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Le ragguardevoli vacanze dell’autore da giovane

La prima notte nessuno di noi riuscì a dormire. Avevamo la salute e il sonno di ferro dei quindici anni ma in quel posto il silenzio, rotto solo dalla risacca, evidentemente ci sconcertava.

Fu così che alle due di notte ci trovammo, Alberto, Carlo, Enrico, Giacomo e io, a vagare per l’accampamento, strane ombre in mezzo ai ginepri sotto la luna. Ci mettemmo a ridere e a gridare: «Anche voi svegli?!».

Adesso che ci penso, probabilmente non dormivamo per l’eccitazione.

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La prima idea del campeggio, che io sappia, venne al mio amico Carlo, che aveva un anno meno di me ma era molto più sicuro di se stesso.

Alberto, che abitava due piani sopra di lui ed era anche lui mio amico (anzi, avevo conosciuto Carlo tramite lui) conosceva un posto perfetto.

In Costa Verde, vicino a Marina di Arbus. Un posto sicuro e comodissimo, a due passi dalla colonia penale.

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Quelli che conoscono la costa sudoccidentale della Sardegna probabilmente staranno già strabuzzando gli occhi, ma ci torneremo più avanti.

Intanto concentriamoci su questa parola: campeggio.

Il campeggio, ai tempi, non era quello organizzato. Era il campeggio avventura di chi sulla TV dei ragazzi aveva visto Vacanze all’isola dei gabbiani o Il tesoro del castello senza nome o leggeva i gialli per ragazzi Mondadori: storie di ragazzini che trattavano gli adulti da pari a pari e dei quali si dava per scontato che, anche senza avere una famiglia e un lavoro sulle spalle, fossero in grado di badare a se stessi.

Anche, aggiungerei, dei quali non si pensava che, sottratti alla protezione dei genitori, potessero diventare facili prede di malintenzionati, cosa che oggi diamo per scontata, grosso modo.

Era un’altra epoca, davvero. Poi magari gli Scout lo facevano allora e lo fanno ancora, ma il punto è che il campeggio a quel modo era normale, senza bisogno del fazzoletto e del cappellone.

E quindi l’idea di campeggio prevedeva in maniera ovvia che saremmo andati in un posto libero, in aperta campagna (o spiaggia), che ci saremmo costruiti per conto nostro un accampamento e che sarebbe stato normale non avere a portata di mano un bar, un telefono pubblico o qualunque altra cosa. È per questo che la colonia penale a pochi chilometri di distanza era così comoda: perché la colonia, nella quale lavorava uno zio di Alberto, aveva uno spaccio dove avremmo potuto man mano reintegrare le provviste.

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spiaggia
La nostra caletta quasi privata

Il posto dove stavamo, per dire la verità, era incomparabilmente più bello del castello dei ragazzi francesi o dell’isola dei gabbiani svedese (tzé): mettemmo il campo su uno spuntone di roccia proprio sopra il mare in una località che si chiama s’Acquadroxiu, cioè “l’acqua dolce” perché c’era (e c’è tuttora, credo) una fonte, che ci garantiva la disponibilità d’acqua. Alla nostra sinistra guardando il mare, verso sud, c’erano svariati chilometri di spiaggia completamente deserta fino a Capo Pecora – avrei scoperto molti anni dopo che era Scivu, una delle spiagge più belle della Sardegna. Alla nostra destra c’era la spiaggetta (o spiaggiona) della fontana, poi una formazione di rocce – dalle quali si partiva anche verso la strada per la colonia penale – che man mano diventava la spiaggia di Piscinas, un altro posto meraviglioso.

Alle nostre spalle il nulla. Chilometri di ginepri e di macchia mediterranea.

Le uniche presenze umane erano radi bagnanti occasionali a Scivu (mi presi l’abitudine di fare una passeggiata fino a Capo Pecora tutti i giorni, e normalmente non incontravo nessuno) e prima di Piscinas un piccolo accampamento semipermanente di arburesi che passavano l’estate in casotti come quelli del Poetto: fra loro c’erano degli altri zii di Alberto e quindi non eravamo propriamente abbandonati, ma certo fra noi e loro c’era comunque una discreta distanza, e in realtà li vedemmo solo una volta a cena.

