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Foucault a Wuhan

Tramite il fidato aggregatore di notizie ho letto ieri su Le parole e le cose un articolo intitolato Foucault a Wuhan, ovvero: note su uno scontro teorico-politico in corso (e su come uscirne vivi), di Andrea di Gesu.

Devo dire che non ho mai letto Foucault e che i miei studi universitari di sociologia, comunque, a parte l’esame di base, si collocavano su un versante di tipo molto più economico, quindi devo confessare che non tutto l’articolo è propriamente alla mia portata, ma quel che rimane l’ho trovato interessantissimo e, direi, una lettura consigliata per chiunque.

Anche con i miei limiti perfino io so, comunque, che Foucault ha scritto di rapporto fra cura, malattia, scivolamenti autoritaristici della società e creazione di istituzioni totali e apparati di controllo della malattia e, con essa, delle persone, malate o anche sane (in quanto potenzialmente malate e quindi da controllare lo stesso). In questo senso, immagino come tanti, ho sentito più e più volte parlare di Foucault durante la pandemia (l’articolo fa notare in una sapida notarella che commentare Foucault in quel periodo è diventato un vero e proprio genere letterario caratteristico). Quello che mi ha catturato è che Andrea di Gesu si ponga da subito in posizione polemica verso tutti quelli, dentro la sinistra, che in questa occasione hanno utilizzato Foucault in maniera strumentale, tentando di darlo in testa agli avversari, e mi sono molto ritrovato nella descrizione della deriva delle posizioni contrapposte; da una parte

posizioni che vedono nella crisi pandemica innanzitutto un’inflazione esorbitante dei dispositivi di controllo delle popolazioni e dei soggetti, una gravissima erosione delle libertà e dei diritti individuali e degli spazi di discussione e decisione democratici, e posizioni che vi vedono piuttosto il segno di un’insufficienza palese dei sistemi di welfare e sanità pubblica occidentali e la contraddizione evidente tra le necessità del profitto economico e il diritto alla salute,

e quindi

le prime, infatti, tendono a utilizzare Foucault per descrivere la gestione della crisi pandemica nei termini di una forma aggressiva e liberticida di biopolitica […] le seconde, al contrario, tendono all’invocazione di una biopolitica virtuosa, una biopolitica della cura in grado di prendersi in carico in maniera finalmente efficace del diritto alla salute contro le sue restrizioni provocate dai molteplici effetti perversi del sistema capitalistico sulle sanità pubbliche.

Devo dire, e questo è un difetto dell’articolo, che di Gesu in realtà, nonostante si sforzi, non è in realtà equidistante fra le due posizioni: si vede già qui che di fatto si sente più vicino alle seconde posizioni, come ha un certo punto dirà più esplicitamente:

Per quanto entrambe le posizioni coinvolte siano distorsioni delle analisi teorico-politiche da cui originano, esse non sono ugualmente perverse. Mentre infatti la deriva negazionista e reazionaria rappresenta una difesa di una certa tradizione di pensiero che si capovolge nel suo contrario, pervenendo a esiti teorici e politici non solo radicalmente inaccettabili, ma che realizzano come se non bastasse il sogno/incubo liberale di un postmodernismo di destra al servizio dei fascismi in tutto il mondo – e in questo senso tocca davvero dare atto a Giorgio Agamben di essere stato più realista del re: il suo è forse l’unico vero utilizzo da destra di Foucault che sia mai stato fatto! –, la deriva scientista e antilibertaria articola in modo distorto quella che rimane un’esigenza reale.

Ma anticipo: quello che ad ogni modo mi ha agganciato, dell’articolo, è la descrizione della deriva verso l’uan o l’altra destra contrapposte, di tanta parte della sinistra, tradita da quel che credeva di sapere e condotta verso posizioni inaccettabili. Sono temi su cui rifletto da quando è iniziata la pandemia e che di Gesu descrive benissimo:

La distanza tra queste due posizioni, già di per sé notevole, mostra sempre più spesso una tendenza irresistibile all’esacerbazione, che le trasforma sovente in una loro versione perversa. Le prime degradano infatti verso un negazionismo puro e semplice rispetto all’esistenza stessa di un’emergenza medica, vedendo nella crisi pandemica una mera scusa per aumentare la presa del controllo biopolitico sulle vite dei soggetti; le seconde arrivano da un lato a negare il fatto stesso di una restrizione delle libertà individuali, tacciando chiunque le rivendichi di sostenere semplicemente una concezione di destra di libertà, e a mostrare dall’altro una postura scientista che degrada verso atteggiamenti distintamente epistocratici: entrambe queste tendenze s’incontrano e si sovrappongono nell’idea, variamente articolata e invocata, di un governo degli esperti, in questo senso vero concetto-simbolo di questo tipo di posizioni.

