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L’agosto nero del commissario Trotti

Black August Timothy WilliamsSto leggendo Black august di Timothy Williams, un giallo che ho comprato un po’ (poco) perché segnalato dalla Crime Writers’ Association ma soprattutto perché è un curioso caso di romanzo scritto da un autore inglese ma ambientato in Italia.

In realtà nel grande supermercato globale della letteratura d’intrattenimento è possibile ormai trovare gialli ambientati in tutte le epoche e in tutte le parti del mondo quindi non dovrebbe stupire il fatto che uno scrittore anglosassone che si sia fatto un po’ di esperienza sul campo – Williams ha insegnato all’università a Bari e Pavia – si presti a coprire il settore “giallo italiano contemporaneo”; casomai l’osservazione da fare è che di solito queste sono operazioni di non altissimo valore qualitativo e che Williams – ma io non lo sapevo al momento dell’acquisto – è particolarmente sospetto perché dopo l’Italia è andato a vivere in Guadalupa e adesso scrive una nuova serie di gialli in lingua francese ambientati nelle Antille: un vero scrittore di ventura, insomma. Davanti allo scaffale della libreria quindi sapevo che questo sarebbe stato un romanzo non solo di genere ma anche di… sottogenere, e anzi l’ho preso proprio per quello: per vedere che figura ci fa l’Italia – diciamo: come viene presentata – in un giallo scritto con l’occhio dello straniero per lettori stranieri.

Del resto se si volesse parlare del giallo in sé si farebbe presto: scritto originariamente nel 1992, ambientato in una città senza nome del nord Italia sulle sponde del Po che il crollo recente della Torre Civica, citato più volte, fa individuare con facilità come Pavia, ha come protagonista un commissario anziano di nome Trotti, prevedibilmente ombroso e pieno di idiosincrasie, che vorrebbe essere parente di Martin Beck e di Steve Carella ed è alla fine piuttosto noioso, anche per la mancanza di comprimari all’altezza.

Ah, Camilleri, quanto sembra facile fare gialli quando ti si legge, e come sei bravo anche quando ottieni risultato mediocri.

Scusate, un pensiero laterale.

Il romanzo appare mediocre, anche, per il fatto che è scritto in uno stile tutto sommato datato in cui si percepisce che qualcosa si agita nell’animo del commissario e dei colleghi ma questo qualcosa, cui pure continuamente si allude, non è mai dichiarato esplicitamente; c’è una sorte di insoddisfazione esistenziale del commissario e dei coprotagonisti che occupa gran parte dei dialoghi ma mai viene tirata fuori del tutto.

Ah, Sandford, come sei bravo anche quando sembra che coi tuoi dialoghi allunghi il brodo… scusate, un’altra divagazione.

Black august è il quinto volume di una serie e si capisce che Trotti ha avuto, nei romanzi passati, una serie di esperienze negative: la moglie se n’è andata e il brigadiere Ciuffi (una poliziotta) con cui aveva una relazione è stata ammazzata. Ma il senso di oppressione che il romanzo tenta di veicolare non è legato a queste premesse, ma a una scelta stilistica vista solo mille altre volte per la quale la durezza della realtà e l’abiezione morale che circonda il poliziotto corrispondono – e causano – la sua aridità morale; dipanare il mistero equivarrà anche a sciogliere il nodo di ghiaccio che gli opprime il cuore.

Bof. Già visto mille volte, appunto, e d’altra parte forse tipico del periodo in cui il romanzo è stato scritto.

Non l’ho ancora finito, e in parte sono curioso: un romanzo così si salva solo se il finale è davvero esplosivamente a sorpresa oppure se lo scioglimento ha il valore di un apologo morale definitivo, tale da stringere lo stomaco e il petto del lettore nei mesi a venire: diciamo che le premesse non ci sono, ma adesso voglio vedere che succede.

D’altra parte non ho preso il romanzo per questo, ma per l’ambientazione. E quindi parliamo dell’Italia.

Cominciamo da una nota linguistica. La scrittura è infarcita di termini italiani, tanto da avere indotto l’autore o l’editore a premettere al romanzo vero e proprio tre pagine di glossario in italiano, come nei romanzi fantasy deteriori (e come in quelli l’utilizzo di termini ad hoc appare un manierismo davvero eccessivo).

Questo uso di termini italiani segue però le regole dell’inglese, e questo pone al lettore locale una serie di problemi aggiuntivi, che finiscono per far suonare false le descrizioni e i dialoghi. Per fare un esempio stupido noi diremmo: «La signorina Belloni era un’insegnante in pensione»; in inglese invece è corretto dire: «Ms. Belloni was…» e quindi Williams scrive: «Signorina Belloni was…» senza l’articolo e insomma tutte queste piccole differenze stridono come quando scopri che in America, cascasse il mondo e glielo spiegassi anche mille volte, scriveranno sempre “Guiseppe” invece che “Giuseppe”.