***

Deciso di fare il campeggio e imbarcati nel gruppo anche Giacomo e Enrico, che erano due miei amici dei palazzi della Saras, serviva l’attrezzatura. Per l’intero anno scolastico 1978-79 risparmiammo lira su lira per comprare la roba che ci serviva, e poi facemmo razzia anche di tutto quello che poteva essere raggranellato in casa. Enrico e Giacomo avevano una loro canadese a due posti ed erano a posto. Io, Carlo e Alberto ce ne comprammo un’altra, più grande, che mi è rimasta nel cuore anche se l’ho usata una sola volta nella vita. Poi in un negozio militare – se non sbaglio – recuperammo una tenda grande, di quelle da sei, per il magazzino delle provviste. Da qualche parte in casa di Alberto saltò fuori un telone con degli occhielli, in modo che si potesse ancorare ai rami degli alberi, per coprire la cucina.

tendaLa quale cucina era un fornello da campo che aveva in casa Alberto, con due fuochi, collegato a una bombola del gas (pesantissima!). Poi comprammo o ci procurammo lampade e fornellini a carburo, torce elettriche portatili, sacchi a pelo vecchio stile, tipo mummia, gavette a tre pezzi (la mia me l’aveva data mia nonna, quindi aveva probabilmente fatto la guerra mondiale), zaini in canapa dismessi dagli alpini, vari rotoli di cordino, pentole e pentolini per cucinare, una caffettiera, coltelli da cucina, mestoli e cucchiai, borracce in quantità, una roncola e un’accetta, una forchetta a testa e un coltellino ciascuno, rigorosamente svizzero. Portammo anche una scacchiera. Libri di fantascienza Urania e Oscar Mondadori. Pinne e maschere ma non bombole e fucili, perché i genitori di Giacomo ed Enrico non glieli avevano permessi. Il grande boardgame sulla conquista dell’Africa che avevamo inventato e stavamo giocando in quel periodo. Io ero Sadat, Carlo Gheddafi e Alberto il re del Marocco. Credo che Enrico e Giacono – che erano entrati nel gioco dopo e aveano il ruolo delle vittime sacrificali – in quel momento rappresentassero una coalizione che andava dal Kenya al Senegal. Vestiti pochi, tanto stavamo sempre in costume. Teli da mare.

Avevamo portato anche una corda robusta da 15 metri, giuro, e non era Dungeons & Dragons.

Invece non c’era sapone, né per noi né per i piatti. Noi ci lavavamo (oddio, lavavamo è una parola grossa) in una grande tamburlana di ferro che raccoglieva l’acqua della fontana: standoci in piedi l’acqua ci arrivava più o meno all’addome. Le gavette e le pentole si pulivano a secco, con la sabbia, e si sciacquavano in mare. Mi domando che sapore dovesse avere il caffè, se lavavamo la caffettiera con l’acqua salata.campo

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Date le condizioni igieniche, dovevamo essere praticamente incrostati di sale: del resto stavamo in acqua dalla mattina alla sera, in un mare bellissimo dal quale era davvero difficile staccarsi. L’unico che aveva una certa ritrosia era Carlo, che non nuotava bene e nei giorni di maestrale, quando il vento tirava diretto sulla spiaggia e c’erano le onde, disapprovava che noi facessimo il bagno e stava sulla riva con la corda da quindici metri, pronto a tirarcela se ci fossimo trovati in difficoltà.

In realtà aveva ragione lui: anche se la caletta sotto l’accampamento era abbastanza riparata, la Costa Verde è pericolosissima con un certo tipo di mare e ogni anno ci affoga qualcuno, di solito forestieri che non percepiscono il rischio. Non lo percepivamo neanche noi, e d’altra parte io avevo appena finito di allenarmi a pallanuoto ed ero in formissima (non ci si crede), Enrico e Giacomo facevano pesca subacquea e Alberto era un fisicaccio: con l’acqua avevamo una grande confidenza e quelle di Carlo ci sembravano paturnie, per non parlare del fatto che farsi sbatacchiare dalle onde verso la riva – anche in tempi in cui il surf non si sapeva che fosse – è sempre un’esperienza divertentissima e quindi qualunque pensiero diverso non ci sfiorò neppure.

pulitura-pentole
Giacomo nella lavanderia

Dei pensieri invece ebbero, credo, i miei genitori quando vennero a trovarmi a metà della vacanza, dopo la prima settimana. Si erano fatti tutta un’altra idea e quella desolazione dovette sconcertarli non poco mentre io, tutto orgoglioso, gli facevo vedere come mi lavavo la gavetta con la sabbia e l’acqua di mare, praticamente appeso a testa in giù sulla scogliera, in modo da beccare al meglio l’onda per il risciacquo.