Da qui di Gesu parte per una parte costruens che mi sembra convincente pur non avendo, ripeto, tutti i mezzi per valutarla: da una parte mi pare che l’idea sia quella di buttare a mare la sinistra critica (o certa sinistra critica) per salvare Foucault, dall’altra l’idea, che mi pare prima di tutto di buon senso, di non usare Foucault – vale per tutti i pensatori – come fornitore a bon mercato di ipse dixit ma come l’indicazione di dove indirizzare un pensiero critico.

A me mi ha convinto, ma del resto se la proposta è di democratizzare la scienza io non sarei nipote di Giovanni Berlinguer se non mi lasciassi attrarre:

Che fare dunque, all’altezza della crisi pandemica ed ecologica, di questa concezione non ingenua del rapporto tra potere e sapere? Essa non serve affatto a diffondere relativismo verso la scienza dei cambiamenti climatici o verso l’epidemiologia, e per giustificare di conseguenza rivendicazioni libertarie reazionarie basate su forme di antiscientismo rudimentale. Al contrario, essa ci permette di scavare un solco tra le necessità teoriche e politiche espresse dalla crisi pandemica ed ecologica e le derive a cui tali esigenze possono essere vulnerabili, poiché essa ci spinge a porre in modo nuovo, e radicale, la questione del rapporto tra scienza e democrazia. Essa, infatti, costituisce uno strumento fondamentale per denunciare la natura inevitabilmente ideologica di una visione neutra del sapere scientifico, permettendoci di stroncare sul nascere tentazioni autoritarie e attitudini epistocratiche attraverso una potente, e virtuosa, democratizzazione della scienza.

Ecco, l’unica perplessità che mi rimane è nella piccolissima preferenza di di Gesu verso la seconda delle due posizioni che discute; la perplessità non è sul piano filosofico/teorico, quanto su quello politico: se è vero che la posizione antiautoritaria finisce, paradossalmente, per fornire foglie di fico ai fascisti di tutto il mondo, come viene detto, mi sembra che l’approccio teorico sottovaluti quanto gravi, pervasive e antidemocratiche siano le concezioni epistocratiche che non potrebbero svilupparsi ma sono già ben presenti e consolidate e intente a oliare gli ingranaggi di un capitalismo predatorio che ci sta portando, lo dico? lo dico, alla catastrofe.

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11 pensieri riguardo “Foucault a Wuhan

  • Giovanni Piredda

    Per una democratizzazione della scienza bisogna avere voglia di studiare e tempo da dedicare allo studio.

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    • Facciamoci venire la voglia e dedichiamolo 🙂 . O la tua è una critica preventiva al popolo bue? Nel caso non sono d’accordo: tutte le esperienze partecipative, per esempio nella medicina si sono rivelate utili. Idem per altre questioni. Ed è molto facile la replica: per democratizzare la scienza bisogna che gli scienziati abbiano voglia di essere democratici (e tempo e voglia di studiare 🙂 ).

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      • Giovanni Piredda

        Non è una critica preventiva al popolo bue, è una dichiarazione delle condizioni necessarie; secondo me s’intende ma mi pare una cosa ben fondata. Il popolo bue poi se esaminato individuo per individuo si rivela formato da persone pensanti, ma spesso prive del tempo necessario da dedicare alla propria educazione perché pressate da impegni quotidiani.

        In tema democratizzazione della scienza, ho anche la netta impressione che quando si dice “democratizzazione della scienza” si intenda una cosa significativamente diversa: democratizzazione della applicazione delle teorie scientifiche correnti alle questioni di interesse sociale corrente per potere prendere una posizione sensata in un periodo di tempo sufficientemente breve da poter partecipare alle decisioni.

        Bisogna tenere presente che quasi sempre (forse “sempre”) la scienza è troppo lenta per prendere posizione su un problema per il quale sia necessario prendere decisioni entro poche settimane. È necessario usare conoscenze scientifiche assodate e combinarle, insime con i dati disponibili, usando il buon senso raffinato dall’educazione.