Si può pensare, naturalmente, che questo sia un problema per il lettore di madrelingua italiana che Williams non aveva il dovere di porsi, ma certo stupisce che uno che ha vissuto in Italia forse a lungo non sia riuscito a cogliere con precisione la sfumatura esatta della lingua, e metta in bocca ai suoi personaggi un modo di parlare che è, al fondo, piuttosto falso.

Del resto questo problema linguistico corrisponde a un problema di descrizione sociale: non è che ricordi bene di cosa parlassimo nel 1992, ma sono abbastanza sicuro che i quasi settantenni non andassero in giro a chiedersi l’un l’altro che atteggiamento avessero avuto nei confronti del fascismo durante la guerra o poco prima, né che l’eredità del Ventennio nella coscienza nazionale fosse uno dei temi preferiti di conversazione al ristorante quando commissario e testimoni devono prendersi le misure l’un l’altro. La cosa è sorprendente se si pensa che il romanzo ha una palese intenzione di indagine sociale e che manca – quasi del tutto – l’eredità degli anni di piombo, le ruberie degli anni ’80 e la partitocrazia, la P2, la mafia, cose del genere.

C’è la Lega, peraltro, in tutte le salse, il che naturalmente per il lettore italiano è piuttosto interessante perché ricorda che c’è stato un periodo nel quale la Lega era un fenomeno nuovo e tale da suscitare curiosità anche all’estero. Ma per il resto l’Italia del romanzo sembra una fotografia scattata sul luogo, questo lo si ammette, ma poi pesantemente ritoccata per farla assomigliare a una cartolina stereotipata, un’operazione che ricorda più o meno una roba alla Gorky Park di Martin Cruz Smith.

La cosa mi ha molto incuriosito perché sembra un’operazione fatta apposta per venire incontro ai gusti del pubblico (inglese). Del resto il Times loda il romanzo dicendo che the Italian atmosphere is authentically beguiling: autenticamente? atmosfera? incantevole? Ohi, siamo dalle parti della nobildonna inglese di Montesano? Pictoresco? Un po’ è così, naturalmente se alla nobildonna inglese sostituiamo un ben informato lettore dell’Economist che magari ha letto anche una o due biografie di Mussolini.

Ora, la cosa è per il lettore italiano un po’ straniante: non è proprio piacevole trovarsi dall’altra parte dell’esotismo, nel ruolo della curiosità da salotto, e magari è una giusta punizione per tutti quei gialli ambientati chissà dove dei quali lodiamo l’ambientazione davvero interessante. Questa sembra del resto essere una caratteristica in comune alla piccola pattuglia di scrittori di lingua inglese che scrivono gialli ambientati in Italia e dei quali Wikipedia mi fornisce l’elenco: Magdadalen Nabb, Michael Didbin e Donna Leon. Mi muovo su un terreno scivoloso, qui, perché non ho letto nessuno di loro, ma vedo che per tutti viene lodato lo sguardo che gettano in profondità sugli aspetti meno noti e più segreti della società italiana, torbida, misteriosa, un animo italiano al fondo eminentemente corrotto. Brrrrr.

La cosa davvero strana, però, è che esiste un altro genere di romanzi ambientati in Italia e scritti da inglesi: quelli che riprendono l’esperienza del gran tour e lo stile alla Camera con vista, e che presentano gli italiani come passionali e solari e l’Italia – soprattutto la Toscana – come il luogo deputato alle storie d’amore, al risveglio della sensualità e al culto della bellezza. E c’è poi anche tutto un diffuso genere di saggistica invece dedicato alle “piaghe d’Italia” – viene in mente The dark heart of Italy di Tobias Jones o Cosa nostra di John Dickie – che sono invece saggi ben documentati che cercano di spiegare al lettore inglese benintenzionato com’è possibile che certi problemi siano strutturali e non possano essere risolti con un semplice decreto della Regina come sarebbe ovvio nella ben regolata Albione.

Ora, il pubblico di questi tre generi di libri dovrebbe essere più o meno lo stesso: ma le descrizioni dell’Italia proposte sono del tutto divergenti e quindi mentre leggo Black august mi chiedo quale strano guazzabuglio di Italia possa stare nella testa dell’inglese medio, che magari finisce per immaginarsi un ombroso commissario intento a risolvere delitti di mafia mentre discute di Mussolini con un paterno brigadiere dei Carabinieri che è anche iscritto alla Lega e mentre intesse passionali storie d’amore con affascinanti ragazze fiorentine che gestiscono gallerie d’arte.

Ehi, ma sembra la ricetta per un successo straordinario oltre la Manica: potrei diventare ricco e famoso!!!

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