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In vino vita: e io bevo

Giovedì sera ho ricevuto da mia moglie (che come sempre la sa molto più lunga di me) un bel regalo: mi ha portato a una degustazione di vini, esperienza che non avevo mai fatto.

Cucina_eatVoglio dire: non è che non ho mai bevuto vino (decisamente no). E in realtà mi è capitato relativamente spesso di visitare cantine o di essere invitato ad assaggiare il vino di questo e di quello (esperienza che, nel caso di produttori privati, può riservare splendide sorprese ma anche configurarsi come tentato omicidio). Quello però che non avevo mai fatto era l’esperienza di un assaggio di vino piuttosto strutturato, guidato da un esperto e legato a una sequenza di gusti da sperimentare decisa a tavolino.

L’occasione è stata la presentazione dei vini delle Cantine Meloni (il cui motto è appunto quel In vino vita che ho messo nel titolo). Con Maria Bonaria seguiamo Meloni da almeno una dozzina d’anni, da quando ce li aveva consigliati il nostro amico Giuseppe Puddu («ottimo rapporto qualità-prezzo», disse, e poi erano biologici) e quindi la voglia di andare alla degustazione dipendeva soprattutto da quello. La presentazione poi si teneva da Cucina.eat, che è uno dei locali preferiti di mia sorella (molto più andaiola di me) dove io non ero mai stato, e quindi avevo un ulteriore motivo di interesse.

Beh, prima di raccontarvi com’è andata vorrete sapere cosa abbiamo bevuto, immagino.

Esattamente nell’ordine in cui li vedete si sono succeduti un Vermentino spumante (che mi è piaciuto tanto e che subito ho preso per portarlo a una cena, il giorno dopo), un Vermentino molto classico (e molto buono) che ho assaggiato più e più volte, un gran Cannonau, un’ottima Monica superiore (che è quella che mi è piaciuta di più, forse perché a quel punto mi trovavo ormai in uno stato alcoolico beatifico in cui ogni cosa appariva splendida) e infine il Vasca50 che se non ho capito male è il vino di maggior qualità della cantina – medaglia d’oro alla rassegna Grenaches du monde, buonissimo, davvero un gran vino – ma a me è piaciuta di più la Monica, de gustibus.

La serata ha visto svolgersi una sorta di intervista da parte del giovane proprietario di cucina.eat a due rappresentanti delle Cantine Meloni: la titolare Cristina Meloni e il direttore commerciale Federico Atzori. Nel frattempo noi bevevamo. Abbondantemente.

La chiacchierata procedeva per divagazioni, dalla presentazione del vino che stavamo assaggiando (evito di ripetere il e noi bevevamo, si sarà capito) lungo sentieri molto diversificati: il mercato, il vino in Sardegna, la storia della cantina che ormai ha più di un secolo di vita, i rapporti fra le generazioni di produttori, le grandi tradizioni enologiche d’Europa, la filosofia del vino, il grenache e il Vermentino, cosa voglia dire fare un vino tipico, gli errori delle politiche agricole e i vitigni migliorativi e mille altre cose. Poveretti, loro tre stavano in piedi davanti a noi (che bevevamo!) e questo forse toglieva un po’ di convivialità, ma comunque il clima era allegro e piuttosto rilassato.

Ho forse un unico appunto alla parte “contenutistica” della serata, che dipende in realtà da un mio limite: come saprete ci sono le cose-colte-che-mi-piacciono-molto e quindi scoprire un concetto come quello di terroir che non avevo mai sentito (al primo ascolto ho pensato al terrore e ho avuto un sobbalzo…) o l’idea che il Cannonau non sia un vitigno singolare della Sardegna, come avevo sempre creduto, ma faccia parte appunto della grande famiglia dei grenaches, sono tutte cose che per me valgono il prezzo del biglietto. Però un pochino il mondo del vino vive anche di una certa autoreferenzialità (come nelle mitiche etichette in cui vieni informato che il vino che bevi ha sentori di pino selvatico e castelli di sabbia, e non capisci se chi l’ha scritto ha papille gustative degne di un supereroe o ti sta invece coglionando) e io non ho la cultura sufficiente per distinguere il grano dal loglio o, per esempio, quando si dice che i grenaches rappresentano una terza strada di cultura enologica fra i vini rossi di Bordeaux, strutturati, tannici, potenti, e i vini borgognoni, eleganti e equilibrati, per capire esattamente cosa si vuol dire e fino a che punto ci sia magari un po’ di fuffa. Però ho visto che Cristina Meloni annuiva con approvazione, così come alcuni clienti dall’aria molto competente, e ho deciso di fidarmi. Terzo concetto che mi porto via dalla serata: magari una volta prendo una bottiglia di ciascuna di queste tre famiglie e metodicamente verifico la teoria [1].

In realtà la cosa che mi ha colpito di più in tutta la serata è la dimensione di storia di famiglia della cantina. Meloni è una cantina certamente longeva, ma non è questo il discorso: la dimensione di impresa di famiglia, la cui storia attraversa più generazioni di proprietari, l’ho colta molte altre volte nelle quali mi è capitato di avere a che fare con produttori di vino. Andando via dalla serata, nel già citato stato beatifico, riflettevo che per molti aspetti il vino è un fatto di famiglia, non solo per dove si consuma, ma proprio per dove si fa. Probabilmente, credo, è perché fare il vino vuol dire al fondo essere agricoltori, che è cosa terragna come la famiglia, o perché al fondo il vino si fa con le mani, come lavorano certi artigiani che infatti si passano la tecnica in famiglia dai genitori ai figli.

Oddio, ci sono eccezioni, e cesure, e ritorni, nelle storie di famiglia. Per esempio Cristina Meloni raccontava che quando, negli anni ’80, ha deciso di portare la produzione al biologico, il padre si è offeso: ma insomma, mi avete rotto le scatole per un ventennio con tutta una serie di ritrovati e prodotti e tecniche e adesso devo ritornare a fare il vino come faceva mio padre?! E però riflettevo che la forza della cantina (non so delle altre) sta anche in questa via innovativa rimanendo fedele a se stessa: faceva le bollicine col Moscato e il Vermentino negli anni ’60, li rifà adesso con successo (il Frius era davvero buono). E poi ovviamente c’è la scelta del biologico in un periodo in cui doveva sembrare davvero fantascienza.

L’ultima nota della serata va al locale. È molto legato al Gambero rosso, che non è proprio in cima alle mie preferenze e anche al mio modo forse di intendere il cibo, ma per il resto mi ha colpito. A parte il tono familiare e la cortesia, mi ha colpito la chiarezza di idee sia dal punto di vista commerciale (diciamo: strategico) sia dal punto di vista del cibo che si intende proporre, e di solito questa chiarezza di idee è segno di qualità – e infatti il vino era ottimo, il piattino di accompagnamento senz’altro buono e vedo che c’è un programma di incontri e divulgazioni e percorsi di conoscenza del cibo che mi sembrano fra quanto di meglio la città possa offrire.  Mangiare non ci ho mangiato, tuttavia, e quindi ci tornerò, per… verificare meglio. Tutto in nome della cultura, ovviamente, non per soddisfare la pancia.

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