        Quindi serve accesso alle informazioni rilevanti, magari almeno parzialmente filtrate come accuratezza e pesate come importanza, e almeno parzialmente già poste in relazione le une alle altre e tutte al tema principale.

        È una cosa che va bene, ma merita un nome proprio, bisogna trovarlo sufficientemente sintetico: forse democratizzazione dell’applicazione della scienza.

        Per la democratizzazione della scienza forse va bene un’altro approccio. Linko questo articolo di Giorgio Parisi su Micromega che forse descrive un’approccio che funziona: https://www.micromega.net/giorgio-parisi-nobel-appassionare-alla-scienza/

        Vorrei scrivere anche altre cose ma mi fermo qui per oggi.

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  • Giovanni Piredda

    Il secondo tema nel contesto della democratizzazione della scienza è la relazione fra lo scienziato e il pubblico con cui parla. Prendiamo come esempio la volta in cui Burioni si è irritato e ha detto che chi gli faceva domande doveva solo stare zitto e ascoltare 😉 (i dettagli non me li ricordo e facciamo finta che sia andata così come dico).

    Forse una buona soluzione è che ci sia un moderatore che colleghi scienziato e pubblico, abbastanza scafato per distinguere le domande sincere dal desiderio di creare caos (quello che con volgarità è stato messo in luce dalle analisi di Fanelli).

    D’altra parte lo scienziato deve essere pronto a dire “non lo so” o “ci devo pensare” molto presto (alla seconda o terza domanda 🙂 ) e il pubblico deve vedere il “non lo so” come segno di coscienza dei propri limiti e il “ci devo pensare” come segno di voglia di orientarsi.

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  • Giovanni Piredda

    Ora come secondo me si potrebbe fare.
    Serve un’associazione, che comprenda almeno quattro o cinque professori universitari di una singola disciplina (nel senso delle grandi discipline, per esempio quattro o cinque i quali siano medici o biochimici).
    Il lavoro per preparare le informazioni in maniera tale che siano facilmente accessibili dal pubblico e ben organizzate è impegnativo; potrebbe essere necessario una trentina di ore di impegno per organizzare il materiale su un singolo tema, per esempio come funzionano i vaccini a RNA. Fatto da una sola persona, questo lavoro diventa schiacciante.
    Il risultato dovrebbe essere un “percorso guidato e commentato” all’interno della letteratura.
    Ho il ricordo di avere visto un sito web organizzato secondo queste idee, sulla biologia: per ogni “fatto scientifico attualmente noto” c’è l’articolo (magari l’articolo principale) che lo ha reso noto. Purtroppo non lo trovo più … o forse lo trovo ma non lo riconosco perché nel mio ricordo lo ho trasformato. Ne ho trovato altri che linko qui:
    https://www.cell.com/cell/libraries/annotated-classics
    https://www.pnas.org/topic/classics
    https://www.blackwellpublishing.com/ridley/classictexts/

    Rispetto a queste collezioni di articoli serve una guida più dettagliata per il pubblico naturalmente, è per questo che l’impegno è grande.
    Fatto questo, al pubblico spetta studiare con calma 🙂

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    • Secondo me è lavoro per divulgatori scientifici, non docenti e tanto meno ricercatori (il che non esclude che ci siano docenti o ricercatori che sono bravi divulgatori, ma non necessariamente). Comunque la tua proposta è sempre dentro un paradigma scientista – scusa se la metto giù dura – per cui basta enunciare la verità scientifica e chiunque la legge poi la capisce ed è d’accordo. Il tema della scienza democratica si pone molto al di là.

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      • Giovanni Piredda

        > è sempre dentro un paradigma scientista – scusa se la metto giù dura – per cui basta enunciare la verità scientifica e chiunque la legge poi la capisce ed è d’accordo

        Però Robi almeno devi sapere _quali_ sono le cose accettate in linea di massima da tutti, così poi ti puoi orientare nel resto. Faccio l’unico esempio che ho in mente in questo momento, cioè il fatto accettato da tutti che ogni molecola di DNA si divida in esattamente due parti, e sempre le stesse due, quando la cellula si riproduce, cosa che prima di essere stabilita da un famoso esperimento (https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_di_Meselson-Stahl) non era nota (anche se era nota la forma del DNA). (chissà poi se è vero _sempre_)

        Nella biologia, che tratta con “sistemi complessi” (gli esseri viventi) mi pare che molte delle conoscenze scientifiche siano tali da non poter essere trattate come la divisione del DNA (per esempio non credo sia concepibile l’esperimento che dimostra o falsifica l’evoluzione delle forme degli esseri viventi); però anche le cose semplici, e decidibili con dati sperimentali chiari, hanno un peso, e meritano di essere imparate.

