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Perché in fondo «Ci porti su, Scotty» è di un’altra epoca

AlienHo letto ieri un interessante articolo di Lauren Davis sul sito io9 che spiega l’origine di trentuno tipiche espressioni della fantascienza, per esempio alienoastronavetelepatia. L’articolo è interessante perché in realtà non si concentra tanto (solo) sull’aspetto linguistico, ma sul come alcuni concetti sono divenuti via via patrimonio comune del genere fino a costituire un tessuto narrativo condiviso (ai tempi della Locanda delle Arti.Fantastiche parlavamo in maniera analoga di “mattoni del fantasy“).

È un articolo molto bello e avevo pensato di tradurlo, poi mi sono reso conto che la cosa non era semplice, perché semplicemente la significatività di certe espressioni in italiano e in inglese è completamente diversa.

Facciamo un esempio: c’è a spiegazione di jack, che in inglese in origine vuol dire “spinotto”. A un certo punto un autore inglese (nel caso specifico il grande Robert Silverberg) trasforma il sostantivo in verbo: to jack in o into, che potremmo tradurre, volendo, più o meno come “spinottarsi”, nel senso di collegarsi a un sistema informatico o elettrico o qualunque cosa simile, divenendone anche in un certo senso parte. Anche se il processo di creazione di un verbo a partire da un sostantivo in inglese è un procedimento abbastanza comune, questo non toglie niente all’invenzione linguistica, così fortemente materiale, né al fatto che il verbo ottenuto è molto preciso, così preciso da divenire, appunto, non solo un’espressione felice ma un concetto narrativo (cioè, diciamo: senza l’evocazione contenuta in quel to jack in/into magari a Gibson veniva in mente qualcos’altro, sul modo con cui si entrava dentro il cyberspazio).

Il problema è che in italiano il traduttore dell’epoca non si è posto il problema: aveva a disposizione ottime espressioni italiane, come “collegarsi” o “connettersi”, e avrà usato quelle. In ogni caso to jack in/into in italiano non è mai divenuto un concetto narrativo specifico, e quindi tradurre quel pezzo richiedeva non solo delle acrobazie linguistiche, ma anche di portare il lettore italiano dentro un campo semantico (cazzo! sono riuscito a usare campo semantico dentro il blog: sono un genio) di cui sostanzialmente non doveva mai essergli importato di meno.

Lo stesso vale per altre espressioni trattate. Per esempio ho scoperto che beam, che io avevo sempre pensato volesse dire più o meno raggio o fascio è un’altra invenzione. In origine in inglese voleva dire colonna o cilindro di legno o palo, e dal latino religioso è arrivato a indicare un fascio o raggio di luce. Da lì diversi scrittori di fantascienza hanno cominciato a variare il significato, aggiungendo raggi di forza, raggi traenti eccetera, fino a Star Trek con la periodica richiesta del capitano Kirk: «Beam us up, Scotty», cioè usare un beam – Dio solo sa cos’è – per teletrasportarci sulla Enterprise. Solo che in italiano la traduzione nei telefilm è stata il più diretto: «Ci porti su, Scotty». Il che vuol dire non solo che lo spettatore italiano ha perso una sfumatura interessante, cioè la sensazione che i protagonisti di Star Trek parlassero un linguaggio colorito, fantascientifico, ma anche che per il lettore italiano sapere da dove viene beam non rappresenta di fatto un elemento di interesse significativo.

E così ho deciso di non tradurre l’articolo, sebbene ne consigli comunque caldamente la lettura a chi mastica un po’ di inglese.

Ma le difficoltà di traduzione mi hanno suggerito due riflessioni, che mi fa piacere condividere.

