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Dovevano metterci per forza l’avventura e rovinarlo?!

Cloverfield (Reeves, USA 2008)

Ho recuperato Cloverfield che non avevo mai visto in una visione coi Fabbricastorie sapendone il giusto, cioè che era girato in soggettiva come The Blair Witch Project e che, da qualche parte, c’era un ponte.

In realtà il punto più interessante arriva presto, quando fortissima è l’impressione che si stia parlando dell’11 settembre. La gente radunata per strada, l’incertezza su quel che sta avvenendo, le persone che filmano coi telefonini o assiepate davanti alle televisioni, lo shock e la minaccia terribilmente vicina ma ancora abbastanza lontana da essere percepita come uno spettacolo, prima che i due grattacieli delle Twin Towers venissero giù.

In realtà quel momento è fuorviante: Reeves non vuole fare una metafora di quei fatti, sta semplicemente citando, usando materiali narrativi che gli americani conoscono bene, ma sta per cominciare a parlare d’altro. Eppure fra quando i ragazzi escono dal palazzo dove stavano festeggiando e l’episodio sul ponte di Brooklyn, cioè quando il film pone le premesse della storia, arrivano sul piatto tre elementi che sarebbero terribilmente interessanti se sviluppati per bene. Il primo è la possibilità di raccontare la storia dalla parte delle formiche: quando si vedono quei film nei quali Godzilla devasta New York ci sono sempre, sullo sfondo (o molto in basso), centinaia di cittadini che fuggono urlando. Cloverfield sembra sul punto di dimostrare che un film fatto dal punto di vista di questi fuggiaschi, che desse diritto di parola alle masse vaganti e urlanti, sarebbe davvero notevole. E il secondo elemento è l’osservazione, che si intravede appena ma c’è, che anche in caso di catastrofe la nostra società continua almeno per un po’ a funzionare: la gente si chiama al telefono, la televisione trasmette, i soccorsi arrivano, la gente non smette di vivere la propria quotidianità; l’idea che la catastrofe non implichi il collasso totale e immediato visto in certi film ma lenta degradazione, e che si possa raccontare in questa maniera, è anch’essa interessante e sarebbe, oltretutto, metafora potente di altre situazioni attuali, come le  guerre civili del Medio Oriente. E il terzo elemento è il microcosmo, il chiudere il racconto su un piccolo gruppo di fuggiaschi, la loro mancanza di informazioni globali, il loro focalizzarsi sulle proprie situazioni e le proprie esigenze; gli altri due elementi presi da soli porterebbero altrimenti al classico film catastrofico nel quale la storia globale è raccontata attraverso l’intreccio delle microstorie: il poliziotto, la mamma amorevole, il dottore, l’automobilista, il manager senza cuore, il rappresentante di commercio e così via.

Il problema di Cloverfield è che è un film americano, e Reeves e i suoi sceneggiatori (e J.J. Abrams, immagino) scelgono di lasciar perdere questi elementi e di farne, appunto, un’americanata, con una missione improbabile infarcita oltre ogni tollerabilità di elementi avventurosi senza senso, che oltretutto costringono i personaggi in psicologie di cartone. Un po’ sembra una sottospecie de Il Signore degli Anelli, nel quale nulla ci viene risparmiato: l’Imboscata Notturna, la Sosta nell’Accampamento degli Elfi, la Scalata del Picco delle Nebbie, senza nemmeno l’epica dei personaggi normali costretti a fare cose grandiose: qui i ragazzi sembrano improbabili e basta. E a questo peccato mortale ne accoppiano un altro, che è quello di far vedere la Minaccia, andando appunto a proporre versioni aggiornate di Godzilla, laddove il film funziona molto meglio quando tutto quel che si vede è un movimento improvviso, mortale e gigantesco e ogni spettatore, esattamente come gli spaesati fuggiaschi, deve farsi la sua idea su cosa stia succedendo.

Se posso azzardare, Cloverfield andava raccontato non come Cerca del Tesoro, ma come Anabasi, con tanto di arrivo al ponte finale e θάλαττα! θάλαττα!: l’esito della storia (che non rivelo) si poteva mantenere lo stesso. Sarebbe stato molto bello ma poco americanata e quindi non c’era da sperarci. Così rimane un film con un suo rigore interno (la storia d’amore, le due giornate che si sovrappongono nella registrazione della videocassetta, gli aspetti cinematografici formali) piuttosto sprecato: un vuoto esercizio di stile e poco altro.

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