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        • Su questo sono d’accordo, il problema è che il concetto di “accettato da tutti” è estremamente scivoloso. Leggevo oggi la recensione di un libro di storia della scienza che istituisce un collegamento fra sviluppo imperiale dell’Europa e teoria darwiniana (nel senso che la “lotta per la sopravvivenza” viene tradotta in prassi politica). Non è semplice, raccontando la teoria dell’evoluzione, sfuggire a quel tipo di rischio. Oppure, sai quante basi “scientifiche” ha avuto nel tempo l’eugenetica o il razzismo? Non sto negando il valore dei manuali, dei testi di riferimento e delle enciclopedie, ovviamente, né nego che la disponibilità di questi sia fondamentale per una scienza democratica, sto dicendo che il tema del rapporto fra scienza e democrazia si colloca su un livello che è oltre la pretesa ingenua dell’oggettività.

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          • Giovanni Piredda

            > sai quante basi “scientifiche” ha avuto nel tempo l’eugenetica o il razzismo?

            È analogo alla lunga discussione sulle basi genetiche dell’intelligenza fatta su iacine in cui Susanna sosteneva una posizione da sola contro il resto del newsgroup, cioè che non ci siano basi genetiche.

            Poi a forza di discutere è venuto fuori che le prove scientifiche a favore delle basi genetiche dell’intelligenza sono meno ampie di quello che almeno alcuni dei partecipanti alla discussione avessero dato per buono … ma il punto IMO è un altro: è che le differenze osservate di *prestazioni intellettuali* (posso provare a migliorare l’espressione del concetto ma mi pare si capisca già così) sono scollegate dalla genetica, e se ci vuoi infilare la genetica per forza potresti anche avere un secondo fine.

          • Giovanni Piredda

            Il tema merita ulteriore discussione. (IMO) Ci sono due ragioni perché la scienza non può dare una opinione oggettiva su una questione.

            Caso primo, la questione è terribilmente complicata, tanto che un’indagine scientifica sufficiente per dare un opinione richiederebbe risorse e tempo enormemente maggiori di quanto è a disposizione. Nel caso delle misure per frenare l’epidemia di covid, per esempio, i comitati che dovevano redigere una proposta di regole avranno avuto al massimo una settimana per presentarla; data la complicazione della cosa, forse molti anni sarebbero stati poco per dare “una risposta scientifica”. Quindi bisogna indovinare basandosi su indizi, pare che la mente umana lo faccia bene e mi aspetto che i comitati abbiano fatto così, poi aggiustando a seconda dei risultati e anche dei litigi vari. Un libro la cui lettura (superficiale) mi aveva fatto notare la grande differenza di durata fra una ricerca scientifica e una analisi fatta con l'”istinto” è “Biological Bases of Human Social Behaviour” di Robert A. Hinde, in cui ogni piccolo passo è supportato da ricerche di anni, ed è forse ancora sotto dibattito (il libro va bene per accorgersi di questo indipendentemente dal suo valore scientifico attuale).

            Caso secondo, la questione sfugge per sua natura all’analisi scientifica, perché fra osservatore e oggetto di osservazione manca la necessaria distanza (una spiegazione chiara c’è in N. Wiener, “La cibernetica”).

            Ferme restando queste due cose, i casi paragonabili alle “basi scientifiche dell’eugenetica”, o a quelli della “genetica dell’intelligenza”, sono mistificazioni, che possono essere mistificazioni interessate. Ho anche l’impressione che classificare la ragione per la quale la scienza non dà i risultati propagandati non sia neppure rilevante per tenere le orecchie aperte sulle mistificazioni, la mistificazione funziona (e non sono in grado di analizzare fino in fondo il perché).

            Come atteggiamento negativo “complementare” a queste mistificazioni della scienza, ma proprio a persone diverse rispetto a quelle che mistificano, c’è un altro atteggiamento fastidioso collegato alla “scienza democratica”, e cioè che la scienza non interessa molto, interessa partecipare alle decisioni.

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