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Spazzare Dragonero sotto il tappeto

Domenica pomeriggio ho recuperato gli ultimi tre numeri di Dragonero, che avevo lasciato da parte, nonché lo speciale estivo.

Al termine della lettura, per quanto piacevole, non sono riuscito a trattenere un moto di perplessità.

In parte dipendeva dal fatto che avevo iniziato la lettura con lo speciale (Le ali della strige, Enoch, Gizzi, Piky Hamilton) che ha una trama così piena di buchi che in mezzo ci passerebbe comodamente la tartaruga galattica A’Tuin con elefanti, Mondo Disco e tutto l’ambaradan, solo che dietro i buchi ci sono grumi di banalità così dense che la povera tartaruga finirebbe per morire soffocata.

Si, avete capito bene, non mi è piaciuta, soprattutto perché a questi difetti si somma l’incapacità di Enoch di gestire adeguatamente i passaggi fra i diversi registri con i quali vuole raccontare la storia, volta a volta patetico, grottesco, realistico o umoristico. Se ci si aggiunge perfino il fan service direi che l’elenco dei difetti è completo.

Il livello delle tre storie che vanno da giugno ad agosto (L’invasione delle tenebre, Enoch, Gregorini; Prigioniero delle ombre, Vietti, Babich, Galliccia; Il tempio perduto, Vietti, De Luca) è molto migliore, però ci sono degli scricchiolii di fondo. Per esempio: se fosse un gioco di ruolo si direbbe che il master fa del railroading mica da poco: i personaggi non hanno mai libera scelta, c’è sempre una crisi enorme che li costringe ad agire senza indugi, passando da qui a là per sconfiggere i cattivi, sconfiggere i più cattivi che stavano dietro i cattivi, chiudere il varco dimensionale, liberarsi della maledizione, salvare il mondo e infine trovare parcheggio in centro nell’ora di punta. A quel punto si potrebbero pure prendere lo spritz in santa pace se non fosse che quando assaggiano la fetta di arancia scoprono che le piantagioni dell’Agrumendar sono in terribile pericolo e via!, alla caccia di altri cattivoni e di nuovo a salvare l’universo. Qui la banalità del trattamento è aumentata dal fatto che in realtà la cerca coinvolge volta a volta altri personaggi secondari, i quali prendono, fanno il loro pezzo di impresa e poi, pazienza per l’universo, riprendono a farsi gli affari propri.

Dragonero ha sempre manifestato un certo imbarazzo dei suoi autori a gestire la serialità senza dover ricorrere a meccaniche tipiche delle serie di supereroi: sconvolgimenti globali e conseguenti reset della storia (anche gli spin off, peraltro). La guerra delle Regine Nere è finita una mezza dozzina di numeri fa, adesso abbiamo avuto l’invasione degli Abomini e il prossimo mese si annuncia l’inizio di un’altra saga sconvolgente.

Forse è tutto troppo sconvolgente, ecco.

In realtà il problema fondamentale di Dragonero è sempre stato che, al contrario dei supereroi dove gli eventi colossali sono semplici cornici per i rovelli dei personaggi o, come nelle note saghe dei Vendicatori, modo di portare alla luce i meccanismi interiori degli eroi e per sviluppare i discorsi, talvolta perfino politici, degli autori, in Dragonero i mutamenti dei personaggi sono sempre esteriori e mai interiori: una perde la gamba e allora ci dicono che non è più la stessa, l’altro ammazzava draghi e adesso non più, ma trattamenti psicologici veri e propri non ce ne sono mai. Qualche volta la cosa è apparente, altre volte meno; in questo terzetto di numeri è abbastanza fastidiosa: i protagonisti sembrano tutti personaggi non giocanti manovrati dal narratore per far andare avanti la trama; peccato che il personaggio giocante, purtroppo, non ci sia.

La domanda interessante, però, è come mai io continui a comperarlo, nonostante questi difetti, e come mai tanti lettori (compreso me) lo trovino in fondo piacevole ed avvincente.

In un certo senso, come fa Dragonero a spazzare la polvere sotto il tappeto. O come fa il lettore a spazzare Dragonero sotto il tappeto.

In parte, ovviamente, dipende dall’inerzia: hai cominciato a leggere una serie, ti piaceva, prosegui. Ci sono episodi difettosi ma riusciti e altri meno riusciti, quindi prosegui.

In parte dipende dalla qualità dei disegni e da una certa inventività nella descrizione del mondo fantastico, sia da parte degli sceneggiatori che dei disegnatori.

In parte però, soprattutto, credo dipenda dalla qualità della scrittura, dal passo del racconto, dalla costruzione delle tavole, dall’incedere degli avvenimenti, dalle caratterizzazioni spesso riuscite dei personaggi secondari e dalla gestione di bozzetti di colore che integrano la vicenda personale. Chi scrive Dragonero, dopotutto, non è un bandito né un orchetto. Solo che c’è nell’impostazione un che di sbagliato che fa sì che tutto si muova, sempre, pericolosamente in bilico su una fune sospesa, nella quale la caduta è sempre possibile a meno che non si stia attentissimi: nella storia dello speciale, per esempio, l’equilibrio viene a mancare e la caduta è rovinosa, quasi come quella della vittima iniziale – e senza nemmeno la soddisfazione di avere avuto commercio con la strige.

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