Silverberg Tower of GlassLa prima è che l’italiano è una lingua con un vocabolario più ricco e complesso dell’inglese. Sotto questo punto di vista i traduttori dell’epoca classica non devono essersi sentiti particolarmente in imbarazzo a inseguire le invenzioni linguistiche degli autori anglosassoni: per esempio spaceship in italiano è resa normalmente con “astronave” invece che con “nave spaziale”, ed è un termine che per evocatività non ha da invidiare al corrispettivo. Se devo dirlo, non sono neanche sicuro che non preceda linguisticamente il termine innovativo coniato in inglese. Certo, qualche volta qualcosa si perde, come nel caso di beam (dove comunque ci sono anche problemi di doppiaggio), ma in generale nell’epoca classica l’italiano ha offerto facilmente a traduttori, editori e lettori gli strumenti per costruire un universo narrativo corrispondente alla letteratura che arrivava dall’estero. Immagino che questo valesse sistematicamente anche per altri linguaggi: il computer è diventato “calcolatore” senza troppi problemi. Talvolta con curiosi ricorsi, perché gli scrittori inglesi per creare parole evocative si rivolgevano ai termini, più desueti e altisonanti, di origine neolatina: per esempio cryogenic e i suoi derivati contengono il termine greco “cryo-” per “freddo”; in italiano c’era un derivato latino bell’e pronto, “ibernare”.

Si tocca con mano la debolezza dell’italiano, ed è questa la seconda considerazione, se si pensa che questo non è più vero. Cyberspace è “cyberspazio”, “terraforming” è “terraformazione”, esattamente come scan ha dato origine a “scannerizzare”. Il lettore medio (e il traduttore medio) hanno un bagaglio linguistico ridotto e tempi di reazione culturali ancora più brevi: la soluzione più semplice è costruire un calco, spesso molto poco interessante, sull’inglese.

Lo so che non sto dicendo niente di nuovo, eh, nel senso che sono cose che tutti sappiamo (si potrebbe discutere all’infinito, sul fatto che la lingua tende a economizzare, o sul livello della scuola, sul dominio culturale dell’inglese, e così via…), ma talvolta è interessante come un articolo che vorrebbe parlare di tutt’altro finisce per portarti su territori inaspettati, e mi piaceva condividerlo con voi.

Le foto sono tratte dall’articolo originale.

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2 pensieri riguardo “Perché in fondo «Ci porti su, Scotty» è di un’altra epoca

  • Interessante Roberto, io avrei un però. Quella che chiami la debolezza dell’italiano è in realtà la debolezza (estrema) degli italiani, che linguisticamente parlando agiscono da colonizzati che più non si può. Esempi: 1. quelli che dicono “pérformance” invece di “prestazione” oppure di “spettacolo” e che rivelano di essere oltre che dei colonizzati anche dei gran coglioni, che almeno dicessero “perfòrmance” come fanno naturalmente gli inglesi e gli statunitensi 2. Quelli che dicono “postare” (anche tu sei colpevole di questo se non ricordo male) quando abbiamo “affiggere”. 3. Quelli che dicono “disegno” invece di “progetto, progettazione”, in pratica scimmiottando all’incontrario gli inglesi che per non parlare del manuale e semplice disegnare (per il quale avevavo “to draw”) si misero qualche secolo fa giustamente a usare il latino (anglicizzandolo s’intende) proprio per arricchire il loro vocabolario in relazione a campi semantici (et voilà – che genio anch’io?) diversi; mentre loro, gli italioti, reimportando “design” e per piaggeria dicendo “disegno”, perdono totalmente l’articolazione semantica e riducono tutto a una parola sola. 4. Quelli che dicono “scannerizzare” (come hai malauguratamente fatto tu proprio ora) quando abbiamo tranquillamente “scandire” che è pure più corto (quindi più consono anche all’efficiente animo inglese) e vuol dire alla lettera la stessa identica cosa di quello che fa la macchina riproducendo i caratteri “scandendone” i punti. E si potrebbe continuare. Come disse qualcuno, l’italiano è fatto, ora bisogna fare gli italiani

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    • Tutto giusto, Andrea, però l’accento lo pongo sul fatto che questa debolezza degli italiani (o della lingua italiana) si è secondo me accentuata negli ultimi anni, e più che rilevarla sarebbe interessante chiedersi il perché. Del resto gli indizi ci sono anche in altri campi: se uno guarda i peplum o i film in costume degli anni ’60 resta allibito per il livello di conoscenze mitologiche o di storia patria – oltre che linguistiche: i personaggi parlano tutti come libri stampati – che sembrano presupporre nel pubblico. Eppure erano produzioni indirizzate a un pubblico molto popolare…

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