Vittime e pacifismo
Ho letto oggi sul Manifesto una interessante intervista a Luigi Manconi, che dice a un certo punto una cosa sulla quale mi sento istintivamente abbastanza in consonanza:
Registro invece un sentimento molto diffuso – e non solo sui social – che si esprime nella concentrazione sulla dimensione tutta geopolitica di questa vicenda, nella massima attenzione per l’ideologia delle zone di influenza, per la logica di potenza, e una ossessiva ricostruzione delle cause e delle concause degli accadimenti attuali. E in questo atteggiamento si tralascia ciò che per me è centrale: il punto di vista delle vittime, le quali rischiano di scomparire. Non solo vengono soverchiate dalla geopolitica ma a loro si chiede di arrendersi.
Il punto del brano che trovo convincente è la critica al concentrarsi (io aggiungerei: strumentalmente) sulle dimensioni geopolitiche: la trovo una critica molto esatta. Il tema del punto di vista delle vittime da adottare, poi, è ricorrente negli interventi pubblici di Manconi: io preferirei, tendenzialmente, e considererei molto più di sinistra, parlare di oppressi, ma è in questo caso una osservazione secondaria.
Il passaggio mi ha colpito anche perché ho visto passare in questi giorni una serie di riflessioni di provenienza bosniaca (nei Balcani in questi giorni c’è, ovviamente, un nervosismo che si taglia a fette) che obiettano veementemente alla riduzione della guerra all’episodio dei bombardamenti contro i serbi (sia nel 1995 che nella guerra del Kosovo) perché, appunto, in questo modo si dà il palcoscenico esclusivamente alla Serbia e agli Stati Uniti, mettendo in secondo piano proprio i bosniaci: nel racconto del braccio di ferro fra i due oppressori, la storia delle vere vittime scomparirebbe.
È una posizione che ho visto rilanciata, direttamente o indirettamente, da un gran numero di persone di impostazioni molto differenti ma, non sorprendentemente, in generale legate alla riflessione sulle identità e le differenze. La capacità di far emergere in modo centrale la figura della vittima infatti è essenziale per quel tipo di posizioni, come in quei casi in cui i giornali danno notizie di mariti che in un raptus hanno ucciso la moglie e poi si sono uccisi; incentrare la notizia sull’uomo, anche solo per sottolinearne la follia, fa dimenticare la donna e la trasforma da persona a puro oggetto della violenza altrui.
Il problema, però, è che almeno in certi casi come quello citato, ragioni storiche, condizione di oppressione e condizione di vittima si intrecciano in grovigli non facilmente scioglibili: nel lungo decennio di guerre jugoslave crimini e vittime sono da tutte le parti e lo stare dalla parte delle vittime è una scelta sempre corretta ma non una chiave interpretativa sufficiente a sciogliere tutti i nodi e guidare tutte le azioni.
Il resto dell’intervista di Manconi, in cui cerca di elaborare il suo ragionamento, è non a caso sempre rispettabile ma molto meno convincente di quel passaggio che suona così istintivamente di buon senso, in un continuo di tentativi di salvare capre e cavoli fino a momenti davvero deboli, come questo:
Autodeterminazione, democrazia, libertà come si coniugano con quel tipo di pacifismo che prende le distanze sia da Putin che dall’Ucraina di Zelensky?
Ci sono due forme di pacifismo. Uno profetico di cui tutti abbiamo bisogno, come quello di Aldo Capitini o quello descritto nel 1991 da padre Ernesto Balducci che in un confronto pubblico con me sosteneva «Siamo solo alla vigilia del pacifismo», in costruzione come prospettiva di lungo periodo. Il pacifismo politico lo seguo e marcio con esso quando assiste le vittime delle guerre, aiuta i profughi, protegge le case, cura i feriti, si impegna nelle trattative, crea occasioni di comunicazione tra le due parti in conflitto. Ma poi quando l’aggressore punta il fucile su quel profugo, su quella donna o su quell’anziano, il pacifista sul quale ripongo la mia fiducia interviene come sa e come può per rendere inoffensivo l’aggressore.
Con le armi ai combattenti? Si può anche mandare la polizia…
Certo, allora mandiamo la polizia internazionale, che però deve essere armata. Attenzione però: rispetto chi dice che non se la sente di usare la violenza. Ma la pace a volte pretende l’uso della forza per fermare la guerra. Comunque ho sempre creduto che la resistenza con le armi debba sempre marciare insieme la resistenza nonviolenta.