go, we’ll send you to the police».

da cui si vede con evidenza che le prime a sfruttare le lavoratrici straniere sono le agenzie di reclutamento che operano in patria su concessione statale (e che, tra parentesi, operano anche la falsificazione dei passaporti per mascherare la vera età delle migranti).

demonstrator-sri-lankaChi ha tradito Rizana Nafeek?

Non è comunque solo questo: sul sito dell’organizzazione Migrantswatch c’è un interessante articolo intitolato: Who failed Rizana Nafeek – che tradurrei più o meno con: Chi ha tradito Rizana Nafeek?

L’articolo mette in evidenza alcuni temi ulteriori: secondo la legge vigente in Arabia Saudita la condanna a morte può essere cancellata da un appello alla pietà da parte della famiglia dell’ucciso, ma

In the case of migrant workers, this forgiveness generally entails blood money paid out by sending-nations. Consequently, appeals at the diplomatic level scarcely effect the outcome of these cases. Instead, they serve primarily as symbolic gestures, as well as public ‘evidence’ of the state’s efforts to save a national’s life

cioè la clemenza è concessa in cambio di un risarcimento economico (anche rilevante) e, nel caso di lavoratrici le cui famiglie sono povere, questo pagamento può avvenire solo da parte del governo nazionale: senza di questo, gli sforzi diplomatici sono pura facciata.

Più in generale

Furthermore, Saudi’s legal system is particularly hostile to migrant workers.  Translators are rarely provided during judicial proceedings, which are conducted entirely in Arabic. Nafeek’s original confession was made under duress, and without the presence of either a lawyer or a translator. Though Sri Lankan authorities are well-aware of these conditions, ‘embassy policy’ prohibits the provision of legal aid to migrants. Thus, the Sri Lankan foreign ministry’s claim that Nafeek’s execution occurred  “despite all efforts at the highest level of the government and the outcry of the people locally and internationally” is misleading. Instead, an MP’s indictment that the government did little to “ensure Rizana Nafeek’s legal rights” more accurately reflects Sri Lanka’s conduct; the absence of any support mechanism for incarcerated nationals precluded the opportunity for a fair trial.  The Sri Lankan government obviated accountability even whilst Nafeek’s case became a protracted, years-long affair, abandoning her defense to resource-limited NGOs. Only when Nafeek was sentenced to certain death did Sri Lanka intervene, at which point the prospect of her discharge was substantially diminished, dependent entirely on the procurement of amnesty – rather than on her innocence, or through a capable lawyer’s argument (which may have stressed that the death penalty would contravene Saudi’s obligation to the Convention on the Rights of the Child). […] Sri Lanka can begin to improve nationals’ conditions on its own initiative. In the same way Indonesia has provided free lawyers to workers in Malaysia, Sri Lanka can create a legal defense fund to support its convicted nationals. Translation and attorney services can ameliorate judicial discrimination and prevent cases from reaching such critical phases. The introduction of legal support mechanisms will have a much greater and more immediate impact on migrant worker conditions than indefinite moratoriums.

Cioè in breve, Rizana Nafeek poteva forse essere salvata, e in ogni caso il suo processo essere più equo, se lo Sri Lanka le avesse concesso una seria assistenza legale, invece vietata all’Ambasciata dagli attuali regolamenti; allo stesso modo, seguendo l’esempio della controversia fra Indonesia e Malesia, un gran passo avanti nelle condizioni delle donne cingalesi migranti sarebbe la creazione di un fondo per l’assistenza legale all’estero, destinato all’assunzione di intepreti e avvocati appositamente dedicati.

Fino all’assunzione di misure di questo genere da parte degli Stati interessati, le prospettive delle lavoratrici domestiche in Arabia Saudita, in particolare di quelle che incappano nel sistema legale, restano piuttosto preoccupanti.

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