Non dire niente e lasciarmi lì un’altra settimana fu un gesto davvero stoico, e gliene sono sempre stato grato, anche se al momento mi parve assolutamente normale.

Del resto, a farci compagnia c’erano gli aerei.

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Già, perché oltre Piscinas c’è il poligono di Capo Frasca, e noi eravamo sulla direttrice del percorso che facevano gli aerei per le esercitazioni, quindi mentre eri lì che leggevi Asimov ogni tanto, vroom, passavano un paio di Phantom o di altri aerei, bassissimi, perfettamente visibili.

Per ragazzini come noi, che a casa erano pieni di modellini – Carlo in particolare – e di soldatini AtlanticAirfix era l’immaginazione che diventava realtà, e ci sembrava fantastico.

L’immaginazione, in realtà, diventava anche più reale di così. Il mare pullulava di detriti, e le lunghe passeggiate sulle spiagge procuravano bottini fantastici: un coso di legno a forma di proiettile, per esempio, con una falsa calotta di metallo a coprire la punta e un’altra alla base, dove andava a battere il percussore, immagino. Che diamine fosse (a parte l’evidente uso da esercitazione, ovviamente) non lo capimmo mai, ma ci parve bellissimo.

Trovammo anche una busta di plastica piena di residui di un materiale che uscendo tingeva l’acqua: ci dividemmo fra quelli che pensavano che fosse un repellente anti-squali e quelli che pensavano servisse a identificare a distanza un pilota caduto; recuperammo anche una specie di elmetto da pilota o da carrista (forse era solo una parte interna, non so), e qualche altra cosa, che disponemmo religiosamente nell’area del campo dedicata ai cimeli.

Che fortuna che in Sardegna ci sono i poligoni, eh?

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Il mare, peraltro, elargiva altri tesori: lungo la battigia di Scivu c’erano tronchi portati dalla corrente e calcificati dalla salsedine, come i tronchi del Deserto Dipinto – o era la foresta morta? – delle storie di TexZagor, dai quali trassi un paio di rami dalla forma strana che riportai a casa insieme con un paio di ossa di balena.

Già, perché sulla riva c’era anche una carcassa di qualcosa che non era più molto chiaro cosa fosse stato, ridotto a uno scheletro, ma noi decidemmo che era una balena. A pensarci adesso mi pare fosse piuttosto piccola per essere un cetaceo, però sono abbastanza sicuro che a casa fra le altre cose riportai un fanone, quindi chissà.

La scoperta migliore, però, la fece Enrico.

Un galeone spagnolo.

Cioè, boh. Un relitto a poca distanza dalla spiaggia, certamente, ma galeone non saprei dire: solo che a quindici anni tutte le navi affondate sono galeoni (o portaerei, va bene, ma anche noi capivamo che quello non poteva essere). Però era una nave antica, certamente, e Enrico e Giacomo ne trassero una specie di archibugio con tanto di bastone d’appoggio, tutto coperto di incrostazioni ma riconoscibilissimo (il modo con cui demolimmo parte del cimelio nell’ingenua credenza di poter raschiare via le incrostazioni con un coltello da cucina non dovrebbe maimai e poi mai essere raccontato a un archeologo vero).

Comunque era un relitto davvero, tanto che pochi giorni dopo vedemmo un pontone che procedeva al recupero di un paio di cannoni identici a quelli dei film di pirati. Mi sono chiesto poi se fosse una semplice coincidenza o se Enrico e Giacomo avessero notato un qualche andirivieni in precedenza e si fossero immersi a dare un’occhiata: ad ogni modo lo interpretammo come una sfiga pazzesca, che ci defraudava della possibilità di segnalare il relitto a Jacques Cousteau e diventare coprotagonisti di un documentario fighissimo, nonché ricchi e famosi.

Con un po' di cimeli
Con un po’ di cimeli

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Per sostenere quelle avventure avevamo un’alimentazione piuttosto regolare, per quanto non troppo normale. Il grosso delle provviste era costituito da scatolette di carne Simmenthal, che in casa mia erano quasi del tutto sconosciute e che imparai a detestare a causa della gelatina (per essere un eroico campeggiatore ero molto schifiltoso). Di scatoletta ce ne spettava una a testa a pasto (immaginate cosa era stato trasportare decine di scatolette dalla fine della strada al luogo dell’accampamento… più la bombola!). Allo spaccio della colonia compravamo anche cartoni da sedici litri di latte a lunga conservazione, che ci finivano in un paio di giorni – almeno un litro a testa al giorno se ne andava, ma io sicuramente ne bevevo anche due.

