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Battaglie perse

Ho visto l’altro giorno alla Manifattura Tabacchi L’agnello di Mario Piredda, un film che ultimamente in Sardegna sta riempiendo le sale ovunque venga proiettato.

Mi ha fatto molto piacere vedere nel film due persone che conosco benissimo come Piero Marcialis e Michele Dr Drer Atzori, tutti e due impegnati in un bel ruolo recitato brillantemente. Alla presentazione Piero era presente e, forse allargandosi un po’, ha definito L’agnello un «capolavoro».

Questioni terminologiche

Francamente la definizione mi sembra esagerata: parliamo di un film onesto e molto ben fatto che racconta una storia già vista mille volte (una malattia rivela e risolve tensioni familiari dolorose), ma la propone con una sceneggiatura esemplare per naturalezza, con un’ottima prova di attori e attraverso un punto di vista doppiamente fresco: in primo luogo perché dove passa l’attrice protagonista, Nora Stassi (esordiente e bravissima), si spalancano finestre per far entrare l’aria e in secondo luogo perché attraverso lei l’angolo visuale che indaga il groviglio virile di durezze familiari è quello di una ragazza giovane, figlia e nipote dei protagonisti, ed è tutto meno che stereotipato.

Non è che facendo il puntiglioso su capolavoro sto denigrando il film: freschezza, naturalezza della sceneggiatura, solidità della direzione e della conduzione del cast fanno de L’agnello un’opera prima di tutto rispetto.

Il film, girato nel Supramonte di Orgosolo, si intende ambientato dalle parti del salto di Quirra e quindi nelle vicinanze del poligono. Alla presentazione gli attori hanno avuto gran cura a riportare la posizione del regista che tiene a dire che il suo non è un film «a tema», nel senso che non è un film contro le basi militari. La posizione è senz’altro corretta: il focus del film è tutto nelle relazioni, nella famiglia, nel personaggio di Anita, nella malattia, non sulle basi; quando si parla della presenza militare è sempre per accenni leggeri, quasi casuali, mischiati alla quotidianità dei protagonisti. Però è anche vero che è un film che si apre con una pecora che muore di parto e fa nascere un agnello deforme, in un contesto nel quale mentre sei lì a lavorare in campagna ti passano i bombardieri sulla testa, in un territorio recintato, segmentato ossessivamente dalle reti e dal filo spinato delle zone militari, nel quale si incontrano continuamente i gipponi e i posti di blocco della ronda, disseminato di rottami e detriti (il cui riciclo rappresenta una ricchezza mortale che è tentazione irresistibile per i poveri) e in cui viene detto esplicitamente che la malattia che consuma il protagonista – un qualche tipo di cancro – deriva dall’inquinamento ambientale ed è la stessa malattia, con le stesse cause, che gli ha già ucciso la moglie. Meno male che gli accenni sono leggeri e quotidiani: fare anche solo un filo di più e toccava andare a incatenarsi in piazza (anzi, magari andrebbe fatto anche senza quel filo in più, ma qui esuliamo dal cinematografico). Anche senza voler fare film di denuncia il proiettare la propria vicenda contro quel fondale è già un atto di accusa molto forte e, d’altra parte, non è la creazione a tavolino di un ambiente distopico: chi conosce quelle zone sa che è proprio così. È un caso nel quale la massima degli sceneggiatori show, don’t tell (“fallo vedere, non raccontarlo”) trova una applicazione inaspettata e molto efficace.

Bella domanda

Risolti questi due problemi di definizioni l’aspetto più interessante del film, almeno per me, sta nel riprendere una domanda che era molto evidente in Pesi leggeri di Enrico Pau e che, potrei dire, è: «che film, che storie si possono ambientare in Sardegna?». Curiosamente, dopo Pesi leggeri molti dei film sardi di maggior successo hanno accuratamente evitato di rispondere a questa domanda: Salvatore Mereu, che pure è un regista identitarissimo, la evita accuratamente da anni; Paolo Zucca, invece, ogni volta dà una risposta diversa. La maggior parte di chi scrive e mette in scena storie in Sardegna, invece, sembra rispondere che si possono ambientare in Sardegna storie ambientate in Sardegna, che se va bene è una tautologia e se va male è direttamente una cretinata.

Dice il semplice: «evidentemente, si possono ambientare in Sardegna i film che ambienteresti da qualunque altra parte» e per forza deve essere così; presupporre il contrario vuol dire ammettere, come credono certi assessori e un sacco di gente che fa bandi di finanziamento per attività culturali, che la Sardegna sia una specie di empireo mitologico – in Paradiso puoi solo cantare le lodi dell’Altissimo, in Sardegna puoi solo cantare dell’identità della Sardegna, della sua storia, della fierezza ma ospitalità dei suoi abitanti oppure, blasfemo, fare critica sociale dei problemi della Sardegna.

È evidente che non può essere così, ma la domanda in realtà è più sottile: quali sono quelle storie che si possono ambientare in Sardegna in modo tale che la Sardegna sia, secondo un’espressione che ho visto usare dallo stesso Manuel Piredda in un’intervista, non tanto un fondale o l’argomento, ma una specie di personaggio in più, al pari degli altri? Un’operazione alla Salvatores, o comunque come quelle operazioni che Salvatores ha dimostrato di saper fare sia in Io non ho paura che in Come Dio comanda (quindi forse il merito è di Ammaniti): lo scenario come voce narrante aggiuntiva, l’ambientazione come accento della narrazione che altrove non sarebbe lo stesso.

E la risposta è…

La risposta di Piredda, in realtà, è la stessa che dava a suo tempo Pau e che in fondo ha dato anche Zucca ne L’arbitro. Le storie che sono interessanti quando ambientate in Sardegna sono quelle che si collocano nelle intersezioni (o si annidano negli interstizi, magari) fra società rurale e metropoli, o fra tradizione e contemporaneità. Non sono sicuro che sia una risposta che possa piacere a tanti che si occupano di identità sarda, ma a sembra interessante quanto la domanda e il risultato di Piredda è più che valido anche dal punto di vista realistico; come a Tonara è credibile che ci possa essere una via intitolata a Joe Strummer, così il padre malato di Anita non ha sempre vissuto fra gli stazzi: ha girato l’Europa, ha conosciuto fricchettoni, si è fatto le canne, come è probabile che sia per qualunque cinquantenne di qualunque posto d’Europa, e d’altra parte parla sardo col padre, vive contornato da una presenza militare che non c’è probabilmente in nessun’altra parte dell’Europa occidentale e quando gli tocca d’andare in ospedale va al San Giovanni di Dio; e Anita, Anita che all’inizio adotta un agnello e dopo un anno espertamente lo tosa, non è proprio Maria Carta che andava scalza a prendere l’acqua alla fonte: fa le pulizie in un albergo, ha un tatuaggio in faccia più un’altra mezza dozzina sparsa altrove, per non parlare dei piercing.

Ha ragione Piero Marcialis quando dice che Piredda voleva girare un lavoro punk pastorale: il risultato è proprio così ed è davvero interessante, a parte il fatto che forse i punk non esistono più e Anita è pienamente del 2020. In omaggio, però, e anche pensando ai vari esiti delle lotte che il film mette in scena, è per questo che in testa a questo articolo ho messo i Clash. Non vale per il regista e chi ha lavorato nel film: loro la loro battaglia l’hanno vinta in pieno.

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