I libretti d’opera a Oggi parliamo di libri
Ho messo oggi in linea la puntata di Oggi parliamo di libri dedicata ai libretti d’opera, una puntata un poco anomala perché l’argomento era in fondo abbastanza sfuggente.
Nella mia tradizione familiare – come credo in tante altre famiglie borghesi solidamente ancorate, ehm, all’Ottocento – si sono sempre usati modi di dire derivati dall’opera o addirittura versi citati direttamente (che gelida manina, per esempio). Io stesso dico spesso una strofetta di Metastasio, che secondo mia madre era la frase preferita di un’antica prozia
Voce dal sen sfuggita
poi richiamar non vale:
non si trattien lo strale,
quando dall’arco uscì
versi che trovo fantastici.
Però ho anche sempre considerato in maniera un po’ scanzonata i libretti d’opera, che si prestano anche a essere canzonati (il gioco di parole è intenzionale) perché retorici, magniloquenti e pieni di elementi improbabili, coincidenze, disvelamenti, tizi che dopo essere morti hanno il tempo di cantare un’intera aria e cose così.
Come la letteratura di genere, in realtà. Il primo elemento che mi ha indotto a fare la puntata è stato proprio questo, anche se in trasmissione non l’ho approfondito particolarmente: io parlo principalmente di letteratura di genere, e i libretti d’opera vi hanno pieno diritto di cittadinanza. Il morto che canta la cavatina, insomma, non è più improbabile del soldato che tira fuori la foto dei figli (e si sa che quindi morirà) o della ragazza bionda che quando manca la luce lascia la sicurezza del gruppo per andare a riaccendere il contatore (e quindi morirà). E d’altra parte le opere sono costruite con tutto quel cast di caratteri archetipici (villain, giovani amorosi, eroi sfortunati, fanciulle pure, donne tentatrici eccetera) che è tipico della narrazione orale prima e della scrittura di genere poi.
Ma il motivo per il quale ho deciso di fare la puntata è stato principalmente perché fin dalla puntata sulle saghe nordiche avevo l’intenzione di parlare di un tema che man mano è andato precisandosi e definendosi: il fatto che mi sono accorto che tutte le storie di cui man mano andavo parlando.. finivano male.
Basta un’occhiata ad altre narrazioni coeve, per esempio i vari Novellini o il Decameron, per rendersi conto che non è una caratteristica assoluta dell’epoca: è invece una caratteristica di queste narrazioni di taglio epico e di un’altra vasta famiglia di storie, una caratteristica che si ramifica, diviene sotterranea, ricompare, si trasforma, si sposta su altri generi ma alla fin fine rimane sempre e, divenuta gusto epr il patetico, giunge infine esattamente al melodramma.
E quindi volevo parlarne perché mi era sempre mancato il tempo di segnalare in maniera adeguata la cosa e mi sembrava utile per chiudere il cerchio rispetto alla puntata sulle fiabe. Se si va a leggere le fiabe e a immergersi nelle narrazioni orali e in tutto ciò che ne discende ci sono due anomalie rispetto alla frase che spesso usiamo: «Un amore che sembra una fiaba». Là avevo segnalato che nelle fiabe avevo trovato pochissime storie d’amore, qui volevo segnalare che comunque per molto tempo il modo corretto di raccontare l’amore è stato considerato quello di presentare storie non col lieto fine, ma invece che terminano in maniera più o meno tragica.
Ironia della sorte quando mi sono trovato in trasmissione mi sono reso conto che la preparazione mi faceva difetto e che in realtà non sono ben capace di spiegare perché sia così (sapere di non sapere è già un passo avanti, comunque).
In realtà mi sono poi ricordato che una spiegazione forse ce l’ho, ma richiede che traduca un articolo, cosa che conto di fare nei prossimi giorni. Qui chiudo invece ammettendo che la puntata soffre di un altro evidente difetto: il campo dei libretti d’opera è troppo vasto, e meglio sarebbe stato concentrarsi solo su un autore o su un singolo libretto: sono sicuro che la puntata sarebbe uscita migliore.