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Politica di rappresentanza e politica emancipativa

Controllando gli articoli scritti in questo stesso giorno nel passato, trovo una bozza dell’anno scorso, mai pubblicata, nella quale segnalavo un feroce editoriale del Guardian , a firma di Emma Dabiri, che critica Jay-Z e Beyoncé, due celebrità caratterizzate anche da un certo attivismo sociale, che per partecipare a una festa post-Oscar (quelli, ripeto, dell’anno scorso), non si sono fatti troppi problemi a passare attraverso un picchetto di lavoratori licenziati dalla struttura in cui si teneva la festa. Mi verrebbe da dire che il problema a monte fosse l’aver deciso di tenere lì la festa, casomai, ma attraversare un picchetto è comunque un gesto simbolico piuttosto forte.

Credo che avessi deciso di segnalare l’articolo, piuttosto breve, fra l’altro, già dalla lettura delle prime righe:

Molta dell’energia scatenatasi dopo l’assassinio di George Flyd sembra essere stata sequestrata e dirottata a favore di una “ditta antirazzista” preoccupata oltre misura col tema delle microaggressioni, dotata di visibilità nei film e nei mezzi di comunicazione e legata da relazioni interpersonali. Si tratta di uno schema che ignora largamente le disparità economiche, o la possibilità di istituire lotte organizzate e dotate di scopi strategici.

Non ho tempo di tradurre tutto l’articolo, ma mi è sembrato interessante alla rilettura anche a distanza, soprattutto nella distinzione che traccia fra una linea politica di posizionamento, preoccupata di acquisire visibilità e, alla fin fine, collusa con il sistema che critica, e una politica emancipativa, volta a cambiare realmente la situazione in favore di chi è oppresso. A fianco a questo c’è un’altra questione, che riguarda quanto sia ingombrante questo posizionamento: «Ma a questi, chi gli ha dato l’incarico di rappresentarci?».

Il succo dell’articolo sta, insomma, in questo passaggio:

Tuttavia questa “rappresentazione” spettacolarizzata, che impacchetta l’energia del movimento Black Lives Matter in bocconcini elegantemente serviti, cambia poco. Specialmente quando, avendo la possibilità di sostenere un cambiamento reale, si preferisce fare una festa in un ambiente lussuoso. […] Mentre i lavoratori del picchetto si sobbarcavano il lavoro pesante di un vero attivismo all’esterno, la festa di coloro che “rappresentano” è continuata all’interno, senza lasciarsi distrarre da quelle fastidiose domande.

La contraddizione rappresentata da “attivisti” miliardari che passano attraverso un picchetto è stata quasi completamente ignorata nelle discussioni dopo l’Oscar. È stato invece lo “schiaffo fra celebrità” che ha riscosso attenzione: l’incidente nel quale l’attore milionario di Hollywood Will Smith ha colpito il conduttore degli Oscar, il comico milionario di Hollywood Chris Rock, per avere fatto una battuta sgradevole sulla moglie di Smith, l’attrice milionaria di Hollywood Jada Pinkett Smith. In una evidente messa in stato di accusa delle nostre priorità, i commentatori sono ossessionati dai capricci dei megaricchi mentre i lavoratori fanno fatica a vivere.

Non solo questa visibilità non è un rimedio immediato per il razzismo, l’episodio al Chateau Mormont in sé, così come il silenzio che l’ha circondato, rimane un esempio brutale di come “le politiche di rappresentanza” possono in realtà distrarre da politiche realmente emancipative. Dimostra che il mondo “antirazzista” così spesso citato dopo il 2020 non sarà raggiunto senza analisi di classe, a prescindere da quanti film neri faccia Hollywood.

L’episodio dimostra anche quante persone siano più che disposte a usare il linguaggio della diversità, dell’inclusone e dell’antirazzismo – dalle celebrità reali a aspiranti “attivisti influencer” – anche se questo finisce non per servire la liberazione collettiva, ma l’ambizione personale.

C’è forse un filo di moralismo di troppo (del resto la dicotomia “ricchi e ipocriti” contro “poveri e ignoti” è troppo seducente per essere ignorata) e devo dire che a analisi di classe ho avuto un sobbalzo, ma complessivamente mi trovo d’accordo.

Oh, verrebbe da dire: ben svegliata. Forse non c’era bisogno di aspettare gli Oscar, sotto molti punti di vista questo sequestro del tema dei diritti civili da parte di celebrità e grandi aziende era già evidente perfino da prima di Black Lives Matter, ma comunque: ben venga. E in ogni caso, nelle prassi quotidiane vedo che anche in Italia con grande frequenza si reagisce pavlovianamente all’uso delle parole giuste da parte di famosi e famosetti e di, com’era?, «aspiranti attivisti influencer», dando credito enorme a chi dopotutto non fa che ripetere slogan a pappagallo e dimenticando che molti servono soltanto l’ambizione personale.

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