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Chi si prende il gioco?

Premessa: questo post è una domanda rivolta a quelli che si chiamano, di solito, decisori politici (in realtà è rivolta anche ai decisori amministrativi e istituzionali in generale).

Però, prima della domanda, facciamo una breve premessa. Anzi, un piccolo collage di premesse.

Per esempio: la dimensione ludica è una dimensione ineliminabile della vita sociale. Guardatevi intorno: anche senza includere lo sport la gente ha sempre giocato; a carte, a scacchi, a dama, a domino. Adulti, dico, non bambini. E queste forme di cultura sono resilienti: possono estinguersi le osterie di fuoriporta, ma la gente continua a giocare a carte altrove. E gli spazi ludici nella vita sociale oggi sono in espansione, non in diminuzione. Basta che ciascuno dia un’occhiata alle applicazioni installate nel proprio cellulare.

E stiamo sempre parlando di adulti, perché coi bambini è troppo facile.

Oppure, lasciamo perdere il tema del gioco come dimensione culturale pervasiva e ineliminabile. Prendiamo il discorso da un’altra parte: oggi i videogame hanno un giro d’affari superiore a quello del cinema. I giochi da tavolo sono un mercato solidissimo. Stiamo parlando di montagne di denaro, in molti casi, e settori industriali tutt’altro che disprezzabili.

A fronte di questo, e questa è la terza premessa, del gioco in quanto gioco si parla pochissimo. Molto più si parla di dimensioni che del gioco hanno solo l’apparenza e che vengono proposte con scopi puramente strumentali: la gamification, oppure le ricadute del gioco come strumento pubblicitario o educativo; tutte posizioni legittime, per carità, ma che prese a se stanti mostrano limiti evidenti, come se uno descrivesse il contributo che l’arte può dare al design industriale ma facesse finta di non sapere che per questo servono artisti non ridotti alla fame, accademie d’arte, scuole professionali di grafica, artigiani artisti (e artigiani semplici), facoltà di architettura, software grafici, materiali da disegno (e materiali di mille altri tipi), esposizioni biennali e triennali, gallerie d’arte, figure professionali di supporto e chissà quanta altra gente. Senza tutto questo non puoi avere design – industriale o meno – e senza progettisti e sviluppatori di giochi, disegnatori, narratori, scultori, grafici, scuole, negozi dedicati, studiosi del campo e giornalisti specializzati non è possibile avere applicazioni del gioco a favore dell’educazione, della promozione turistica, della divulgazione storica o di qualunque altra cosa.

Ultimissima premessa. Prendiamo Cagliari. In campo ludico Cagliari ha molte associazioni, un paio di negozi, un festival di buona qualità e una serie di altri eventi settoriali, la Global Game Jam, un paio di studi di produzione, corsi e scuole per imparare a fare giochi, una pattuglia di docenti universitari, due centri di studio interessati all’impatto sulla ricerca di base di tecnologie videoludiche e un sacco di appassionati: è una scena interessante, anche promettente se si vuole, per quanto certamente non l’unica o la più sviluppata in Italia. Ma è allo stato nascente da un sacco di tempo, ormai: perché dispieghi le sue piene potenzialità servono azioni di sistema, che non necessariamente sono alla portata degli attori, senza interventi esterni.

Ok, siamo finalmente arrivati alla domanda. Tutta questa gente, che più o meno rappresenta, a Cagliari o altrove, potenziali distretti capaci di produrre ricadute sociali, o culturali o economiche, chi se la prende in carico?

Io sono estremista e, se fosse per me, renderei obbligatorio l’Assessore al Gioco in ogni Comune o Regione italiani. Però io sono un estremista, va bene. Ma com’è che teatro, cinema, musica, letteratura, ogni altra benedetta dimensione culturale che ha anche ricadute produttive ed economiche ha le sue istituzioni dedicate, i suoi referenti politici e istituzionali, le sue leggi che regolamentano il settore e lo sostengono, e il gioco no?

Oh, non è che qui sto aprendo il libro dei sogni: servirebbe una buona legge di settore ma francamente è roba che fila parecchio sopra la mia testa e quindi lascio perdere. Ma per esempio a livello locale, dove le cose sono molto più chiare e gli attori (autori, associazioni, professionisti, studiosi) tutti facilmente identificabili, la domanda acquista maggiore spessore: fra tutte le istituzioni già esistenti, chi ha voglia di mettersi in (col) gioco?

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