E poi non saprei, davvero.

Ho un vago ricordo che Alberto avesse dei barattoli di peperonata fatta dalla mamma, che aveva le mani sante, ma forse mi confondo col fatto che a casa sua un paio di volte ero stato invitato a cene buonissime e sontuose. E poi sono sicuro che un giorno venne un suo cugino di Terralba, un ragazzo contadino e chiassoso col quale, chissà mai perché, non sapevo come legare, il quale ci portò delle cassette di ortaggi e di frutta, quindi quelle dovemmo consumarle in qualche modo, ma ricordo solo che un giorno friggemmo patate per ore: non perché fossero quantità incredibili, ma perché la bombola stava tirando le cuoia e quindi il fornello scaldava pochissimo, quindi era praticamente una frittura a basse temperature. Del consumo di tutto il resto non ho il più pallido ricordo: la Simmenthal ha coperto tutto il resto.

E un giorno mangiammo pesce preso da Giacomo e Enrico, i quali aggirarono il divieto di pesca subacquea fabbricandosi con delle canne delle lunghissime fiocine. Pescarono due o tre razze che gli zii di Alberto ci frissero per cena (neanche quello mi piacque: sarà stato per tutto questo che bevevo tanto latte).spiaggia-2

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Anche se potrà sembrare strano a molti, ero all’epoca un ragazzino introverso e spesso portato a grandi sofferenze interiori, e l’esperienza del campeggio, soprattutto all’inizio, non fu proprio felicissima dal punto di vista dei rapporti umani. Ero anche malaccorto: nei primi giorni ruppi il vetro della lampada a carburo, inciampai nei tiranti della tenda lacerando il telo esterno e combinai una serie di altri disastri. Un improvvisato tribunale del campo mi condannò a non fare il bagno una intera mattina e io mi offesi moltissimo.

E comunque non ero solo io, anche se io ero particolarmente suscettibile: litigammo tutti più volte.

Eppure ho un ricordo bellissimo di un ambiente unito, cordiale e affiatato. La verità è che eravamo ragazzini e gestivamo i rapporti su più piani, tutti contemporanei, e non necessariamente un litigio andava a incidere su altre cose. Certo, non dipendeva dall’essere costretti a stare insieme, perché anzi, ed è l’altra cosa che a distanza mi colpisce molto, ognuno stava un sacco di tempo per i cavoli suoi, a esplorare se stesso e l’ambiente: io andavo a Capo Pecora, per esempio, e ricordo lunghe ore di lettura solitaria fra i ginepri. Enrico passava ore in mare, con la fiocina o senza. Alberto dormiva sulla spiaggia e prendeva il sole per ore, e così via. In un certo senso non era un gruppo, era una comunità.

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L'autore, giovane e magro
L’autore, giovane e magro

Sono tornato in Costa Verde altre volte, ovviamente, ma mai esattamente a s’Acquadroxiu.

Tranne una volta nel 2001, l’anno in cui mi sono rotto la gamba, l’anno di Edoardo e del G8.

L’anno in cui mi sono sposato.

Avevo ancora lo stivaletto di gesso e le stampelle e Maria Bonaria, per tirarmi su, una domenica mi portò in giro guidando per ore, santa donna, lei che odia la macchina.

A un certo punto vidi la deviazione per quello che mi parve il posto e le chiesi di portarmici.

Mi sembrò che il paradiso dei miei ricordi fosse diventato un delirio di abusi edilizi, e ci rimasi malissimo, anche se forse in realtà non eravamo proprio nello stesso posto. Così non ci sono più voluto tornare.

C’è stata Iole, da poco, e dopo aver dato un’occhiata al posto, e essendo ormai passata nel ruolo di madre, ha deciso che i nostri genitori sono stati degli incoscienti, a lasciarmi lì.

Poi da poco mia madre ha cavato da chissà dove delle foto, che sono quelle che vedete qui nell’articolo, e mi è venuta di nuovo voglia di raccontarvi la storia.

E di tornare a Scivu.

Che dopotutto è uno dei posti più belli e avventurosi del mondo.

Almeno per me.

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